|
Droghe: attenzione al rischio "formattazione" Intervista a Riccardo C. Gatti, direttore del Dipartimento delle Dipendenze della Asl Città di Milano
Serviziocivile.it, 22 marzo 2005
Psichiatra e direttore del Dipartimento delle Dipendenze della Asl Città di Milano, Riccardo C. Gatti è considerato uno dei massimi esperti nazionali in tema di tossicodipendenze. Recentemente ha pubblicato per l’editore Franco Angeli il volume "Droga. Architettura e materiali per le nuove reti d’intervento" in cui viene analizzato l’attuale sistema di intervento, destinato a cambiare profondamente vedendo servizi pubblici e del privato sociale andare verso forme di integrazione.
Ha ancora senso parlare oggi di "prevenzione"? La prevenzione è stata sempre considerata molto importante in termini teorici, ma in pratica le risorse destinate erano inadeguate. Purtroppo in questi ultimi anni il mercato della droga ha messo a punto strategie molto aggressive, con una produzione diversificata di sostanze stupefacenti per andare incontro alle varie tipologie di popolazione, in modo da coprire tutto il mercato indipendentemente dalla fascia di età o dalla classe sociale. Una modalità molto simile alle strategie di marketing utilizzate nella grande distribuzione. Da qui si può comprendere quanto siano obsoleti, almeno per parte dei fenomeni di consumo, quegli interventi di prevenzione in cui si spiegano i rischi dell’assunzione di sostanze, con la speranza di suscitare tra i giovani una reazione positiva che induca a non farne uso.
Che produttori e trafficanti di droga non siano degli sprovveduti è acclarato, ma da qui a ipotizzare delle vere e proprio strategie di marketing. Ritiene che sia una casualità la progressiva diffusione di nuove droghe negli ultimi dieci anni, fino a divenire beni di consumo e non solo sinonimo di emarginazione e trasgressione? È evidente che ci siano delle persone che hanno studiato come far cambiare ai consumatori abituali e a quelli potenziali il modo di rapportarsi con le sostanze. Hanno agito credendo in quello che volevano fare e sono riuscite a produrre un cambiamento. Peccato che stiano dalla parte opposta alla nostra. Mi chiedo come mai chi è dall’altra parte possa ipotizzare e riuscire nel compiere un’operazione del genere, mentre dalla nostra parte si continua a teorizzare che ‘ci vuole tempo… bisognerebbe cambiare il mondo. Non si può continuare a considerare la prevenzione, anche tra gli operatori, come la cenerentola degli interventi. Si deve cominciare a studiare il fenomeno e a prevederlo così come avviene in qualsiasi campo commerciale e industriale, dove si riescono a fare previsioni abbastanza attendibili di ciò che accadrà nei prossimi anni. Nelle tossicodipendenze non ci si prova nemmeno. Noi siamo ancora fermi al tentativo di prevenire fenomeni già successi: un paradosso che già da solo è sufficiente a far capire che non ci stiamo muovendo nella maniera giusta.
È un aspetto ricorrente in questo settore, basti pensare che l’ultima ricerca in grande scala sul fenomeno della tossicodipendenza è stata fatta dal Censis nel 1984. È un atteggiamento culturale. Noi abbiamo sempre visto l’abuso di sostanze come un fenomeno da contenere e non come un problema da evitare. Quando ciò è avvenuto è stato sempre a posteriori: ci accorgevamo che c’era una grande diffusione di eroina e ci chiedevamo cosa potevamo fare per contenerla, agendo poi in maniera frazionata, ciascuno per conto proprio, e non secondo una strategia univoca che metteva in campo pubblico e privato-sociale. Qualsiasi altra attività se fosse strutturata in questo modo sarebbe destinata a fallire, salvo rimettersi alla buona sorte. Ma non possiamo pensare che l’abuso di sostanze sia una disgrazia e la capacità di prevenirlo una fortuna!.
