Istituzioni e tossicodipendenza

 

Istituzione totale e tossicodipendenza

di Arnaldo Maria Manfredi e Stefano Martello

 

1) Premessa

 

Il titolo di questo breve saggio richiama, forse in maniera provocatoria, un concetto di istituzione carceraria ideata e conosciuta nell’Inghilterra dei secoli XVII – XVIII.

Nell’epoca del consolidarsi dell’avvento della borghesia (in Inghilterra prima che altrove), l’Istituzione Totale era un particolare tipo di Casa Correzionale ove i detenuti erano sotto il costante sguardo dei carcerieri: in pratica, alla segregazione dell’individuo dalla società, si aggiungeva la massima violazione della propria sfera soggettiva realizzata attraverso un controllo assoluto.

La stessa architettura del carcere si era evoluta in modo da rendere possibile questo progetto: non è un caso che proprio in questo periodo Bentham elaborò il sistema c.d. Panottico, ovvero una esasperazione tale del modello da consentire anche ad una sola guardia, da un unico punto, di controllare ogni singolo detenuto in ogni momento. Il carcere diventava così "l’Istituzione Totale" per antonomasia. Lo scorrere dei decenni e dei secoli, insieme all’avvento di una mutata sensibilità sociale (e di governo), portarono al progressivo superamento degli eccessi sovracitati.

Tuttavia, ancora oggi, l’istituto della pena carceraria rappresenta forse l’elemento più caratterizzante dei sistemi penali di stampo occidentale e non solo: quello che semmai ha maggiormente subìto il decorso del tempo, è il modo in cui la dottrina e la società civile si rapportano a questa "realtà separata", specialmente in relazione alle funzioni ad essa riconosciute.

Si è passati in particolare da una visione della pena in senso punitivo, all’ammettere finalità di carattere "rieducativo". Il passaggio si coglie particolarmente nella nostra Costituzione, laddove all’art. 27, 3 si stabilisce che "le pene (…) devono tendere alla rieducazione del condannato".

Alla pena, così, oltre alle due finalità tradizionali di prevenzione generale e speciale dei reati, si aggiunge uno scopo programmatico ulteriore: la risocializzazione del carcerato.

Il coraggioso programma della Costituzione, ha bisogno, per essere attuato, di un mutamento della sensibilità sociale del Paese, che però risulta sempre condizionato dalle emergenze che il nostro Paese si è trovato ad affrontare (gli anni di piombo, la lotta alla mafia etc.): la ricerca di un equilibrio tra un sistema carcerario "dal volto umano", e la necessità di non sminuire il significato "retributivo - preventivo" della pena, non è quindi per niente facile, ed ha dato talvolta origine a casi limite di natura opposta. La tendenza, tuttavia, è quella di una trasformazione sempre più marcata del tradizionale regime di detenzione, anche a favore di forme alternative di pena.

Ma allora, perché parlare ancora in termini di "Istituzione Totale", se ormai il termine appartiene alla storia? Perché in ogni caso, la misura in esame rappresenta nella coscienza collettiva un unico ammasso indistinto, ove abbandono e rifiuto tendono a coincidere. Un luogo dove al male passato se ne aggiunge dell’altro, in una spirale dalla quale non possa esservi redenzione.

 

2) Il tossicodipendente e la società

 

È stato ormai appurato come esista una relazione inequivocabile tra l’uso di sostanze stupefacenti e l’attuarsi di comportamenti delittuosi; una cognizione, questa, non solo proveniente da ambienti scientifici, ma ormai radicata nel "sentire" comune.

Il problema, di conseguenza, non si pone più nei termini del "se" tale relazione esista (appurato che la risposta è affermativa), ma quale essa sia, in che modo si esprima e come debba essere affrontata nell’ambito dell’Istituzione Totale Carcere.

Sempre rimanendo in ambito introduttivo, apparirà chiaro e limpido il fatto che molti comportamenti delittuosi possano essere attuati sotto la spinta di una famigerata quanto crudele sindrome d’astinenza, sotto cioè l’angosciosa necessità di scongiurare le temute conseguenze della sindrome.

