La detenzione domiciliare speciale

 

La legge 40/2001 sulle detenute madri

 

Il sistema penitenziario precedente alla legge 40/2001

La figura materna

La figura paterna

L’iter legislativo

Il contenuto

La detenzione domiciliare speciale

L’assistenza all’esterno dei figli minori

Condizioni di concessione delle misure

Il sistema penitenziario precedente alla legge 40/2001

 

Abbiamo visto come il problema del rapporto genitore detenuto-figlio sia sempre stato oggetto di attenzione da parte del legislatore, che attraverso le leggi citate (Gozzini, Simeone - Saraceni, Finocchiaro) ha cercato di cambiare in meglio la situazione critica che queste persone si trovano ad affrontare; è evidente, però che la figura materna ha trovato e trova tutt’ora molta più considerazione rispetto a quella paterna, che sembra "messa da parte", "al secondo posto".

 

La figura materna

 

La normativa penitenziaria precedente alle novità introdotte dalla legge 40/2001, affrontava il problema della donna detenuta in relazione alla maternità: era prevista (e lo è tutt’ora) una assistenza particolare di specialisti alle gestanti e alle puerpere e la possibilità, come già detto, di tenere il figlio presso di sé in carcere, ma solo fino al compimento del terzo anno di età; in seguito con la legge Gozzini è stata introdotta la possibilità di usufruire della detenzione domiciliare che ha riguardato un numero limitato di detenute e che non ha risolto comunque il problema del rapporto delle madri con figli superiori a tre anni.

In carcere il problema dell’assistenza alle gestanti, alle puerpere ed ai bambini ha sempre rappresentato un problema di particolare rilievo organizzativo. Fino ad ora ci si è avvalsi dell’intervento di professionisti esterni e si è preferito far partorire le detenute in ospedale, dato che le infermiere all’interno delle carceri non sono il più delle volte sufficientemente attrezzate e solo pochi istituti posseggono Centri diagnostici-terapeutici organizzati ed attrezzati adeguatamente.

L’ordinamento penitenziario (L.354/1975) ed il Regolamento di esecuzione (D.P.R. 431/1976) hanno rivolto particolare attenzione alla condizione della gestante e della puerpera; l’art. 11 della L. 354/1975 prevede che "…in ogni istituto penitenziario per donne sono in funzione servizi speciali per l’assistenza sanitaria alle gestanti e alle puerpere. Alle madri è consentito tenere presso di sé i figli fino all’età di tre anni. Per la cura e l’assistenza dei bambini sono organizzati appositi asili nido".

L’art. 18 del Regolamento di esecuzione (Assistenza particolare alle gestanti e alle puerpere. Asili nido) regola in modo dettagliato la questione : "Le gestanti e le puerpere sono assistite da specialisti in ostetrica e ginecologia, incaricati o professionisti esterni, È prestata, altresì, assistenza da parte di personale paramedico ostetrico".

Ancora, la normativa penitenziaria prevedeva che l’assistenza sanitaria ai bambini delle madri detenute o internate che decidevano di tenere accanto a sé il figlio fosse curata da professionisti specialisti in pediatria. Gli specialisti in ostetrica e ginecologia e i pediatri, nonché il personale paramedico, venivano compensati con onorari proporzionati alle singole prestazioni effettuate. Presso gli Istituti o Sezioni dove vi era una esigenza continuativa di assistenza alle madri e ai bambini, venivano organizzati appositi reparti ostetrici e asili nido.

Il modo in cui la normativa penitenziaria affrontava il rapporto madre-bambini era pensato sulla base dell’immagine tradizionale che vedeva la trasgressione femminile come "amoralità" e la considerava, quindi, inconciliabile con la maternità. È opportuno ricordare, ad esempio, che nel secolo scorso nelle prime case penali femminili non era permesso tenere bambini. Se una detenuta dava alla luce un figlio in carcere, si affidava immediatamente il piccolo ad un istituto. La madre non aveva più alcuna possibilità di vederlo né di avere qualsiasi forma di contatto col figlio.

