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Ingiusta detenzione e morte del reo sì al risarcimento se coimputati sono assolti Corte Costituzionale , sentenza 23.12.2004 n° 413
L’art. 314, comma 3, del Codice di procedura penale va interpretato nel senso che il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione opera anche in favore degli eredi dell’indagato la cui posizione sia stata archiviata per morte del reo, qualora nella sentenza irrevocabile di assoluzione pronunciata nei confronti dei coimputati risulti accertata l’insussistenza del fatto a lui addebitato. Lo ha stabilito la Corte costituzionale con una sentenza interpretativa di rigetto (n. 413) depositata il 23 dicembre 2004.
Repubblica Italiana. In nome del popolo italiano la Corte Costituzionale
composta dai signori Valerio Onida - Presidente; Carlo Mezzanotte - Giudice; Guido Neppi Modona; Piero Alberto Capotosti; Annibale Marini; Franco Bile; Giovanni Maria Flick; Francesco Amirante; Ugo De Siervo; Romano Vaccarella; Paolo Maddalena; Alfonso Quaranta; Franco Gallo.
ha pronunciato la seguente
sentenza
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 314, comma 3, del codice di procedura penale, promosso, nell’ambito di un procedimento per la riparazione della ingiusta detenzione, dalla Corte di cassazione con ordinanza del 28 marzo-5 giugno 2003, iscritta al n. 817 del registro ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell’anno 2003. Udito nella camera di consiglio del 27 ottobre 2004 il Giudice relatore Guido Neppi Modona.
Ritenuto in fatto
Con ordinanza del 28 marzo 2003 la Corte di cassazione ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 13 e 24, terzo (recte: quarto) comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 314, comma 3, del codice di procedura penale, "nella parte in cui non prevede, in caso di archiviazione del procedimento per morte del reo, la spettanza della riparazione per ingiusta detenzione qualora nello stesso procedimento o comunque sulla base dello stesso materiale probatorio si accerti nei confronti dei coimputati che il fatto non sussiste".
La rimettente riferisce:
che le figlie di persona sottoposta agli arresti domiciliari dal 21 febbraio al 15 maggio 1992, la cui posizione era stata archiviata per morte (avvenuta il 6 dicembre 1992) nell’ambito di un procedimento all’esito del quale tutti i coimputati erano stati poi assolti (con sentenza di primo grado pronunciata il 5 luglio 2000, divenuta irrevocabile) con la formula il fatto non sussiste, avevano avanzato domanda di riparazione per l’ingiusta detenzione subita dal padre, sul presupposto che anch’egli sarebbe stato assolto se non fosse morto prima della pronuncia della sentenza sul merito dell’accusa; che la Corte di appello aveva rigettato la richiesta, rilevando che l’ipotesi di archiviazione per morte del reo non rientra tra i casi di proscioglimento che consentono l’equo indennizzo; che avverso tale decisione le eredi dell’indagato avevano proposto ricorso per cassazione, deducendo la violazione di legge per non essere stato applicato l’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile, che impone il ricorso alle norme che regolano casi simili o analoghi allorché una controversia non può essere decisa sulla scorta di una precisa disposizione.
