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Amnesty International: rapporto violenza sulle donne in Iraq
Osservatorio Iraq, 8 marzo 2005
È stato presentato il 21 febbraio il nuovo rapporto di Amnesty International sulla situazione irachena, incentrato sulla violenza nei confronti delle donne. Ne parliamo con Cecilia Nava, Vice Presidente della sezione italiana di Amnesty. È stato presentato il 21 febbraio il nuovo rapporto di Amnesty International sulla situazione irachena, incentrato sulla violenza nei confronti delle donne. Ne parliamo con Cecilia Nava, Vice Presidente della sezione italiana di Amnesty. Cecilia Nava: Le donne e le ragazze in Iraq vivono nella costante paura di subire violenza: in molte, per questo motivo, hanno dovuto ritirarsi dalla vita pubblica. Dalla guerra del 2003 i gruppi armati hanno preso di mira e assassinato diverse esponenti politiche e attiviste per i diritti umani. Presentando il nuovo rapporto sull’Iraq, Amnesty chiede espressamente alle autorità irachene di introdurre fin da subito misure concrete per proteggere le donne e fermare la violenza nei loro confronti. Le autorità irachene devono garantire che ogni denuncia di violenza sarà indagata, ed i responsabili portati davanti alla giustizia, qualunque sia la loro affiliazione politica. Al contesto di insicurezza e terrore si aggiunge una legislazione ancora permeata di elementi discriminatori dal punto di vista del genere, che constribuisce ad alimentare la violenza: molte donne e ragazze irachene rischiano di essere ferite od assassinate dai propri parenti maschi se ritenute portatrici di un comportamento lesivo dell’onore della famiglia. Spetta alle autorità irachene riesaminare queste leggi, adeguandole al diritto internazionale. La nuova Costituzione, in particolare, e le nuove leggi, dovranno prevedere risarcimenti per tutte le forme di discriminazione e di violenza basata sul genere. Nel vostro rapporto voi raccomandate anche attenzione alle donne detenute nelle prigioni a gestione Usa. Tempo fa, gli Stati Uniti avevano dichiarato di avere solo due donne detenute. Ma dalle denuncie, fatte anche da Amnesty, ne risultano di più. È possibile avere una stima del loro numero? Non è possibile determinare il numero esatto dei detenuti iracheni, sia uomini che donne, soprattutto a causa di "prigionieri fantasma", ovvero persone detenute illegalmente, senza accusa né processo, e senza accesso alle visite della Croce Rossa Internazionale. Amnesty continua a sollecitare le forze anglo-statunitensi ed i loro alleati a porre fine al fenomeno delle "detenzioni fantasma". È quindi difficile verificare il numero esatto delle donne detenute, e quale sia il loro status. Secondo diverse fonti comunque la percentuale delle donne sul totale della popolazione carceraria dovrebbe essere esigua, in ogni caso ridotta rispetto all’inizio del 2004 quando era presumibile fossero svariate decine. Tuttavia, va sottolineato che il fenomeno della tortura ha coinvolto anche le donne: lo stesso generale Taguba, nella sua inchiesta, ha documentato un caso di stupro e l’esistenza di foto e video riguardanti atti sessuali con detenute; vi sono, secondo alcune fonti legali irachene, numerosi casi di ex detenute che successivamente al rilascio si sono suicidate o sono state uccise in conseguenza delle violenze che avevano subito in carcere. Questo sottolinea ancora una volta come molte donne siano vittime di quelli che vengono definiti "delitti d’onore", compiuti perchè le donne sono considerate impure per essere state nelle mani degli uomini.... Esattamente. Esiste un collegamento diretto tra la discriminazione nei confronti delle donne e la violenza: Amnesty è profondamente convinta che la discriminazione sia una delle maggiori cause del perdurare del fenomeno della violenza nei confronti delle donne. Non è possibile sconfiggere la violenza se non si agisce anche stabilendo le uguaglianze dei diritti fra donne e uomini, contrastando