In questo contesto il rapporto della detenuta col proprio bambino veniva interrotto fin dall’inizio, dando per scontata l’inadeguatezza della donna ad assolvere al ruolo di madre. Si trattava soprattutto di punire genitori che non erano buoni genitori, piuttosto che proteggere e aiutare i figli.

Si è passati poi, quarant’anni fa, alla frequentissima pratica dell’affido familiare: in quegli anni l’ideologia sociale era imperniata sul concetto di famiglia, vista come elemento fondamentale della struttura basilare della società, e sulla sua rispettabilità. Quando ci si attribuiva il diritto di intervenire in una dinamica familiare, senza dubbio lo si faceva per proteggere i minori. Infatti, si trattava molto spesso di far cessare uno scandalo e di punire genitori incapaci, piuttosto che preoccuparsi di ciò che sarebbe capitato ai bambini una volta in affido. Non si era ancora consapevoli delle ripercussioni della separazione iniziale sulla psiche dei bambini, del senso di discontinuità psicologica provocato dai ripetuti affidi, e dell’effetto negativo degli affidi a determinate istituzioni. I medici e gli operatori sociali non badavano molto ai bisogni reali e allo sviluppo psico-affettivo del bambino, che erano invece motivo di preoccupazione, consapevole o meno, per quei genitori realmente coinvolti nel benessere dei figli.

Se dunque in quegli anni ci si preoccupava di punire genitori "cattivi" e non di proteggere i bambini, oggi, nella maggior parte delle situazioni, invece di interessarsi solo alle reali condizioni di vita dei bambini, ci si sforza, giustamente, di aiutare anche i genitori; proteggere i bambini, infatti, in molte occasioni vuol dire proteggerli dalle separazioni.

In seguito, la normativa dell’ordinamento penitenziario, dunque, ha affrontato il problema in modo diverso e più articolato, ma segnato ancora dall’ideologia tradizionale. Da una parte infatti ha affermato la centralità della figura materna nello sviluppo dei bambini, nel momento in cui ha permesso alla detenuta che lo desideri o non abbia altri cui affidare i figli piccoli, di tenerli con sé in carcere; la struttura carceraria tuttavia, non è stata modificata in vista della presenza di un bambino. Tutto è stato lasciato alla madre e alla buona volontà delle altre detenute, delle vigilatrici e degli operatori. La situazione si presentava, pertanto, difficile e complessa e ancora oggi, nonostante i notevoli miglioramenti portati dalle riforme in questo campo, fra cui ovviamente la legge Finocchiaro, permangono difficoltà e ostacoli per quel che riguarda la vita dentro il carcere di madri con figli.

È presumibile infatti che la particolarità dell’ambiente carcerario favorisca un legame simbiotico tra madre e figlio, privo di contatti con l’esterno e vissuto inoltre dentro una realtà tutta femminile. Il rischio di essere troppo protettive, rischio molto frequente nelle madri soprattutto se del primo figlio, diventa più alto nel momento in cui si vive dentro un carcere. Il rispetto degli orari, la ristrettezza degli spazi, il dover dipendere sempre dalla concessione di un permesso, il troppo silenzio o il troppo rumore, sono alcuni esempi di come sia difficile muoversi con un bambino che attraverso il rapporto con la madre scopre il mondo che lo circonda e richiede sempre nuovi stimoli e nuove risposte. In questo contesto la madre ha una responsabilità enorme nel far avvertire il meno possibile al bambino ogni difficoltà e ogni ostacolo che la ristrettezza dell’ambiente carcerario può frapporre alle sue esigenze. Il carico di ansia e frustrazione che può scaturire da questo contesto non aiuta né l’equilibrio della madre né quello del bambino. La possibilità - prevista dall’ordinamento penitenziario - che il bambino passi alcune ore in asili fuori dal carcere, è minima a causa della carenza di personale che possa accompagnare il bambino. Quel che è grave è che solo alcuni istituti hanno uno spazio all’interno del carcere destinato ad asilo nido nel quale i bambini possono giocare; queste situazioni sono infatti pochissime – ne riparleremo poi nel capitolo dedicato ai bambini in carcere - e non sono comunque in grado di affrontare il problema di una socializzazione che, almeno per una parte della giornata, avvenga fuori dal carcere, nell’interazione con altri bambini e con altri adulti.