Tanto premesso, la Corte di cassazione osserva, in punto di rilevanza, che sussiste "la legittimazione delle istanti, in virtù dell’art. 644, comma 1, cod. proc. pen., richiamato dall’art. 315, comma 3, cod. proc. pen." e che "nessun problema si pone [...] in ordine alla tempestività del ricorso, in quanto il termine iniziale di decadenza per la proposizione dell’istanza riparatoria decorre dalla notificazione del provvedimento di archiviazione, notificazione che in caso di morte non è prevista". Nel merito, la rimettente ritiene che correttamente la Corte di appello ha escluso che potessero estendersi i casi di riparazione tassativamente previsti, che "costituiscono ius singulare, stante la loro natura indennitaria e non risarcitoria", e che il tenore testuale della disposizione censurata imporrebbe di dichiarare infondato il ricorso. In particolare, poiché l’art. 314, comma 3, cod. proc. pen. regola le ipotesi in cui un provvedimento di archiviazione fa sorgere il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione facendo rinvio alle disposizioni dei commi l e 2 dello stesso articolo, qualora non venga in discussione l’ingiustizia formale della detenzione a norma del comma 2 del medesimo articolo, ma esclusivamente, come nel caso in esame, la sua ingiustizia sostanziale, soltanto l’archiviazione pronunciata perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o perché il fatto non è previsto come reato potrebbe, in base alla disciplina positiva, dare luogo alla riparazione. Secondo la rimettente, tuttavia, se in via generale e di principio appare conforme alla logica del sistema che la riparazione per l’ingiustizia (sostanziale) della detenzione debba discendere dall’adozione di una delle formule di proscioglimento anzidette, non è altrettanto ragionevole che la riparazione debba essere negata in relazione alla detenzione subita dall’indagato la cui posizione sia stata archiviata per morte quando, proseguendo il procedimento nei confronti dei coindagati, l’insussistenza del fatto risulti accertata da sentenza irrevocabile. "L’insussistenza del fatto, per la sua essenza ontologica", non può difatti non riguardare anche colui nei cui confronti il reato è dichiarato estinto per morte, "ovviamente a condizione che l’accertamento dell’insussistenza del fatto avvenga nello stesso procedimento, o in altro procedimento, ma comunque sulla scorta del medesimo materiale probatorio". Sulla base dei principî affermati dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 310 del 1996 (con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 314 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede la riparazione per ingiusta detenzione patita a causa di erroneo ordine di esecuzione) e n. 109 del 1999 (con la quale la medesima norma è stata dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui non prevede la riparazione in caso di arresto o fermo non convalidato dal giudice con decisione irrevocabile), primo fra tutti quello per cui "l’ingiusta detenzione va comunque ristorata", la disciplina censurata risulterebbe perciò affetta da plurimi profili di illegittimità costituzionale. In particolare, ad avviso della Corte di cassazione la disposizione censurata violerebbe l’art. 3 Cost., perché disciplina in modo ingiustificatamente deteriore la situazione relativa alla posizione di chi, privato della libertà personale in forza di una misura custodiale ingiusta, e quindi deceduto, non ha potuto ottenere il proscioglimento nel merito con una delle formule che consentono l’indennizzo, e perché irragionevolmente non permette neppure di porre a base della riparazione l’accertamento, operato a posteriori nei confronti dei coimputati, che il fatto non sussiste, che l’imputato non lo ha commesso, che il fatto non costituisce reato o che non è previsto dalla legge come reato. La previsione in esame violerebbe inoltre gli artt. 2 e 13 Cost., posto che, come rilevato dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 446 del 1997 e n. 109 del 1999, la riparazione per ingiusta detenzione ha "un fondamento squisitamente solidaristico: in presenza di una lesione della libertà personale rivelatasi comunque ingiusta con accertamento ex post, la legge, in considerazione della qualità del bene offeso, ha riguardo unicamente alla oggettività della lesione stessa". D’altra parte, proprio al fine di "porre riparo ai vuoti legislativi discendenti da una previsione testuale anziché virtuale delle ipotesi di equo indennizzo", nella sentenza n. 109 del 1999 la Corte costituzionale ha affermato che la materia "non tollera franchigie temporali a favore di alcuna autorità" e che tutte le offese arrecate alla libertà personale mediante ingiusta detenzione devono essere riparate, indipendentemente dalla durata di questa e quale che sia l’autorità dalla quale la restrizione provenga, sottolineando come tale esigenza fosse già ben presente nella legge-delega n. 81 del 16 febbraio 1987, che al punto 100 dell’art. 2, comma l, recava una direttiva concernente la riparazione della ingiusta detenzione senza distinzione alcuna tra i fattori genetici di tale ingiustizia.