Secondo lei gli educatori hanno armi spuntate? A mio avviso la prevenzione non si è evoluta a sufficienza. L’educatore, in qualche modo, è sempre stato considerato un po’ come l’esploratore, cioè come colui che percorre un territorio, ne conosce i pregi e i pericoli, torna indietro e spiega agli altri come viaggiare sicuri. Da questa visione dipende il limite che un giovane possa educare una persona anziana, perché si guarda all’educatore che opera in base all’esperienza che ha vissuto in prima persona. Ma questo non è sufficiente perché il mondo in questi anni è cambiato. Per spiegarmi meglio uso l’esempio di internet: per aiutare le persone a entrare mondo web non si può educarle su ciò che troveranno, perché nessuno può saperlo in quanto la rete è più ampia della nostra esperienza; bisogna insegnare loro a navigare e quindi a dare rilevanza non al cosa ma al come.
Quale influenza sta avendo la televisione nei cambiamenti sociali? La televisione di per sé non è responsabile di nulla: è un mezzo. Ma è attraverso questo mezzo che si è compiuta una rivoluzione in qualche modo anche positiva. Il problema vero è che oggi, in genere, le persone non sono più in grado di comprendere quanto il ricorso ai più noti format televisivi possano condizionare i loro comportamenti.
A cosa si riferisce? Negli ultimi anni si è fatto sempre più ricorso a un prodotto televisivo, particolarmente connesso al marketing. La televisione si autoalimenta della sua stessa produzione e quindi poco alla volta il format riesce a tenere incollati agli schermi milioni di persone, che sono poi le stesse che vedono le pubblicità. La televisione, quindi, come contenitore globale, non solo in grado di contaminare il programma ma anche i consumi, in modo esplicito e implicito. Faccio un esempio: lo spazio della pubblicità è ben definito, tuttavia certi comportamenti possono essere indotti in altre forme che non necessariamente presentano la scritta di lato pubblicità. Non voglio dire che si tratta di pubblicità occulta ma che si crea un format del consumo, in cui la persona vive in un determinato modo, accetta determinate regole e di conseguenza compie determinati consumi, perché, in qualche modo, possiede ed è posseduto dal format del consumo con cui s’identifica.
Ritiene che l’atteggiamento consumistico indotto dai mass media possa ripercuotersi, soprattutto nei giovanissimi, favorendo forme di dipendenza? Ho l’impressione che ci sia un esagerato utilizzo del termine dipendenza. Anche la dipendenza è qualcosa che si può vendere, in quanto poi si fornisce subito pronto un rimedio, anche a costo di chiamare dipendenza ciò che non è. Tutti noi siamo dipendenti da qualche cosa, dall’aria, dall’ambiente in cui viviamo, dalle relazioni, dal lavoro, dai soldi, da tutta la nostra cultura. Tutto ciò è normale, mentre ci deve preoccupare la dipendenza patologica. Io credo che di per sé i format televisivi e le strategie di marketing non costituiscano più di tanto forme di dipendenza o di condizionamento. Il problema è il nostro analfabetismo rispetto ad essi, cioè la nostra incapacità a saperli interpretare.
Come ci possiamo difendere dalla "formattazione"? La tecnologia del marketing è sempre quella di stare un punto più avanti della consapevolezza di chi acquista, dando all’utente la sensazione di essere lui che sceglie, non gli altri che lo scelgono, anche se poi viene dichiarato: noi conosciamo quali sono i tuoi bisogni (e quindi te li diciamo noi). Molto probabilmente nei prossimi anni le persone, poco alla volta, vedranno più il "re nudo", ma al tempo stesso il re saprà far finta di essere vestito meglio. Sarà una rincorsa che, volendo vedere l’aspetto positivo, magari stimolerà le persone a elaborare più informazioni, a poter vivere una vita più complessa, a poter attraversare una serie di situazioni, di stimoli e di esplorazioni che una volta erano negate e che adesso sono possibili.
A cura di Luigi Pagliaro
|