|
Né sbarre né celle nel centro che ospita chi uccise per follia Castiglione delle Stiviere, l’unico ospedale giudiziario femminile
Dodici donne, un unico dramma: tutte hanno ucciso il proprio bambino. Invano le guardiamo in faccia, alla ricerca di qualcosa che non troviamo: sono donne normali quelle che ci vengono incontro e ci stringono la mano. Se anziché nel carcere psichiatrico di Castiglione delle Stiviere le incontrassimo nell’ascensore, sarebbero anonime vicine di casa. Eppure con quelle stesse mani cordiali con cui ci salutano, pochi anni fa hanno soppresso le loro creature. Altre ospiti dell’Ospedale psichiatrico giudiziario - mezzo manicomio e mezza prigione già nel nome - hanno ucciso un genitore, accoltellato la sorella, tentato di assassinare il marito... Molte ricordano ciò che hanno fatto, altre hanno rimosso e, accompagnate dal lavoro degli psicoterapeuti, sono ancora alla ricerca di un passato da ricostruire. Un cammino lento e graduale: se la verità riemergesse all’improvviso nelle loro menti, l’unica fuga dall’orrore si chiamerebbe suicidio. È tra queste infelici che al termine della custodia cautelare presto o tardi arriverà la mamma di Samuele, sempre che in lei il giudice riconosca le due condizioni per esservi ammessi: "Primo aver commesso il reato (se lo ha commesso, ndr) in un momento di infermità mentale, secondo essere socialmente pericolosi - spiega Giuseppe Gradante, direttore della sezione femminile -. Se nella signora Franzoni risulteranno vere entrambe le cose, come parrebbe, sarà nostra paziente". Sì, paziente. Mai sentito parlare di detenuti nel carcere psichiatrico di Castiglione, l’unico in tutta Italia ad avere una sezione femminile. Ospita 190 pazienti, di cui 72 donne: tutti agirono in un attimo di follia, tutti sono stati giudicati ancora in grado di ripetere il reato. Eppure non ci sono sbarre a Castiglione, né celle, e nemmeno guardie o armi. Solo medici e infermieri: "Questo è innanzitutto un luogo di cura e per noi i pazienti sono esattamente uguali a quelli che seguiamo in ospedale o in studio - dice Antonio Esti, psichiatra -. La bellezza di questa struttura è che si tratta di un carcere ma tra noi e gli ospiti si crea un rapporto affettivo, a tu per tu. Questo è l’unico carcere in cui siamo tutti dipendenti dell’Azienda sanitaria e non del ministero di Grazia e Giustizia". Non è un cavillo: gli altri quattro Opg (maschili) sono solo un’ala del carcere. È vero: è una porta a vetri quella che ci viene aperta, non un cancello. E così, in modo "indolore", ci troviamo già dentro, tra le pazienti/detenute. Età media 40 anni. Tra le più giovani, le madri di quei 12 bambini. La signora S. è una di loro. Ci mostra volentieri la sua stanza: due letti, piante dappertutto, la porta-finestra sulla campagna assolata, un cagnolino bianco e nero. Sulla porta i nomi delle ospiti sono un piccolo lusso, non una schedatura. Più in là la stireria, una cucina per chi ama farsi da mangiare... La palazzina è a un piano solo, immersa nel verde della campagna mantovana. "Bisogno delle guardie? Perché - dice la psichiatra Enrica Chiaravalle -? Neppure nei normali ospedali psichiatrici ci sono i secondini: medici e infermieri sanno bene cosa fare in caso di crisi acute, come qui". Dove le pazienti, con una licenza, possono uscire in paese e fare la spesa, frequentare corsi per apprendere un mestiere, persino lavorare: "La gente di Castiglione non ci fa nemmeno caso: qui l’Opg è un’istituzione. Una nostra ospite ha frequentato un corso di formazione professionale, un’altra ha fatto uno stage di estetista e presto sarà assunta dal parrucchiere. Anche questo fa parte del recupero". Si chiama "ergoterapia", la cura del lavoro. È lavorando che la signora B., colpevole di aver soffocato il figlio di 3 anni in un raptus di follia, sta tornando alla vita: la vediamo gestire con competenza il bar dell’Opg. Anche il bambino di L. aveva 3 anni; è morto nel ‘98. Da allora sua madre si è occupata della biblioteca interna, ma ormai è pronta per un lavoro all’esterno. "Tra di loro alcune soffrono di amnesia dissociativa - continua la psichiatra -. Vede quella donna? Ha ucciso il marito ma dopo anni non ricorda nulla. In queste pazienti, quando le condizioni cliniche migliorano e loro iniziano a credere di essere le autrici del delitto, cosa che avevano sempre negato, allora il momento è drammatico e il rischio suicidio è altissimo. Specie per chi ha compiuto il delitto più atroce: il figlicidio. Tra queste c’è una solidarietà speciale, dettata da un destino comune: tutte hanno agito schiacciate da un senso di incapacità a ricoprire il ruolo di madre, tutte spinte dalla paura di inadeguatezza resa esplosiva da una patologia latente, nascosta a tutti". "Normali" fino a quel giorno, insomma. Quando un nulla, spesso solo il pianto del bambino, ha scatenato la furia.
|