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Genitori in sospeso Com’è difficile essere una madre giusta, autorevole, qualche volta severa, se sei stata o sei ancora in carcere
Parliamo di rapporti con i figli, e di quanto è difficile il ruolo di una madre (ma anche di un padre), che sia in carcere e però non voglia sentirsi per questo sempre inadeguata a fare un rimprovero, una critica, a proibire qualcosa a un figlio. Eppure, la paura è sempre quella, che il figlio ti dica: "Che diritto hai tu di rimproverarmi, con quello che hai fatto…". Ne abbiamo discusso alla Giudecca, con le donne della redazione.
Mia figlia voleva fare la poliziotta... ma per farlo doveva "rinnegarmi"
Svetlana: E’ dura perché, dopo tanti anni che non hai rapporti con i figli, ti chiedi se non crea un conflitto il fatto di rimproverarli, se non rischi magari di deteriorare il rapporto. Posso dire come mi sono sentita io: per esempio mia figlia voleva fare la poliziotta, ma per farlo doveva "rinnegarmi" perché sono pregiudicata. Io ho accettato che lo facesse anche se ci sono stata molto male. Poi le cose sono andate diversamente e ora lei fa l’investigatrice privata. Ornella (volontaria): Doveva disconoscerti come madre? Svetlana: Sì, perché nonostante il reato sia stato commesso in Italia, risulta anche nel mio paese, la Serbia, dove c’è questa norma che regola le assunzioni di agenti di polizia. Comunque alle fine le ho detto di sentirsi libera nelle sue scelte, anche se mi ha fatto male. Io non avevo nessuna forza per contrastare questa scelta perché, vista la situazione, mi sentivo in difetto. Alla fine, con l’aiuto di mia madre, lei si è convinta a mediare e ora fa quello che fa. Emilia: C’è una differenza però tra una scelta di vita condizionata dal fatto di avere un genitore in carcere, e invece un rimprovero che potresti fare a un figlio e che lui potrebbe non accettare. Tua figlia per esempio per raggiungere un obiettivo che si era prefissa, avrebbe dovuto arrivare a disconoscerti. Invece non vedo perché io non possa fare a un figlio un rimprovero o un’osservazione solo per il motivo che sono lontana da tanto tempo. Licia: Io con mio figlio, che ha sedici anni, non saprei come comportarmi di fronte alla necessità di fargli un rimprovero. Emilia: Per me sarebbe invece naturale. Il fatto di essere stata lontana non mi toglie il diritto di poter fare la madre, per cui se mio figlio sta sbagliando, per evitare che l’errore diventi più grosso, io mi sento in diritto di riprenderlo. Nel caso mi riversi addosso la mia "colpa", gli dirò: "Ma perché devo lasciare che sbagli anche tu?"
Tuo figlio ti può dire: "Guarda da che pulpito!"
Marta: Il fatto è che ti vengono i sensi di colpa perché non sei un modello di comportamento. Proprio per questo, se ti viene di fare un’osservazione, la fai "delicata". Se non sei "soft", tuo figlio ti può dire: "Guarda da che pulpito!" o "Come ti permetti tu che sei la prima ad aver sbagliato?". Chiara: In genere uno tende a rimproverare il figlio rispetto al reato che lui stesso ha commesso, quindi si tende ad essere "settoriali" nel rimprovero per mettere in guardia proprio da errori che uno ha già fatto… Marta: Non sono d’accordo. Il rimprovero che non ti puoi permettere è dovuto a molte cose. Primo, perché non sei lì a crescerli e può sembrare una prevaricazione nei confronti di quelli che si prendono cura di loro, anche perché se io sono qui in carcere è per colpa mia. Mia figlia vive con mio marito e i nonni. Cosa che mi dà fastidio, perché avendo mia figlia quattordici anni ed essendo cresciuta con me ed educata da me, quindi libera da certi pregiudizi, mi ritrovo a vederla crescere con persone che non condividono il mio "credo". I miei rimproveri potrebbero però essere giusti da un verso e sbagliati dall’altro, perché per un periodo io non ci sono stata e chi stava al mio posto sicuramente ha fatto del suo meglio. Svetlana: Può darsi che io non concordi