Donne allo specchio

 

La cella mette le donne allo specchio

Pronte a riscattarsi per la famiglia. Ma ansia e depressione sono in agguato

 

Avvenire, 2 dicembre 2001

 

C’era un tempo in cui gli specchi non erano grandi abbastanza per riflettere l’immagine intera delle detenute. E bastava guardare la pettinatura di una di loro per capire quanti anni aveva passato in carcere. Adesso, essere alla moda, non è più così difficile. Anche dietro le sbarre. Ci sono giornali, riviste, volontarie che vanno e vengono, direttori donna. Lo scambio con l’esterno delle 2.424 detenute, per lo più giovani nubili, con al massimo la licenza media e un passato di operaia o casalinga, è continuo. Sono chiuse dentro, ma non chiuse fuori.

Non è affatto cambiata, invece, "l’attenzione, la cura al proprio aspetto", assicura Gabriella Straffi, che dal ‘95 dirige l’istituto femminile della Giudecca, a Venezia, Anche gli stanzoni, in cui vivono in otto - nove, pulizia e ordine imperano. Anzi, ognuna tenta di ritagliarsi il proprio spazio con un tocco esclusivo: la piantina, il centrino, il soprammobile... cercando di ricreare, per quel che può, l’atmosfera di casa.

Ma i nemici di questo piccolo mondo recluso - le detenute rappresentano solo il 4,3% della popolazione carceraria - sono sempre in agguato. Si chiamano "depressione e ansia", sottolinea la direttrice, che si divide tra i tre istituti del capoluogo veneto. Alla Giudecca le detenute sono 102, di cui 62 straniere. Ma i problemi, lingua a parte, sono gli stessi. "Non aver messo in conto, al contrario degli uomini - sottolinea Gabriella Straffi - la carcerazione come rischio" di comportamenti fuorilegge.

Da qui "una maggior insofferenza alla detenzione" accentuata dal distacco dalla famiglia. "E così c’è chi riempie il buco nel cuore con il cibo o si lascia consumare dall’esaurimento nervoso", rivela Teresa.

È la perdita degli affetti a pesare più di tutto perché "il carcere è separazione violenta dal proprio mondo", spiega Donatella Zoia, medico dell’Unità operativa per le tossicodipendenze del carcere di San Vittore a Milano. Di conseguenza "le detenute soffrono più degli uomini per la lontananza, soprattutto le straniere (tra nomadi, sudamericane e africane rappresentano circa il 40% della popolazione carceraria femminile, n.d.r.) che spesso hanno lasciato i bambini nel Paese d’origine". Non hanno quasi più contatti con loro, se non al telefono (ovviamente quando è permesso).

Sono infatti oltre quarantamila i figli, grandi e piccoli, che hanno un genitore dietro le sbarre. Ma sono le mamme a pagare di più, sia che abbiano il bimbo accanto (una quarantina) o lontano. "Questo determina continue lagnanze, la richiesta costante d’attenzione e fa scattare anche il senso di colpa per non essere state buone madri", rivela la direttrice del carcere femminile di Rebibbia a Roma, Lucia Zainaghi. "Il fatto è che i figli ti mettono su un piedestallo, tutto quello che viene da te è giusto...", ammette Sara. "E tu hai paura di perderli, di non vederli crescere, di non poter essere loro vicino quando ne hanno bisogno", aggiunge Giuliana.

Ed "è comprando regali, magari spendendo quel poco che hanno, che in qualche modo cercano di chiedere loro scusa", sottolinea Lucia Zainaghi alle prese ogni giorno con i problemi di 345 donne carcerate (fino a tre anni fa, erano in media un centinaio di meno).

Al tempo stesso, ammette la direttrice di Rebibbia, senso di colpa e lontananza spingono le detenute "a ripensare al reato commesso, a rivedere il proprio comportamento alla luce di quello che è ricaduto sui figli". Una sorta di autocoscienza che le aiuta a riscattarsi, che in qualche modo facilita il reinserimento. Più che negli uomini reclusi, che a luglio erano 52.689, quasi duemila in più dello scorso anno. Ma il percorso è molto lungo, come spesso la pena da scontare che, al momento, riguarda un po’ più della metà delle detenute. Le altre sono in attesa del processo. Chiuso il capitolo terrorismo, sono rapine, furti e omicidi, ma anche traffico di droga e sfruttamento della prostituzione, i reati per cui le donne finiscono più spesso in carcere. Negli ultimi anni si è aggiunta pure l’associazione mafiosa e, alcune, sono sottoposte alle stesse restrizioni previste per i boss, come isolamento e strettissima sorveglianza.

Storie diversissime, origini disparate, ma comunque recluse. E ossessionate dalla salute. "Il ricorso al medico è costante, quotidiano", confermano le direttrici. C’è come l’acutizzazione di patologie preesistenti. Un atteggiamento che esprime un disagio interiore, accompagnato da "crisi d’ansia, di angoscia, che insorgono la sera, dopo la chiusura delle celle e che passano con la somministrazione di farmaci", spiega Donatella Zoia. Chiedono pillole per dormire. E per resistere all’attesa. Soprattutto quella di sapere se avranno o no il permesso di tornare a casa per un giorno, o per le feste. È uno dei momenti più difficili, ammette Gabriella Straffi, "perché sanno che c’è la possibilità di avere un beneficio, ma non se lo otterranno".

E allora, per non pensare ai figli lontani, ai permessi e "impegnare la giornata nel modo migliore", sottolinea Federica, si tuffano nel lavoro. Rassettano il carcere oppure seguono i corsi che l’istituto offre. Imparano a far le sarte, a lavorare la pelle e la ceramica; a coltivare fiori e piante a recitare. Poi studiano. Le straniere vanno a scuola per imparare l’italiano, le altre per recuperare anni perduti. Ma ce ne sono anche molte che "se ne stanno buttate sul letto, o a rincitrullirsi davanti alla TV", ammette Giuliana. E, spesso, denuncia, "si lamentano perché non c’è lavoro. Poi, se lo trovano, dopo due giorni si mettono in malattia... perché il carcere, oltre che un luogo di degradazione, è anche luogo di deresponsabilizzazione".

 

 

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