In tale situazione il tossicodipendente può commettere reati anche violenti, soprattutto perché sprovvisto di adeguate forme di autocontrollo, obnubilate dalla ricerca ossessiva di droga; ma è anche facile intuire che, nella medesima situazione, il tossicodipendente è anche maggiormente vulnerabile e maggiormente soggetto a subire quella stessa violenza che a volte esercita.

L’uso di sostanze stupefacenti, inoltre, agevola sicuramente il contatto da parte dell’individuo interessato con ambiti e contesti delinquenziali, e in questo caso l’uso di droga non fa che aumentare le possibilità che quello stesso soggetto resti vittima dell’ambiente criminale con cui ha contatti.

Per quanto riguarda la tipologia di reati collegati con l’uso di stupefacenti, da tutte le ricerche condotte in merito, emerge la predominanza di piccoli furti, rapine ed estorsioni anche nei confronti di genitori e parenti; tali tipologie di reato possono modificarsi in gravità con il procedere e l’aggravarsi della condizione di dipendenza dalla sostanza stupefacente da parte del tossicodipendente.

Tale caratteristica – l’assunzione di una sostanza ed il tentativo di procurarsela con ogni mezzo – emerge significativamente anche dalla definizione di "tossicodipendenza" adottata fin dal 1950 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità secondo cui "la tossicodipendenza è una condizione di intossicazione cronica o periodica dannosa all’individuo e alla società, prodotta dall’uso ripetuto di una sostanza naturale o di sintesi; sono sue peculiari caratteristiche: il desiderio incontrollabile di continuare ad assumere la sostanza e di procurarsela con ogni mezzo, la tendenza ad aumentare esponenzialmente la dose (e di conseguenza la tolleranza), la dipendenza psichica e talvolta fisica della sostanza". Al fine di operare una riflessione consapevole sul detenuto tossicodipendente, è necessario, inoltre, esporre una rapida introduzione sull’imputabilità del tossicodipendente.

 

3) Punibilità del tossicodipendente

 

Secondo il dettato dell’art.85 Codice Penale "nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile"; al tempo stesso l’art.88 Codice Penale prevede che non è imputabile "chi, nel momento in cui ha commesso il reato, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e volere".

Tale premessa giuridica rende evidente il fatto di come le sostanze stupefacenti abbiano il potere – interferendo con le funzioni psichiche di un soggetto – di "annullare" l’imputabilità, lo status che consente ad un uomo di rendersi pienamente conto del valore sociale delle sue azioni (comprendere i limiti di una azione lecita e il disvalore di un comportamento antigiuridico).

Ma, se da un punto di vista strettamente naturalistico, appare scontato il ruolo giocato da tali sostanze nelle scelte comportamentali di un soggetto, la situazione diviene un po' caotica sul versante normativo dove diventa necessario, ai fini della pronuncia di non imputabilità, valutare il tipo di intossicazione; gli effetti penali varieranno in presenza di una intossicazione acuta, abituale o cronica.

Le fattispecie sopra descritte sono comprese nel dettato degli art.li 92/93 Codice Penale, che affermano come l’ubriachezza (ma anche l’azione di sostanze stupefacenti) non derivata da caso fortuito o da forza maggiore non esclude né diminuisce l’imputabilità.

Nella formulazione di tali norme il Legislatore ha voluto fortemente affermare il principio delle "actiones liberae in causa" che si concretano nella piena responsabilità, in capo all’individuo, della condizione in cui si viene a trovare e degli atti che – pur compiuti in uno stato di non imputabilità – rappresentano la diretta conseguenza di una libera scelta (l’iniettarsi una dose di droga o il bere molte sostanze alcoliche).

La responsabilità viene quindi individuata non nel momento in cui il reato si compie, ma al momento in cui l’individuo opera una scelta personalissima di porsi in una condizione che possa inibire le sue facoltà psichiche; in tal senso e direzione si è pronunciata la Corte Costituzionale (Cass. Pen. Sez. I, 11/10/1985).