con le persone che crescono i miei figli, ma non posso esprimere pareri su di loro perché li stanno crescendo, e poi per non ferirli. Devo stare attenta a come parlo e certo non mi sento libera nel mio rapporto. Licia: Sono d’accordo con quello che dice Svetlana, io non c’ero, non ero presente a seguire mio figlio quando c’era bisogno di me, quindi non posso intervenire. Antonietta (insegnante): in un certo senso voi state dicendo che non si può parlare di affetti prescindendo dai sensi di colpa. Forse bisogna riflettere di più sulla differenza tra "autorità" e "autorevolezza". Autorità è più "legale", autorevolezza può essere anche la capacità di esercitare, attraverso la propria esperienza di sofferenza, una comprensione maggiore, se no si è inchiodati al senso di colpa. O si riconosce un valore alla propria storia, o ci si lascia schiacciare dalla propria condizione di "condannato". Marta: Più che altro noi viviamo un ruolo di "genitori in sospeso". Emilia: Io penso che l’osservazione che un domani potrai fare a tuo figlio, a prescindere da chi lo ha cresciuto, che non devi screditare in nessun caso, riguarderà non tanto il passato, quanto il momento in cui vivrai il rapporto con lui. Sicuramente questa esperienza ti matura e quindi il futuro dialogo sarà più adulto. Svetlana: Il problema è che li lasci piccoli e li ritrovi adulti in un batter d’ali.
Il rapporto con una persona deve essere costruttivo, e con i sensi di colpa non si costruisce niente
Giulia: Sarà un rapporto su un piano diverso. Io non sono d’accordo sui sensi di colpa, perché rappresentano dei ricatti emotivi che fai allo stesso tempo a te e al soggetto che ti trovi di fronte. Parto dal presupposto che un figlio è fatto per essere libero di volare da solo; a mio avviso se mio figlio dovesse "sbagliare" e per questo dovesse finire in carcere, io gli starei vicino. Per quanto riguarda una possibile tossicodipendenza, l’aiuterei una volta e poi basta, perché è lui che sbatte la testa da solo. Non rinnego comunque la mia vita e sono sempre favorevole al dialogo e al confronto con un figlio, poi lui è libero di fare le sue scelte. Il rapporto con una persona deve essere costruttivo, e con i sensi di colpa non si costruisce niente. Ornella: A me sembra che non si tratti sempre di senso di colpa, quanto piuttosto di senso di responsabilità. Voi avete parlato dei problemi che avete rispetto a chi ha cresciuto i vostri figli, ma vorrei capire anche come agiscono questi vostri famigliari con voi, se vi fanno delle colpe. Ultimamente ho avuto modo di ascoltare due esperienze simili e diverse allo stesso tempo, di due donne che sono uscite dal carcere e sono in detenzione domiciliare con i figli. Una in cui i famigliari fanno pesare molto la passata assenza della madre nei confronti dell’educazione dei figli e l’altra in cui c’è comprensione, ma nonostante questo è la madre stessa, che è stata per un certo periodo in carcere, la prima a non sentire di poter avere "autorevolezza". Chiara: Questo però è dovuto proprio ai sensi di colpa, uno diventa ricattabile perché non accetta la sua vita, il suo passato, le sue scelte. Rita: Io ho avuto un esempio in famiglia. Mia sorella ha avuto per un periodo dei "giri" di spaccio e credeva che i bambini non si fossero accorti di nulla. Ultimamente il figlio ha avuto dei problemi con il fumo e lei mi ha chiesto di intervenire perché non si sentiva in grado di farlo lei; io ho fatto quello che ho potuto, ma mio nipote le ha ugualmente rinfacciato il suo passato, dicendo che sì, lui allora era piccolo, però aveva visto e capito tutto. La mia opinione comunque è che il rimprovero va fatto con più coraggio, a prescindere dal proprio passato. In comunità per esempio mi dicevano di far fruttare la mia esperienza rispetto a quelli nuovi che arrivavano, e di non aver paura a dare consigli, a fare critiche. Tu dai comunque il tuo consiglio, poi gli altri sono liberi di accettarlo o