Le
comunità da sole non bastano ad aiutare chi esce dal carcere
Conclusa la serie di incontri organizzata
da Arcobaleno e Provincia
Il
Piccolo, 21 maggio 2002
Per un detenuto il campo minato comincia al primo passo fatto fuori dal carcere.
L’impatto con la cultura del dito puntato è stata al centro dell’ultimo
appuntamento del corso per assistenti volontari penitenziari promosso dalla
Comunità Arcobaleno, ospitato dalla Provincia. L’incontro, intitolato «Oltre
le mura: esperienze di lavoro tra dentro e fuori», ha avuto come protagonisti
tre personaggi che vivono le difficoltà all’inserimento quotidianamente: Pino
Roveredo della Comunità San Martino al Campo, che si occupa del recupero
attraverso esperienze teatrali e culturali, Alessandro Castellari della
Cooperativa «Oasi», impegnata nell’inserimento lavorativo, e Liliana Lipone
dell’Associazione «Icaro».
«Fare qualcosa di concreto per il carcere non è facile, anzi è molto
faticoso. Ci deve essere un insieme di forze, i detenuti devono collaborare con
i volontari», ha esordito Castellari. E raccogliendo l’approvazione degli
altri due ospiti, ha continuato: «Un detenuto quando esce dal carcere ha
intorno terra bruciata. Le realtà come la nostra offrono una casa, e permettono
di farsi le ossa, di ritrovare l’equilibrio fisico e di assumere capacità
lavorative. Ma non sono un punto di arrivo definitivo, o si fa qualcosa unendo
le forze, o crolla tutto. Bisogna dire: scommettiamo che insieme ce la
facciamo».
Oltre che parlare della propria Comunità, Roveredo ha portato la sua esperienza
di ex carcerato: «26 anni fa sono stato detenuto a Gorizia. Oggi sono uno
scrittore, e proprio lo scrivere mi ha salvato. Più che la legge mi sono stati
di grande aiuto gli affetti, le emozioni, anche se ancora oggi ho paura a
entrare in questura o rimango molto impressionato quando sento notizie di
violenze morali e fisiche. La società ha una sua responsabilità, spesso ti
costringe a portare il carcere sulla pelle».
Terminato il ciclo di appuntamenti, ora sta ai singoli decidere se cominciare a
impegnarsi in prima persona. «Abbiamo parlato tanto di carcere, adesso è il
momento di andare a vederlo e di parlare con i volontari e il personale che ci
lavora. È l’unico modo per fare qualcosa sia per chi deve vivere tra le mura
di via Barzellini, sia per il territorio», ha ricordato il responsabile della
Comunità Arcobaleno don Alberto De Nadai.