la discriminazione. Gli Stati Uniti in Iraq hanno volutamente sfruttato questo aspetto della società, arrestando le donne o minacciando di arrestarle sapendo che questa sarebbe stata una forma di ricatto e di pressione molto forte. Non solo non hanno tenuto conto del diritto internazionale (e questo è assodato), ma hanno agito anche scavando ancora più il solco di questa discriminazione. Amnesty ha raccolto le testimonianze, dopo il loro rilascio ed in condizioni di anonimato, di alcune donne detenute sotto la custodia delle forze della coalizione a guida statunitense. Hanno raccontato di essere state picchiate, minacciate di stupro, umiliate e poste in isolamento per lunghi periodi. Alcuni dei detenuti uomini che hanno denunciato di aver subito torture o maltrattamento mentre si trovavano sotto la custodia statunitense, hanno dichiarato che l’umiliazione sessuale era l’aspetto decisamente peggiore del loro trattamento. Per le donne, in Iraq, lo stigma che frequentemente è associato alle vittime della violenza anziché a chi la perpetra, rende estremamente pericoloso anche solo raccontare la violenza subita. Non sembran esserci stati, tra il rapporto pubblicato lo scorso anno e quello di quest’anno, dei miglioramenti per quello che riguarda la parte legislativa, in modo da aiutare le donne. Lo scorso anno c’è stata una forte protesta nel momento in cui si pensava di introdurre la sharia. Ma per quanto riguarda la situazione lavorativa, scolastica, sociale, tutto sembra peggiorare. La persistente insicurezza costituisce un seria minaccia per l’intera popolazione, ed è un ostacolo fondamentale per il processo di ricostruzione del paese. Dall’annuncio della fine della guerra in Iraq, nel Maggio 2003, del presidente statunitense George Bush, il livello di violenza continua ad essere gravemente elevato. Molte donne cercano di evitare di uscire dalle loro case, e questo limita notevolmente l’accesso delle donne e delle ragazze all’istruzione, all’impiego, alla partecipazione politica ed al processo di ricostruzione del loro paese. Occorre ricordare certamente che le donne irachene hanno visto negli ultimi decenni tre guerre, oltre un decennio di sanzioni economiche, che anche questo ha avuto un effetto disastroso sulle loro vite. Praticamente è stato verificato che negli anni ‘90 il tasso di mortalità per le donne incinte e per le madri è aumentato, ed è diventato uno dei peggiori del mondo per i bambini sotto l’età dei 5 anni. Per decenni, sotto il governo di Saddam Hussein le donne sono state oggetto di feroci torture e violenze sessuali in quanto attiviste politiche o in quanto parenti di attivisti politici o semplicemente perché appartenenti a determinati gruppi etnici o religiosi. È fondamentale che adesso le donne possano avere un ruolo positivo nella costruzione del paese, dovrebbero essere al centro del processo decisionale soprattutto sui temi che le riguardano direttamente. Tutto questo è correlato anche all’aspetto della rappresentanza ad ogni livello delle donne nella nuova entità nazionale nel prossimo governo. Resta però il fatto che questa rappresentanza delle donne - arrivata al 31% con i risultati delle elezioni - si scontra con quello che è l’orientamento politico delle coalizioni che hanno vinto. Ce la faranno le donne ad imporre un punto di vista laico in questo oppure finiranno per esser assoggettate al volere politico-religioso? Le donne ce la faranno se potranno muoversi liberamente, se potranno operare in un contesto di sicurezza. È questa la principale responsabilità a cui Amnesty sta richiamando le autorità irachene: garantire un contesto di sicurezza e di assenza di discriminazione. Da dove prende i suoi dati Amnesty per i propri rapporti? Amnesty International non sta prendendo questi dati tramite proprie missioni in Iraq, in quanto, come sappiamo bene, non è possibile per le organizzazioni poter operare in sicurezza sul posto. Utilizziamo come fonti le persone