Uniche esimenti previste dalla legge sono quelle che riguardano la possibilità di una intossicazione non voluta né prevista, o conseguenza di un caso fortuito o di forza maggiore (art. 91 C.P. "non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva la capacità di intendere e volere, a cagione di piena ubriachezza derivata da caso fortuito o da forza maggiore. Se l’ubriachezza non era piena, ma era tuttavia tale da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere e volere, la pena è diminuita").

Un’ultima possibilità che consente, pure se all’interno di una situazione di intossicazione acuta, un giudizio di non imputabilità viene rappresentata dalla situazione in cui il soggetto – pur assumendo piccole e minime quantità di sostanza – vada incontro ad una reazione abnorme, che si concreta in una severa compromissione delle funzioni psichiche; condizione indispensabile è che il reato sia stato compiuto durante il primo episodio nella storia clinica del reo, non essendo quest’ultimo a conoscenza di tale propria abnorme reattività di fronte ad una specifica sostanza.

 

4) Il trattamento dei detenuti tossicodipendenti

 

L’interessamento nei confronti del trattamento dei detenuti tossicodipendenti è cresciuto esponenzialmente negli ultimi venti anni, soprattutto a causa dell’aumento vertiginoso della diffusione di tali sostanze all’interno della società italiana, legato ai movimenti di contestazione giovanile degli ultimi anni 1960.

Dal punto di vista scientifico e culturale la visione del problema della tossicodipendenza ancorata ad un modello medico – farmacologico ha ceduto gradatamente ed inesorabilmente il passo ad un modello conoscitivo di stampo socio – psicologico.

Con la Legge 685/1975 sulla disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope vi è stato un riconoscimento della necessità di affrontare il fenomeno con interventi e soluzioni trattamentali territoriali il più ampie possibili, che prevedessero programmi operativi sia in ambito preventivo e sociale, sia in ambito strettamente terapeutico; l’innegabile merito di tale normativa fu soprattutto quello di superare la logica dell’identica sanzione per il trafficante e per il consumatore, logica superata attraverso un processo ideologico teso alla sostituzione di un modello dissuasivo rappresentato dalla carcerazione con modelli incentivanti al recupero, unitamente alla depenalizzazione dell’uso personale di droga.

Il tossicodipendente viene, per la prima volta, visto come una persona malata, e non più esclusivamente come un potenziale pericolo per la società; tale stato di cose si deduce chiaramente anche dall’utilizzo di normali presidi ospedalieri – e non più ospedali psichiatrici – come luoghi di cura.

Con la Legge 297 del 1985 si arriverà a contemplare la possibilità di un trattamento extra carcerario da attuarsi attraverso misure alternative alla detenzione, unitamente all’istituzione di luoghi dove favorire la cura e la riabilitazione del tossicodipendente; un percorso di deistituzionalizzazione che continua con la Legge 663/1986 che – modificando la Legge di riforma del 1975, ed introducendo l’affidamento in prova – concepisce la sanzione penale come stimolo per la persona tossicodipendente, eliminandola (entro i limiti di pena prevista di 3 anni e per qualsiasi reato) in caso di volontà del soggetto interessato di sottoporsi volontariamente ad un programma di recupero.

Modifiche importanti si sono verificate anche nel campo socio – riabilitativo in relazione al potenziamento delle strutture private di tipo comunitario fondate sul volontariato e su modelli terapeutici di tipo relazionale.

L’ultima legge da prendere in considerazione è la 162/1990, legge che per prima si occupa del dramma sociale del tossicodipendente, modificando radicalmente l’assetto ed i compiti istituzionali del carcere, inteso non più come istituto di pena, ma anche come istituzione che deve rieducare ed offrire all’uomo/detenuto/tossicodipendente la certezza della solidarietà sociale che si concretizzerà nei programmi di sostegno per portatori di malattie o di un disagio sociale.

 

5) Finalità di un trattamento differenziato

 

Oltre a quanto già detto, anche il superamento di una certa visione del penitenziario come luogo estraneo alla società, una visione che male si adatta ai tempi che esigono una completa rimozione di ogni ghettizzazione dell’Istituzione Totale che altro non rappresenta che un sottosistema necessario della società, i cui problemi vanno affrontati e risolti dalla stessa società che li ha generati.

