"Come
vanno aiutati i tossici detenuti"
Gli obiettivi e le difficoltà del Progetto
"La cura vale la pena"
da cinque anni operativo a Milano
LA
REPUBBLICA Salute, 11 aprile 2002
Come reagisce la società civile nei confronti di un tossicodipendente o di un
alcolista che commette un reato? Il primo istinto è l’augurio di finire in
galera. Qualcuno però, riflettendo sulle possibili motivazioni, valuterà quel
gesto come la risposta ad una "necessità", e con maggiore indulgenza
concluderà che oltre a punirlo va aiutato, salvaguardando il diritto alla cura.
Con questo spirito è nato a Milano, circa cinque anni fa, il progetto "La
cura vale la pena" ed ogni anno si organizzano convegni internazionali per
confrontare le diverse esperienze. L’incontro del 2002, "Carcere Misure e
Cure Alternative Comunità", si è appena concluso nel capoluogo lombardo.
«Il progetto, nato all’interno del Palazzo di Giustizia di Milano» spiega
Dario Foà, responsabile dell’Area Penale Tossicodipendenze e Carceri della
Asl Città di Milano «è dedicato ai tossicodipendenti fermati o arrestati in
flagranza di reato e sottoposti al processo per direttissima (la sentenza viene
espressa nel giro di poche ore dal momento dell’arresto). Fortemente
condiviso, da magistrati e operatori, socio sanitari dei Sert e di varie
Associazioni, il nostro lavoro consiste nell’avviare da subito, il
tossicodipendente microcriminale verso strutture riabilitative (assistenza
domiciliare, centro diurno, comunità terapeutica), piuttosto che in carcere,
affinché non ricada in comportamenti criminosi, e superi la dipendenza,
riuscendo così a reinserirsi nella società». L’esperienza milanese, unica
nel quadro nazionale, va ad affiancarsi a quelle sperimentate in altri paesi
europei, come Olanda e Gran Bretagna, e cerca di dare una risposta a due
istanze: il diritto di cura e la necessità di creare buone condizioni di vita
nei carceri sovraffollati. La presenza continua di uno o più operatori
sociosanitari in un ufficio presso il Palazzo di Giustizia facilita l’accesso
dei tossicodipendenti alle strutture sanitarie, superando i potenziali problemi
di carattere organizzativo e legislativo. In questo modo gli operatori, fin dal
primo incontro, possono valutare lo stato di dipendenza e stabilire che la
persona ha fatto una richiesta non strumentale, e che intende veramente
iniziare, riprendere o continuare un programma terapeutico, non compatibile con
il regime di custodia cautelare. «Ogni anno» racconta Foà, «circa 1600
persone scelgono di incontrarci; di queste circa il 30 per cento sono
sieropositive o hanno l’Aids conclamato. Per ciascuno cerchiamo la risposta più
opportuna, grazie al prezioso aiuto di diverse associazioni che compongono una
rete. Questo ci consente di affidare il tossicodipendente ad una catena
terapeutica formata da tante figure professionali e competenti, senza creare
quelle situazioni in cui si passa dalla dipendenza della droga ad altre forme di
dipendenza psicologica». Visto che la popolazione detenuta nelle carceri
italiane è rappresentata per il 30 per cento da tossicodipendenti, avviarli
verso le comunità di recupero, oltre a migliorare le condizioni di vita nei
penitenziari, rappresenta un notevole risparmio per lo Stato: uno studio svolto
dall’Area Penale Tossicodipendenze e Carceri dell’Asl Città di Milano
dimostra che un giorno di prigione costa 200 a persona, mentre per mantenerla in
comunità terapeutica si spendono 39 . «Restano due cose importanti da fare,
sulle quali siamo in grave ritardo» conclude Foà, «perfezionare
l’assistenza a chi ha finito di scontare la pena ed è ancora debole e
bisognoso di aiuto; e soprattutto resta aperto il problema dei minori, per i
quali non riusciamo ancora a fare nulla».