che escono dall’Iraq o organizzazioni per i diritti umani, ma anche la stampa. C’è un monitoraggio continuo, incrociando questi dati, ma certamente il fatto di non poter entrare nel paese per poter verificare direttamente la situazione crea delle difficoltà per poter avere un quadro completo e preciso della situazione. Probabilmente in questo modo molte cose non si riescono a sapere e questo è drammatico per la popolazione civile irachena . Anche il fatto che i giornalisti, in particolare i non embedded, abbiano crescenti difficoltà ad operare in Iraq è una limitazione, perché chiaramente le informazioni che arrivano dal paese diminuiscono ed è anche più difficile dall’esterno comporre un quadro della reale condizione dei diritti umani. Questo ci riporta all’argomento citato prima delle donne detenute. Il fatto che l’amministrazione Bush a suo tempo avesse dichiarato la presenza di solo due donne detenute è in palese contraddizione con le denuncie di Amnesty International e di altre organizzazioni sul numero dei detenuti. Come si rompe il muro dell’informazione ufficiale con l’informazione che proviene da organismi internazionali di monitoraggio come il vostro? Su questo è fondamentale l’attenzione innanzitutto dell’opinione pubblica mondiale: ogni volta che Amnesty stila un rapporto, o che ha delle informazioni disponibili, mobilita la propria base associativa, i propri gruppi, in modo che facciano attività di raccolta firme, di pressione verso le autorità competenti, e anche divulgazione, affinchè siano il più possibile resi pubblici i dati e le informazioni di cui si dispone. Il ruolo dell’opinione pubblica non è trascurabile: più del 50% dei casi trattati da Amnesty International ha un esito positivo, e tramite queste azioni si cerca anche di prevenire violazioni dei diritti umani nei confronti di altre persone. Nel caso iracheno, l’attenzione dell’opinione pubblica è fondamentale anche per sostenere il lavoro delle organizzazioni per i diritti umani locali che, nonostante tutte le difficoltà, stanno continuando ad operare in Iraq. Si tratta di una duplice azione in favore dei diritti umani, dall’interno e dall’esterno. Le organizzazioni irachene con cui avete contatti, come valutano l’impatto verso l’esterno del loro lavoro? Si scontrano spesso contro il silenzio all’esterno rispetto alle loro denunce, e questo credo che in qualche modo dia un serio colpo al loro lavoro. Continuano a farlo, però c’è questo senso poi di inutilità nel vedere che comunque tu denunci delle cose e queste cose non escono da nessuna parte, perché non sono favorevoli a chi sta gestendo in questo momento il paese. Questo penso che per loro debba essere un serio problema. In Iraq negli ultimi anni sono sorti numerosi gruppi ed organismi non governativi per i diritti delle donne. Tra l’altro le attiviste per i diritti umani si trovano spesso a fronteggiare minacce e attacchi provenienti dalle stesse famiglie delle donne che difendono. Far conoscere questa realtà, far conoscere il lavoro di queste organizzazioni, è fondamentale per rompere il muro del silenzio, che c’è anche qua da noi. Vorrei aggiungere solo una cosa: un altro elemento di preoccupazione riguardo alla situazione delle donne in Iraq è dato dai sequestri effettuati dai gruppi armati, e riguarda non soltanto donne non irachene che si trovano li come Margareth Hassan, lavorava in una associazione umanitaria e è stata poi assassinata o le giornaliste Sgrena o Aubenas che sono tuttora in ostaggio, ma riguarda anche donne irachene, e questo avviene sia da parte di gruppi politici sia da parte di gruppi criminalità comune che operano questi rapimenti. Questa situazione è ancora tuttora molto grave, avviene frequentemente e Amnesty rinnova nel suo rapporto la richiesta ai gruppi armati affinché questa crescente forma di violenza, che in alcuni casi ha il drammatico epilogo dell’uccisione, venga fermata.
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