Riguardo alle problematiche che il tossicodipendente affronta all’ingresso nel penitenziario, la prima deriva dalla mancata assunzione di droga, una mancata assunzione che, almeno nel primo periodo, viene risolta generalmente attraverso la somministrazione di metadone a scalare per circa venti giorni; ma la problematica maggiore viene rappresentata soprattutto dal come viene visto dalla comunità carceraria il detenuto tossicodipendente.

Generalmente il soggetto prende le distanze da gli altri detenuti, e questo in quanto considera il suo reato come un atto compiuto per necessità e non per vero "istinto" criminale; tutto questo porta, all’inverso, ad un atteggiamento - da parte dei detenuti "normali" (e ci si perdoni il termine altamente improprio!) – di tipo svalutante ed emarginante, in quanto il soggetto viene compreso come un debole che farebbe qualunque cosa per una dose e che, in più, rappresenta un costante pericolo di "contaminazione".

Tutto questo spiega ancora di più il perché il detenuto tossicodipendente necessiti di strutture specifiche, e soprattutto di un trattamento specifico che, recentemente, è stato individuato nel c.d. trattamento avanzato a custodia attenuata.

Un programma che parte addirittura dalla struttura muraria, considerando l’ambiente come ambito fondamentale da usare per la rinascita di una identità persa, o solo smarrita tra lo stordimento provocato dalla droga; l’aspetto architettonico dell’Istituzione, pur conservando lo status di istituto di pena, avrà quindi un aspetto più soft: le sbarre alle finestre di un colore rosso acceso – per esempio – o spazi verdi dove i detenuti possano svolgere attività ricreative o colloqui con i parenti.

 

6) Istituzione totale e sindrome da immunodeficienza acquisita

 

Si è scelto di affrontare il problema in questa sede, prendendo atto che sono molti i detenuti tossicodipendenti portatori della sindrome da HIV.

È ben noto l’effetto principale della malattia conclamata: la distruzione del sistema immunitario del malato, con conseguenza di una vulnerabilità enormemente accresciuta verso ad infezioni, attacchi di virus etc.

La permanenza di tali soggetti in luoghi promiscui, caratterizzati da una scarsa igiene, ha non solo l’effetto di aumentare le infezioni cui costoro possono andare soggetti. Anche gli operatori e gli altri detenuti possono rimanere contagiati dalla malattia.

Sulla scorta delle considerazioni sopra accennate, risulta evidente come il carcere non possa essere luogo idoneo per la custodia di questi soggetti, specie in periodi di grave sovraffollamento delle carceri.

Già nel 1989, del resto, la Commissione Nazionale per la lotta all’AIDS si era pronunciata circa la totale incompatibilità tra soggetti colpiti dalla malattia ed il regime carcerario.

La legge, ha recepito solo in parte queste indicazioni, essendo riconosciuto come "malato conclamato" chi si trovasse in situazione di "grave deficienza immunitaria" (ossia: presentasse un numero di linfociti inferiore a 100 T4), mentre si richiede che la soglia, valida a comprendere soltanto soggetti che si trovino in uno stadio molto avanzato della malattia, debba essere raddoppiata.

Al di sotto della soglia di cui sopra, comunque, sorge per il direttore dell’Istituto Penitenziario l’invito a valutare se non sia più opportuno disporre l’allontanamento dal malato dal circuito carcerario verso case alloggio, o apposite strutture, od addirittura verso il proprio domicilio.

Tuttavia, manca a tutt’oggi un piano organico a livello nazionale su come affrontare il fenomeno, così come le strutture interne adatte alla gestione delle emergenze (ad esempio, per disporre di una camera sterile per interventi di urgenza).

 

Bibliografia

 

Carrieri F., Serra C., Tossicodipendenza e criminalità, Bari, 1997

Castellani, R., Trattamento della tossicodipendenza in carcere, in Rass. penit. e crim., Milano, 1988, pp. 195 e ss.

Fiandaca G., Musco E., Diritto penale Parte generale, Bologna, 1995

Martello S., Dossier carcere, in www.arcobaleno.net, 2000

Ponti G., Compendio di criminologia, Milano, 1990

 

 

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