Considerato in diritto
La Corte di cassazione dubita, in riferimento agli artt. 2, 3, 13 e 24, quarto comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 314, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che la riparazione per l’ingiusta detenzione venga riconosciuta anche "in caso di archiviazione per morte del reo", qualora successivamente sia stata pronunciata nei confronti dei coimputati, sulla base del medesimo materiale probatorio, sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste. La Corte rimettente - chiamata a pronunciarsi sul ricorso delle figlie di un indagato nei cui confronti era stato emesso provvedimento di archiviazione per morte - rileva che l’estinzione del reato per morte del reo non rientra tra le formule di proscioglimento a cui è ricollegata l’ingiustizia sostanziale della detenzione, elencate dall’art. 314, comma 1, cod. proc. pen. e richiamate dal comma 3. Escluso che il caso in esame possa essere ricondotto alle ipotesi di ingiustizia formale della detenzione di cui all’art. 314, comma 2, cod. proc. pen., il giudice a quo ritiene che la disciplina censurata, nella parte in cui esclude la riparazione nel caso di archiviazione per morte del reo, qualora l’insussistenza del fatto addebitato all’indagato deceduto risulti accertata dalla sentenza irrevocabile di assoluzione pronunciata nei confronti dei coimputati, sia intrinsecamente irragionevole. Alla luce delle considerazioni svolte nelle sentenze della Corte costituzionale numeri 310 del 1996, 446 del 1997 e 109 del 1999, la Corte di cassazione rileva inoltre che la norma censurata contrasta: con l’art. 3 Cost., in quanto detta una disciplina irragionevolmente deteriore in relazione al caso in cui l’indagato non ha potuto, solamente perché nel frattempo deceduto, essere assolto come i coimputati con una delle formule che avrebbero consentito di esercitare il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione; nonché con gli artt. 2 e 13 Cost., in quanto, avendo l’istituto della riparazione "un fondamento squisitamente solidaristico", in presenza di una privazione della libertà personale rivelatasi a posteriori comunque ingiusta, si deve avere riguardo "unicamente alla oggettività della lesione".
La questione non è fondata, nei sensi di cui in motivazione.
Ripetutamente chiamata a pronunciarsi sulla sfera di applicazione dell’art. 314 cod. proc. pen., questa Corte ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale nella parte in cui non prevede il diritto all’equa riparazione per la detenzione ingiustamente subita a seguito di erroneo ordine di esecuzione (sentenza n. 310 del 1996) e di arresto in flagranza o di fermo (sentenza n. 109 del 1999). La Corte ha fatto riferimento sia all’art. 3 Cost., a causa del trattamento discriminatorio riservato alle situazioni esaminate rispetto a quella di chi abbia subito la detenzione a seguito di una misura cautelare, sia agli artt. 2 e 13 Cost. (sentenza n. 109 del 1999), richiamando la sentenza n. 446 del 1997 nella quale erano già stati posti in luce il fondamento solidaristico della riparazione per l’ingiusta detenzione e l’esigenza che, "in presenza di una lesione della libertà personale rivelatasi comunque ingiusta, con accertamento ex post, in ragione della qualità del bene offeso si deve avere riguardo unicamente alla oggettività della lesione stessa". Successivamente, sulla base dei principî affermati nelle precedenti sentenze di accoglimento, la Corte ha ritenuto superabili in via interpretativa altri dubbi di legittimità costituzionale prospettati in relazione all’ambito di applicazione dell’art. 314 cod. proc. pen. In particolare nella sentenza n. 284 del 2003 la Corte ha ritenuto che anche la detenzione ingiustamente patita a causa di un ordine di esecuzione relativo a una pena scontata sulla base di una sentenza di condanna pronunciata all’estero dà diritto alla riparazione a norma dell’art. 314 cod. proc. pen., ribadendo che tale diritto "non è precluso dalla legittimità del provvedimento che determina la privazione della libertà personale, né richiede che la detenzione sia conseguenza di una condotta illecita", in