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Detenuti senza diritti
In Ruanda abbondano le carceri affollate di detenuti, costretti a condizioni disumane, con notevoli ripercussioni sul tessuto sociale del paese: intervista ad un operatore Caritas che ha lavorato lì
Rivista del Volontariato, gennaio 2004
Una nazione grande come la Lombardia, con una popolazione di 7 milioni di abitanti e la maggiore percentuale di prigionieri rispetto alla popolazione (almeno fino a poco tempo fa) con un detenuto ogni 60 cittadini (in Italia è di circa 1 a 1000). Prima del timido regresso registrato negli ultimi mesi, il numero totale di persone in detenzione era di 120.000 (dati non ufficiali ma attendibili). Questa è l’esclusiva testimonianza di un operatore della Caritas italiana, rientrato in agosto, di cui non possiamo rivelare l’identità.
Può sintetizzare com’è organizzato il sistema carcerario ruandese? "L’arcipelago "carceri" si estende capillarmente su tutto il territorio e comprende sia le Prigioni Centrali (11 strutture, per lo più preesistenti ai tragici avvenimenti dell’estate ’94), che quelle Comunali disseminate nelle zone più periferiche del Paese. L’affollamento di entrambe supera ogni immaginazione: per lunghi anni malattie e fame hanno costituito i soli fattori significativi di decremento della popolazione carceraria dello Stato. Nelle prigioni era rinchiusa una parte importante della forza lavoro del Paese, delle campagne e delle periferie cittadine, mentre la parte restante era o scomparsa o fuggita nei paesi confinanti".
La Caritas, attenta alle esigenze degli "ultimi", preso allo di questa realtà, che priorità ha stabilito? "Non ha trascurato questa piaga dolente, benché il massimo dell’attenzione e dell’impegno economico fosse volto al ripristino delle strutture sanitarie della Chiesa (il 44% di tutte le strutture sanitarie del Paese eroganti più del 70% di tutti i servizi sanitari). Questa era stata la richiesta delle Autorità, governative ed ecclesiastiche. Ricostruiti e fatti funzionare un centinaio tra ospedali (4, per un totale di 600 posti letto) e centri di Sanità, Maternità - centri nutrizionali, Caritas Italiana ha avuto a disposizione più risorse, sia come personale che come mezzi, per rivolgersi anche ad altri settori del bisogno. La scelta prioritaria d’intervento è caduta sulle Prigioni Comunali, vero e proprio arcipelago di strutture detentive minori (rispetto alle Prigioni Centrali) disseminate su tutto il territorio nazionale, in corrispondenza degli uffici comunali periferici. Si calcola, che inizialmente (ora in certo numero sono state chiuse) ci siano state più di 200 di queste carceri, "piccole" solo rispetto alle Prigioni Centrali. Molte di esse contenevano più di mille prigionieri, accalcati in pochi metri, in edifici già magazzini di stoccaggio, scuole, banche di villaggio, o costruiti appositamente in canne e fango e totalmente privi di servizi igienici e di aerazione. In tre casi le condizioni di vita erano tali, che fu possibile ottenere dalle Autorità competenti il permesso di costruire (con fondi Caritas) carceri ex novo".
I primi obiettivi realizzati? "I primi interventi sono stati rivolti a rispondere ai bisogni vitali: nutrizione, assistenza sanitaria di base, igiene, recupero di spazio (per quanto possibile). Va dato atto alle Autorità responsabili di aver dimostrato, entro i limiti che la situazione socio - politica ereditata da una guerra fratricida consentiva, grande spirito collaborativo. Furono attivate semplici ma efficienti strutture per preparare il cibo in modo regolare. Un pasto ad alto contenuto nutrizionale preparato dagli stessi prigionieri (circa 6.000 i beneficiari), veniva distribuito 4 volte a settimana. Furono poi attivati "campi penitenziari" per fornire cibo ai prigionieri e strapparli all’inedia che causava depressione".
Per le donne avete avuto particolari attenzioni? "Su un totale di 120.000 detenuti, le donne erano circa il 10% e sono state oggetto di particolare sollecitudine. Oggi il numero delle donne nelle Carceri Comunali è drasticamente diminuito. All’inizio della detenzione circa 200 di esse avevano con sé uno o più bambini con meno di cinque anni. Queste donne, grazie a sollecite indagini, hanno ottenuto un’abbreviazione dei tempi del procedimento giudiziario e della sentenza. Attualmente, salvo eccezioni, in carcere non ci sono più bambini".
Il bilancio del lavoro, è sostanzialmente positivo? "All’inizio la novità dell’evento e le disponibilità finanziarie fecero pensare ad un intervento molto più breve di quello poi resosi necessario. La Caritas iniziò col gestire 6 Prigioni Comunali (5.000 detenuti), per poi passare, nel giro di un anno, a 11 (8.000 prigionieri). Il numero si stabilizzò per circa 3 anni (per il passaggio dei detenuti nelle Prigioni Centrali) per poi calare, da gennaio 2003, con i provvedimenti di "liberazione provvisoria". Continuare, senza il sostegno del Pam (Programma Alimentare Mondiale), sarebbe stato impossibile. Dal 2000, venuto meno tale finanziamento, la Caritas Italiana si è dovuta far carico dell’intero onere".
Quali cambiamenti ci sono stati dopo sei anni d’impegno? "La ricaduta positiva di questo intervento sul tessuto sociale ha avuto dimensioni enormi, sia sui detenuti sia sulle loro famiglie. Mentre all’inizio i reclusi nelle Carceri Comunali dipendevano (per cibo, vestiario, igiene, etc) dalle famiglie, con l’introduzione del programma donne e bambini non dovettero più mettersi quotidianamente in cammino per portare loro il necessario e la mortalità dei prigionieri diminuì sensibilmente per poi tornare su valori "normali".
Ora i diritti dei detenuti sono maggiormente tutelati? "Dallo scorso gennaio si sono avuti segnali di miglioramento, ma si è trattato e si tratta d’illusioni. Infatti il deteriorarsi delle strutture carcerarie, la lunghezza dei processi, la necessità di evitare rivolte, l’impossibilità di giustificare agli occhi del mondo l’utilizzo dei fondi profusi, ha determinato la scelta di compiere, non liberazioni ma "gesti di clemenza". Questo significa, che i circa 40.000 reclusi, per lo più anziani, malati cronici, persone minorenni al momento del compimento del reato (delle Carceri Centrali e Comunali) tornati a casa dopo almeno sei anni ed un giorno di prigione, potrebbero, in prospettiva, in caso di riapertura dei processi, veder di nuovo spalancarsi le porte delle galere".
Elisabetta De Laura
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