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USA. Nel 2001, 5.300 minori immigrati sono finiti in carcere
Famiglia Cristiana, 21 agosto 2001
Sono clandestini e devono restare dentro. Per gli adulti, lavoratori, si chiude un occhio. Per loro no. Sono soli, spesso malati, maltrattati. È la faccia sporca dell’America. Quando Got venne chiuso in carcere sapeva a malapena il suo nome, Phanupong Khaisri, ma nessuna guardia era capace di pronunciarlo, perciò lo chiamarono Got. Aveva due anni. Ora ne ha quattro. Ha passato metà della vita nelle mani di una banda di sfruttatori di prostitute, e l’altra metà nell’asilo nido di una prigione a Los Angeles. Non può essere adottato perché i suoi documenti non sono in regola. Per due volte, senza capire, è stato trascinato davanti a un giudice e minacciato di deportazione. La sua storia rispecchia due volti dell’America. La nazione facile a commuoversi, che voleva dare asilo non richiesto al piccolo naufrago cubano Elian, ha anche una faccia crudele, messa a nudo da un’inchiesta del Congresso. Nelle carceri americane ci sono almeno 500 bambini nelle condizioni di Got. Come lui, sono immigrati illegali. Molti sono stati rimandati nei Paesi di origine, dove li attendevano fame, violenza e a volte la morte. Altri sono stati chiusi in cella per mesi o anni, in attesa che la burocrazia decidesse il loro destino. L’anno scorso questa sorte è toccata a 5.300 minori tra 7 e 17 anni, orfani o abbandonati dai genitori. L’Ins, ente di controllo sull’immigrazione, tollera centinaia di migliaia di clandestini adulti, sotto la pressione delle aziende che hanno bisogno di mano d’opera. Con i bambini, la legge è inflessibile. Il caso di Got ha spinto Dianne Feistein, senatrice della California, a presentare un progetto di legge "per la protezione dei bambini stranieri non accompagnati". Le autorità sarebbero obbligate a nominare un tutore per ogni minorenne bloccato alla frontiera. La custodia verrebbe affidata alle assistenti sociali del ministero della Giustizia. La proposta è allo studio di una commissione, e difficilmente sarà messa ai voti prima delle elezioni parlamentari di novembre. L’America in guerra contro il terrorismo ha altre priorità. La storia di Got. Got è nato in Thailandia. La madre lo ha venduto a una banda che rifornisce i bordelli del Nevada. Il trucco è noto: una giovane coppia con un bambino in braccio si presenta ai controlli per l’immigrazione con documenti apparentemente in regola. L’agente di turno, intenerito dal bambino, dà appena un’occhiata ai passaporti. La donna viene avviata verso il Nevada, dove la prostituzione è legale, l’uomo e il bambino ripartono. Nell’aprile 2000 Got viene bloccato all’aeroporto di Los Angeles. I medici del carcere scoprono che è sieropositivo. L’Ins propone di rimandarlo in Thailandia. L’avvocato Peter Schey, presidente del Centro per i diritti umani e costituzionali, assume la difesa e per due volte blocca la deportazione. Tv e giornali si interessano al caso e il ministro della Giustizia Ashcroft ordina all’Ins di accettare la richiesta di asilo. Ma la burocrazia non riesce a decidere che tipo di visto può essere concesso a Got. In attesa che cambino le regole il piccolo malato rimane in carcere. Fega, invece, è una bambina nigeriana di sette anni, arrestata all’aeroporto di New York dove era arrivata sola con un passaporto falso. La madre, immigrata clandestina, non osa farsi avanti, perché teme di essere rimandata in Africa. Per 15 mesi Fega è chiusa in un centro di detenzione a Miami. Alla fine si presenta una cugina, Lara Alatise, che offre di prenderla in custodia. Ma l’Ins tiene la bambina prigioniera per altri due mesi, nel tentativo di rintracciare la madre e di espellerle entrambe. Quattro boy-scout Herry Kiegemwe, Fikiri Lusango, Abraham Tembo e Anthony Lumumbo sono quattro boy-scout della Tanzania, invitati a un convegno di giovani a Filadelfia. Prendono il treno per Washington, entrano in un commissariato di polizia e domandano se sia possibile cambiare il visto turistico con un visto studentesco. Tutti e quattro vengono imprigionati per mesi in Pennsylvania in attesa che un giudice si pronunci sulla richiesta di asilo. "Come può un ragazzino spaventato", protesta l’avvocato Andrew Morton, "tenere testa a un incallito procuratore di accusa che chiede la sua deportazione?" A 14 anni, Edwin Munoz ha percorso migliaia di chilometri a piedi e in autostop. Fuggiva dall’Honduras. Il padre era morto e la madre lo aveva abbandonato. È stato arrestato mentre cercava di entrare in California. "Per tutta la vita", ha raccontato alla Commissione Giustizia del Senato, "avevo sognato gli Usa. Ma nel riformatorio di San Diego dove sono prigioniero da due anni ho conosciuto solo malvagità e violenza, chiuso in cella 18 ore al giorno. Nell’ora d’aria c’è sempre qualche teppista che attacca briga, le guardie ci bastonano o ci inondano di spray al pepe. La prima volta che ho ricevuto un getto negli occhi credevo di diventare cieco. Piango tanto nella mia cella. E non so se sarò mai liberato". Il racconto delle sofferenze di Edwin ha commosso il senatore Ted Kennedy. "Vedrai che l’America dei tuoi sogni esiste", ha detto, e grazie al suo intervento in poche settimane il bambino ha trovato una famiglia adottiva e cominciato una nuova vita. Altri, troppi altri, aspettano ancora la loro occasione.
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