 

La figura paterna

 

La minore tutela della figura paterna nel suo ruolo genitoriale (che non ha ricevuto quasi per nulla considerazione nemmeno nella legge Finocchiaro), appare essere un grave problema allo sviluppo dell’affettività del bambino in quanto raramente viene contemplata quale pari opportunità rispetto alla madre.

L’ordinamento penitenziario non considerava, e non lo considera tuttora, il problema della paternità come un problema a sé stante, ma solo come secondario rispetto a quello della maternità: la nuova legge, infatti, viene applicata anche ai padri solo nel caso in cui la madre sia morta o sia nell’impossibilità di assistere i figli. Se anche il padre del bambino è detenuto, ad esempio, non vi è alcuna possibilità che si possa occupare del figlio o abbia contatti con lui, se non in caso di permessi premio. Questo contribuisce a rafforzare l’impressione che secondo la normativa carceraria, lo sviluppo di un bambino dovrebbe essere compito esclusivo delle donne, nei confronti delle quali tuttavia l’istituzione non prevede ancora nemmeno oggi, nonostante i notevoli passi in avanti, strumenti di sostegno adeguati alla particolarità della situazione.

Negli ultimi tempi sono stati condotti numerosi studi sul rapporto padre-figlio che hanno evidenziato un cambiamento di tendenza rispetto ad un’esclusiva presenza della figura materna nei primi tre anni di vita del figlio: la figura paterna è risultata essere importante non solo per il sostegno che può offrire alla madre, impegnata in prima persona nel rapporto con il figlio, ma anche come intervento diretto in un proprio ed originale rapporto con il figlio. "Il padre non è soltanto un modesto sostituto della madre; egli fornisce un contributo ben preciso alla cura e allo sviluppo di neonati e bambini piccoli (…). Il padre, quando gli viene offerta l’opportunità, diventa attivamente coinvolto con il suo neonato. Anche se padre e madre sono ugualmente coinvolti con il loro bambino, lo sono in modo diverso fin dall’inizio".

Le ricerche effettuate sostengono che padre e madre contribuiscono allo sviluppo intellettuale del bambino in modi diversi. Nella particolare realtà carceraria, il poter vedere la figura paterna solo saltuariamente appare già di per se stessa una soluzione che sembra poco rispondere ai bisogni manifestati dai bambini. È stato osservato che i bambini che sono capaci di instaurare durante l’infanzia forti legami con entrambi i genitori hanno un concetto di sé più positivo e maggior successo nelle relazioni interpersonali dei bambini che invece hanno solamente un legame con la propria madre.

L’assenza della figura paterna prima dei quattro o cinque anni sembra avere sullo sviluppo della personalità del bambino un effetto più disorganizzante dell’assenza iniziata in età successiva.

Purtroppo questa materia necessita di modifiche ed interventi che la legge Finocchiaro non ha fatto, essendo destinata alla tutela dell’infanzia e della maternità soltanto; dai risultati di studi e ricerche riportati però, si nota che il problema è conosciuto ed è stato studiato ed analizzato, sia dal punto di vista psicologico che giuridico; speriamo che anche in questo campo si giunga al più presto a risultati positivi.

 

L’iter legislativo

 

Nel 1997 dall’allora Ministro per le pari opportunità, Anna Finocchiaro, fu presentato il disegno di legge n° 4426 che, dopo 4 anni di lavori, divenne la legge 40/2001 sulle detenute madri.

Il sistema vigente prima di tale legge prevedeva la detenzione domiciliare solo per le condannate fino a quattro anni (anche se costituenti residuo di maggior pena), se il figlio non aveva superato i dieci anni, altrimenti, se non c’erano tali condizioni, il figlio poteva seguire la madre in carcere fino ai tre anni di età. "La rottura della relazione madre-figlio - si legge nella relazione che ha accompagnato il disegno di legge del ministro Finocchiaro prima di essere varato dal Consiglio dei Ministri - è sempre drammatica e si rivela particolarmente dannosa nei casi di pene lunghe, quando l’eventuale ripristino di un rapporto significativo è necessariamente rimandato a un momento assai lontano nel tempo".

