8 marzo anche in carcere

 

Donne e carcere

 

Il Risveglio Popolare, 7 marzo 2003

 

Oggi parliamo di donne, di donne nel carcere: l’8 marzo è anche la loro festa.
Sono poche, sono circa solo il 4,4% dell’intera popolazione detenuta; ma la loro situazione è particolare e, per certi versi, ancora peggiore di quella degli uomini.

Intanto va subito detto che con loro, oggi, in Italia, ci sono anche 42 bambini detenuti.
Sì, bambini piccoli che passano tutte le loro giornate dietro a delle sbarre, che hanno tante "zie" ma nessun padre, che per tre anni vivono quasi in simbiosi costante con le loro madri e poi, dopo, da un giorno all’altro, ne vengono totalmente privati e non le vedranno più se non nel caos dei colloqui periodici. Perché così dice la legge: fino a tre anni le madri possono tenere (e spesso "devono", perché non hanno altri che le possano sostituire o perché non ce la fanno a viverne senza) i loro figli con sé; dopo non possono più (e meno male, da un certo punto di vista).

A parte questo, abbiamo detto, la presenza femminile in carcere è tutto sommato scarsa: qualche residuo terroristico, qualche spacciatrice di borgata, qualche zingara borseggiatrice o ladra di appartamenti, qualche signora che ha ucciso il marito, ultimamente anche qualche donna di mafia e camorra, ma poche; soprattutto qualche tossicodipendente malmessa. Ed è per questo che sono pochi gli istituti carcerari che hanno anche una sezione femminile: ad Ivrea, ad esempio, non c’è. Quando, poco più di vent’anni fa, il nostro carcere fu aperto, aveva in effetti predisposta anche una sezione femminile; ma non è mai stata occupata, tanto che, col nome di Ristrutturata, ospita oggi una sezione maschile particolare.

Così noi non abbiamo esperienze dirette di cosa significhi per una donna vivere in carcere; tuttavia ne abbiamo letto qualcosa. Dicono, ad esempio, che si conservi una grande cura di sé, come per ribadire una normalità, per affermare una individualità, per ricordarsi ogni giorno che ancora si esiste: pettinature, trucco, vestiti, riviste che vengono passate di cella in cella… E ricette, ricette di cibi che parlano di casa, di nostalgie dell’infanzia, di mondi lontani e diversi; e cibo condiviso, come elementare gesto di accoglienza o di amicizia, che, in un mondo deprivato di ogni cosa, riacquista l’antica connotazione di condivisione e cura amorevole.

Vicino ai fornelli pulsa un mondo di rapporti, di confidenze, di ricordi, mentre si rivivono le proprie abitudini e i piaceri della casa, si cerca di vincere la nostalgia, si tenta di costruire insieme un pezzo di famiglia. Perché la famiglia è ciò che più manca alla donna in carcere, tutto quel tessuto di rapporti e di cure di cui da sempre è stata destinata custode: i figli lontani, che non si possono vedere e seguire; ma anche i figli che si vorrebbe avere e che forse non si farà più in tempo…
Allora l’amicizia diventa sostegno e scambio intenso, attenzione alle piccole gentilezze, lessico comune, racconto intimo e confidenziale, come ogni donna ha sperimentato qualche volta nel corso della vita, quando si è trovata con altre come lei e si è lasciata andare. Perché la donna, più dell’uomo, anche quella più dura e più provata, desidera parlare, confrontarsi, anche… spettegolare, ma sempre mettendosi in gioco, sempre senza negare né negarsi emozioni e commozioni.

Poi si lavora; anche la continua laboriosità è tipicamente femminile: la pulizia accurata della cella, la sua personalizzazione con ninnoli, fiori di plastica, fotografie; e la frequenza a ogni possibile corso di ricamo, di cucito, di lavorazione della ceramica, di disegno, di qualunque cosa, che diventa all’istante l’occasione per stare insieme, per sembrare "normali", per chiacchierare e sfogarsi.

Le donne condividono di più, amano la compagnia, sono curiose delle diversità; e il carcere, col suo mescolamento di storie di vita, di paesi d’origine e talora anche di ceti sociali diversi , è un continuo crogiolo aperto alla confidenza e al confronto. Ma anche per le donne è un mondo a metà. Noi sperimentiamo tutti i giorni come anche la sola presenza di un volto femminile (di un’insegnante, di una volontaria…) sia importante in un carcere maschile, susciti emozioni particolari, evochi madri, mogli, sorelle lontane; pensiamo che sia analogo il senso di privazione, di vera e propria castrazione, per le donne che sono private della frequentazione con uomini: il carcere è un mondo a parte in cui l’umanità è ferita e monca. Cosa perdiamo tutti da questa lontananza, per ogni parte di sé di cui la società si amputa!

 

 

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