quanto ciò "che rileva è l’obiettiva ingiustizia di quella privazione che, per la qualità del bene coinvolto, postula una misura riparatoria". Facendo appello ai medesimi principî, con la sentenza n. 230 del 2004, in un caso di custodia cautelare disposta per un fatto per il quale era già intervenuta una sentenza passata in giudicato, la Corte ha affermato non esservi ostacoli a fare rientrare tale situazione nell’ambito dell’art. 314, comma 2, cod. proc. pen., non essendo riscontrabile alcuna differenza tra l’ipotesi di misura cautelare disposta in presenza di scriminanti o nei confronti di persona non punibile (situazioni previste dall’art. 273, comma 2, cod. proc. pen., a sua volta richiamato dall’art. 314, comma 2, cod. proc. pen.) e il caso di chi abbia subito la custodia cautelare per un reato per il quale l’azione penale non avrebbe potuto essere esercitata per la preclusione del ne bis in idem prevista dall’art. 649 cod. proc. pen. Infine, con la sentenza n. 231 del 2004 la Corte ha rilevato che una lettura costituzionalmente orientata del complesso normativo che regola la materia estradizionale impone di riconoscere in via interpretativa il diritto alla riparazione per la detenzione ingiustamente sofferta anche nel caso di arresto provvisorio e di applicazione provvisoria della custodia cautelare su domanda di uno Stato estero di cui venga successivamente accertata la carenza di giurisdizione.
Nel caso in esame le stesse argomentazioni svolte dalla Corte di cassazione nell’ordinanza con cui è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 314, comma 3, cod. proc. pen., emessa prima delle sentenze interpretative alle quali si è fatto riferimento, possono essere agevolmente addotte a sostegno di una lettura della disciplina censurata conforme a Costituzione. Ove si tenga presente, alla luce dei parametri di cui agli artt. 2, 3, 13 e 24, quarto comma, Cost., che ai fini del riconoscimento del relativo diritto rileva unicamente una privazione della libertà personale rivelatasi a posteriori comunque ingiusta, gli effetti dell’assoluzione con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, pronunciata nei confronti dei coimputati della persona la cui posizione era stata archiviata per morte, non possono non essere estesi agli eredi di tale soggetto qualora emerga incontrovertibilmente che anch’egli sarebbe stato assolto con la medesima formula adottata per i concorrenti nel reato, ove non fosse deceduto prima della conclusione del procedimento. L’interpretazione conforme a Costituzione è avvalorata da significative indicazioni normative, anche di natura sovranazionale. L’art. 2, n. 100, della legge 16 febbraio 1987, n. 81, contenente la delega legislativa per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale, enuncia la direttiva della riparazione dell’ingiusta detenzione, senza porre alcuna limitazione circa il titolo della detenzione stessa o le ‘ragioni’ dell’ingiustizia; tra le convenzioni internazionali ratificate dall’Italia relative ai diritti della persona e al processo penale, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 19 dicembre 1966, prevedono il diritto ad un equo indennizzo in caso di detenzione illegale, senza alcuna limitazione. La questione deve pertanto essere dichiarata non fondata, in quanto l’art. 314, comma 3, cod. proc. pen. va interpretato nel senso che il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione opera anche in favore degli eredi dell’indagato la cui posizione sia stata archiviata per morte del reo, qualora nella sentenza irrevocabile di assoluzione pronunciata nei confronti dei coimputati risulti accertata l’insussistenza del fatto a lui addebitato.
per questi motivi
la Corte Costituzionale
dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 314, comma 3, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 13 e 24, quarto comma, della Costituzione, dalla Corte di cassazione, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 dicembre 2004.
Valerio Onida, Presidente Guido Neppi Modona, Redattore
Depositata in Cancelleria il 23 dicembre 2004.
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