Associazioni di volontari, istituzioni giudiziarie e politiche si sono mossi per trovare delle soluzioni alternative alla carcerazione di bambini senza interrompere i rapporti con i loro genitori, bambini innocenti che si trovano costretti a scontare in carcere pene mai commesse. Questa materia non poteva attendere troppo tempo per essere affrontata e corretta, in quanto strettamente attinente ai diritti umani fondamentali: il diritto del bambino - o della bambina - a non essere incarcerato ingiustamente, il diritto a stare con la propria madre e a non subire restrizione alcuna nelle relazioni affettive, il diritto della madre a crescere i propri figli in un ambiente sano.

Eppure, malgrado la presenza nel nostro ordinamento di norme che garantiscono una tutela "formale" dei diritti dei bambini, prima dell’approvazione della legge 40/2001, tali diritti venivano sistematicamente violati: bambini "sacrificati" in nome di una logica punitiva, incapace di superare l’effettiva colpevolezza dei genitori detenuti. A questi bambini, spesso già nati in una condizione di svantaggio, non era consentito conciliare i diritti fondamentali riconosciuti da ogni legislazione e, soprattutto, da ogni coscienza civile.

Del resto, che il carcere non possa rappresentare un ambiente di vita adeguato per la crescita e lo sviluppo di un bambino, è fin troppo evidente: l’istituzione penitenziaria si basa su un modello adulto centrico e dunque inadatto a provvedere alle esigenza fisiche, psichiche e relazionali dei minori. Così come dovrebbe risultare altrettanto evidente che la separazione – forzata e impossibile da elaborare e comprendere per bambini di appena tre anni – dalla madre, perfino se inadeguata, possa creare una ferita drammatica nel piccolo in crescita.

Nel 1997, ogni anno nelle carceri italiane entravano, con le madri che avevano commesso un reato, tra i 30 e i 100 bambini fino ai tre anni. Tenere in carcere un bambino in quanto figlio di una detenuta costituisce una violenza inaudita, che contraddice espressamente i contenuti della Convezione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, oltre a essere sul filo dell’incostituzionalità: "la pena", dice l’art. 27 della Costituzione Italiana, "non deve mai consistere in trattamenti contrari al senso di umanità". Una pena che divide traumaticamente una donna da suo figlio o li costringe all’unione solo in condizioni di restrizione, è una pena disumana non soltanto per una, ma per due persone.

Il disegno di legge è stato discusso per la prima volta alla Camera il 21 luglio 2000 per essere approvato poi il 27 luglio e passare all’esame del Senato; a quella data nelle carceri italiane i bambini "ristretti" di età inferiore a tre anni erano 58, figli di 56 detenute, e vi erano inoltre 15 donne in stato di gravidanza. "Questi bimbi innocenti - affermava l’allora sottosegretario alla Giustizia Franco Corleone, che addirittura intraprese un digiuno per indurre ad una rapida soluzione della discussione del progetto di legge sulle detenute madri - soffrono quindi un doppio trauma, quello della vita reclusa fino a tre anni, e quello della separazione traumatica dalla madre poi. A volte, se mancano persone di fiducia o parenti a cui affidarli vengono mandati in istituto, passando così dall’istituzione totale del carcere a quella dell’istituto, senza la madre. Questa è una legge che contribuisce a dare corpo al processo di riforma verso il carcere trasparente intrapreso in questi anni".

Attraverso il ddl 4426 si riteneva opportuno operare sia ampliando l’ambito applicativo degli istituti del differimento dell’esecuzione della pena e della detenzione domiciliare (prima applicabili il primo in maniera discrezionale e il secondo in casi molto limitati), sia introducendo i due nuovi istituti che abbiamo già menzionato: la detenzione domiciliare speciale e l’assistenza all’esterno dei figli minori, con lo scopo fondamentale di raggiungere due obiettivi:

garanzia compiuta della tutela dell’infanzia e della fase preadolescenziale, assicurando alla prole delle condannate l’assistenza materna in modo continuativo e in ambiente familiare;

abolizione della "carcerazione" degli infanti.

Nel proporre le nuove misure, si era convinti della scarsa pericolosità sociale delle detenute in questione: alla fine del 1996 le donne erano 2.049 su un totale di 48.564 detenuti e dunque rappresentavano appena il 4 per cento della popolazione carceraria. Di questo 4%, solo il 2,65 per cento era stato condannato per reati di associazione mafiosa, sequestro di persona e traffico di droga. Se il totale delle detenute è esiguo (oggi sono 2.369), la realtà delle donne con figli è ancor più limitata.

Ci sono voluti altri sei mesi perché anche il Senato ne licenziasse il testo, il 6 febbraio 2001 (in tale data il numero delle donne detenute era salito a 70 e quello dei bambini in carcere a 78, più 33 donne in stato di gravidanza); ma dato che il provvedimento era stato modificato, è stato sottoposto nuovamente alla Commissione Giustizia della Camera che lo ha definitivamente approvato in sede legislativa. L’8 marzo 2001, in una data fortemente simbolica, è stata finalmente pubblicata la legge per le "Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori".

 

Il contenuto

 

Il testo prevede l’applicazione di due tipi di provvedimento specifici per le madri con figli di età fino a dieci anni:

detenzione speciale domiciliare (art. 3)

assistenza esterna dei figli minori (art. 5)

La legge, come abbiamo già visto, si applica anche ai padri detenuti, nei casi in cui la madre sia morta o sia nell’impossibilità di assistere i figli.

 

La detenzione domiciliare speciale

 

Nella prima ipotesi - detenzione domiciliare speciale, di cui riportiamo qui di seguito il testo - il Tribunale di Sorveglianza può ammettere l’espiazione della pena presso il domicilio della madre (o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza), al fine di provvedere alla cura e all’assistenza dei figli minori di anni dieci, dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena, ovvero dopo l’espiazione di almeno 15 anni nel caso di ergastolo, qualora non sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e vi sia la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli. Al compimento del decimo anno di età del figlio, il beneficio può essere prorogato quando sussistano i requisiti per l’applicazione della semilibertà; altrimenti la donna potrà - in considerazione del comportamento tenuto, nonché della durata, della misura e dell’entità della pena residua - essere ammessa all’assistenza all’esterno dei figli minori.

 

Art. 3 Legge 40/2001. Detenzione domiciliare speciale

 

1. Quando non ricorrono le condizioni di cui all’articolo 47-ter, le condannate madri di prole di età non superiore ad anni dieci, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e se vi è la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli, possono essere ammesse ad espiare la pena nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e all’assistenza dei figli, dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena ovvero dopo l’espiazione di almeno quindici anni nel caso di condanna all’ergastolo.

2. Per la condannata nei cui confronti è disposta la detenzione domiciliare speciale, nessun onere grava sull’amministrazione penitenziaria per il mantenimento, la cura e l’assistenza medica della condannata che si trovi in detenzione domiciliare speciale.

3. Il tribunale di sorveglianza, nel disporre la detenzione domiciliare speciale, fissa le modalità di attuazione, secondo quanto stabilito dall’articolo 284, comma 2, del codice di procedura penale, precisa il periodo di tempo che la persona può trascorrere all’esterno del proprio domicilio, detta le prescrizioni relative agli interventi del servizio sociale. Tali prescrizioni e disposizioni possono essere modificate dal magistrato di sorveglianza competente per il luogo in cui si svolge la misura. Si applica l’articolo 284, comma 4, del codice di procedura penale.

4. All’atto della scarcerazione è redatto verbale in cui sono dettate le prescrizioni che il soggetto deve seguire nei rapporti con il servizio sociale.

5. Il servizio sociale controlla la condotta del soggetto e lo aiuta a superare le difficoltà di adattamento alla vita sociale, anche mettendosi in relazione con la sua famiglia e con gli altri suoi ambienti di vita; riferisce periodicamente al magistrato di sorveglianza sul comportamento del soggetto.

6. La detenzione domiciliare speciale è revocata se il comportamento del soggetto, contrario alla legge e alle prescrizioni dettate, appare incompatibile con la prosecuzione della misura.

7. La detenzione domiciliare speciale può essere concessa, alle stesse condizioni previste per la madre, anche al padre detenuto, se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre.

8. Al compimento del decimo anno di età del figlio, su domanda del soggetto già ammesso alla detenzione domiciliare speciale, il tribunale di sorveglianza può:

a) disporre la proroga del beneficio, se ricorrono i requisiti per l’applicazione della semilibertà di cui all’articolo 50, commi 2, 3 e 5;

b) disporre l’ammissione all’assistenza all’esterno dei figli minori di cui all’articolo 21-bis, tenuto conto del comportamento dell’interessato nel corso della misura, desunto dalle relazioni redatte dal servizio sociale, ai sensi del comma 5, nonché della durata della misura e dell’entità della pena residua.

Questo nuovo articolo, si desume dalla lettura, fa riferimento a donne condannate a scontare pene lunghe, superiori ai quattro anni; viene applicato, infatti, qualora non sussistano le condizioni previste dall’art. 47-ter dell’ordinamento penitenziario (detenzione domiciliare), ovvero la condanna ad una pena inflitta, o anche residuo di pena, non superiore a quattro anni. La detenzione domiciliare "generica", dunque, unita a quella speciale prende in considerazione una fascia molto ampia di detenute madri.

 

Assistenza all’esterno dei figli minori

 

Nel secondo caso - assistenza esterna dei figli minori - viene estesa la portata applicativa dell’art. 21 dell’Ordinamento Penitenziario sul lavoro esterno, prevedendo che le detenute possano essere ammesse alla cura e all’assistenza all’esterno di figli di età non superiore a dieci anni. In tal modo, i figli minori avrebbero la possibilità di avere la madre accanto quasi tutti i giorni senza dover aspettare i pochi colloqui mensili che non soddisfano le loro esigenze, non consentendo la continuazione del ruolo educativo della madre e dello stretto legame che lega madre e figlio.

 

Art. 5 Legge 40/2001. Assistenza all’esterno di figli minori

 

Dopo l’articolo 21 della legge 26 luglio 1975, n° 354, è inserito il seguente:
"Articolo 21-bis. – (Assistenza all’esterno dei figli minori). — 1. Le condannate e le internate possono essere ammesse alla cura e all’assistenza all’esterno dei figli di età non superiore agli anni dieci, alle condizioni previste dall’articolo 21. Si applicano tutte le disposizioni relative al lavoro all’esterno, in particolare l’articolo 21, in quanto compatibili.

La misura dell’assistenza all’esterno può essere concessa, alle stesse condizioni, anche al padre detenuto, se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre".

 

Condizioni di concessione delle misure

 

Molte le cautele in entrambi i casi, inserite per vincere le resistenze di chi sosteneva che la maternità potesse divenire la pre-condizione dell’impunità. Cautele che rischiano di far uscire solo poche madri-detenute.

Fra le condizioni di ammissione alle misure, in particolare, vi è la non sussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti ed è richiesta la concreta possibilità di ripristinare la convivenza con i figli, condizioni queste che mal si adattano ad un tipo di reati come quelli connessi all’uso di sostanze stupefacenti e alla prostituzione, che tipicamente presentano un alto tasso di recidiva e di cui sono incriminate la maggior parte delle detenute-madri.

Per la concessione dei benefici la competenza è del Tribunale di Sorveglianza, che dovrà regolare il periodo di tempo che la madre potrà trascorrere all’esterno della propria abitazione; nei casi in cui, senza giustificato motivo, il genitore si assenti per più di dodici ore (art. 4), i benefici potranno essere revocati ascrivendo il reato di evasione nel caso di una assenza più prolungata.

La legge è intervenuta inoltre a modificare dapprima l’art. 146 del codice penale, sul rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena, che viene interamente sostituito (art. 1) e prevede, nei confronti della madre, il differimento obbligatorio dell’esecuzione della pena fino a quando il bambino non abbia un anno (prima era previsto fino a quando non avesse sei mesi), per permettere il completamento del ciclo di allattamento-svezzamento del bambino. Nello stesso articolo vengono aumentati i casi di rinvio per gravi malattie e, quindi, non solo per chi è affetto da Aids, ma anche per chi sia colpito da gravi deficienze immunitarie o da altre malattie particolarmente gravi, per effetto delle quali le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione o nel caso in cui una persona si trovi nella fase terminale della malattia. Sono stati aumentati anche i casi di non concessione o di revoca del provvedimento, che decade innanzitutto se la gravidanza si interrompe, e inoltre non solo nella previsione di morte del figlio o di affidamento a persona diversa dalla madre, ma anche ove la madre abbia abbandonato il figlio o sia stata dichiarata decaduta dalla patria potestà per aver violato o trascurato i doveri ad essa inerenti, sempre che l’interruzione di gravidanza o il parto siano avvenuti da oltre due mesi.

Modifiche sono state poi apportate al testo dell’articolo 147 del codice penale- rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena - che prevede ora (art. 1, comma 2, 3, 4) la possibilità per la madre di rimanere col figlio fino al compimento del terzo anno di età ( prima era possibile solo se la madre avesse partorito da più di sei mesi ma da meno di un anno e non ci fosse modo di affidare il figlio ad altri ). Tale provvedimento non può essere adottato o viene revocato per gli stessi motivi dell’articolo precedente (se la madre sia dichiarata decaduta dalla potestà sul figlio, qualora il figlio muoia, venga abbandonato ovvero affidato ad altri che alla madre) e se sussiste il concreto pericolo della commissione di delitti.

In materia di detenzione domiciliare speciale e di assistenza all’esterno dei figli minori, di cui sopra, sono stati perciò inseriti gli articoli 47 quinquies e sexies, dopo il 47 quater della legge 354/1975.

La legge 40/2001 stabilisce inoltre anche dei limiti di applicabilità (art. 6) per i benefici contemplati, disponendo che essi non si applicano a coloro che sono stati dichiarati decaduti dalla potestà sui figli, e nel caso che la decadenza intervenga nel corso dell’esecuzione della misura, questa è immediatamente revocata. Infine l’art. 7 prevede che l’applicazione di uno dei benefici previsti dalla presente legge determina, per il tempo in cui il beneficio è applicato, la sospensione della pena accessoria della decadenza dalla potestà dei genitori e della pena accessoria della sospensione dell’esercizio della potestà dei genitori.

Attraverso l’ampliamento dei limiti alla concessione delle misure alternative alla detenzione, questa legge si propone di favorire l’instaurazione del rapporto tra madri detenute e i propri figli per facilitare il mantenimento di una relazione che risulta difficile già dalla nascita. La presenza di bambini residenti anche solo parzialmente in strutture penitenziarie, appare come una pratica contraria ai diritti umani più elementari sia nei riguardi dei bambini che dei genitori. La rottura dell’unità famigliare padre – figlio – madre – ambiente sociale è dannosa e può arrecare gravi e permanenti danni al bambino, specialmente se iniziata in età neonatale e protratta per più anni. Ugualmente, nello svolgimento delle pratiche di affidamento ad altra famiglia o struttura di accoglienza, devono essere attentamente valutate tutte le variabili concorrenti alla decisione, qualora essa sia necessaria. Un ultimo aspetto infine da sottolineare è che né la normativa penitenziaria precedente, né le novità introdotte dalla legge 40/2001, affrontano il discorso della maternità come potenzialità futura. Lo stato di detenzione e l’interdizione dei rapporti sessuali che questo comporta, per le donne che hanno superato i trenta anni e debbono scontare una pena non breve, significa la negazione anche della possibilità di scegliere se diventare madre. Anche se né la Costituzione né l’ordinamento penitenziario affermano che la carcerazione significa la privazione della sessualità e della maternità, il non detto in relazione a questi aspetti è anche troppo esplicito.

 

 

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