meno. Ornella: Bisognerebbe comunque spazzar via dalla testa di tanti l’idea che chi ti educa deve per forza essere una persona integerrima, che non ha sbagliato mai, che se ha avuto un’esperienza negativa come il carcere, la deve nascondere. Da un’esperienza negativa rielaborata puoi trasmettere molte cose positive, invece succede che un figlio, se ha un genitore in carcere, è "obbligato" a nasconderlo e vive male. Chiara: Io mi domando però: prima del carcere dov’eravate, i figli c’erano? E lo stile di vita che conducevate, posso immaginare che fosse lo stesso. Perché salta fuori questo problema dell’autorevolezza, del coraggio di fare un rimprovero solo nel periodo della carcerazione? Svetlana: Ma io non lo vedo dal punto di vista del carcere, se sei lontana per lavoro in fondo è lo stesso. Giulia: No, il lavoro non è un allontanamento per causa di forza maggiore, è una scelta, in fondo stai lavorando anche per loro. Certo c’è una separazione, ma si tratta di un rapporto libero, che in carcere non ti è dato di avere. Il rimprovero comunque, quando serve, va fatto, e se la reazione di un figlio è "Da che pulpito viene la predica", mi sembra un gioco di ricatto affettivo. Io esprimo quello che penso perché la mia vita, nel bene e nel male, non la voglio cancellare! Ornella: E’ vero però che il problema non è solo il carcere, ma quello che ha portato una persona in carcere, lo stile di vita di prima, quanto è durato, se è stato un episodio o invece una lunga serie di comportamenti, che alla fine sono sfociati nella detenzione. E quindi, se si parla di autorevolezza di un genitore e riconoscimento del suo ruolo da parte del figlio, l’autorevolezza c’era o no negli anni precedenti la carcerazione? Bisognerebbe forse avere il coraggio di mettere in discussione tutto uno stile di vita, non tanto e non solo il contesto carcerario. Marta: Questo dipende anche dalla durata del periodo di detenzione. Se manchi per un anno, di certo non perdi l’autorevolezza e il ruolo, come succede invece se in carcere ci stai dieci anni. Ornella: Bisogna anche tener conto dei percorsi diversi, per esempio se una donna ha una lunga storia di tossicodipendenza o invece è in carcere per un reato gravissimo, per esempio un omicidio, che però è stato un atto di follia dentro una vita che prima era come quella di tanti altri. Una persona viene rinchiusa per vent’anni, ma prima aveva una vita "normale" e un normale rapporto con i figli, e in questo caso il carcere costituisce davvero un momento di rottura pesante, ma forse più "affrontabile" di una vita sempre sul filo del rasoio. Marta: Io per esempio prima di entrare in carcere ho parlato con mia figlia sinceramente e non mi sento neanche in colpa, lei è l’unica che mi ha detto di non preoccuparmi. Quindi mi dico che avendo mia figlia 14 anni, forse sono riuscita a fare qualcosa di buono fino ad ora. Se invece ne avesse avuti solo cinque, sarebbe stato diverso, quindi è importante anche la fascia di età. Se sei stato "autorevole", riconosciuto come genitore fino a che il bambino era ancora piccolo, e poi ti ritrovi dieci anni da fare in carcere, la perdi per forza l’autorevolezza, perché la prende chi di fatto cresce tuo figlio in quel periodo. Un’ora di colloquio a settimana non ti permette di conoscere tuo figlio nella sua vita quotidiana. Il dialogo che fai è limitato dal tempo e quindi si ferma a questioni quali la salute, l’andamento scolastico, ecc. Emilia: Io vorrei fare una domanda: quando eravate fuori, quanto tempo dedicavate ai vostri figli? Svetlana: Io ero sempre con i miei figli.
Ora ho una maturità per parlare di mio figlio e delle responsabilità di genitore, ma quando ero fuori a commettere reati, dov’era mio figlio?
Giulia: Scusate, ma a me sembra che non abbiate ancora una percezione chiara di quello che siete se parlate così. Fondamentalmente che cos’era la vostra vita fuori? Non credo che uno arrivi qui per errore. In galera si parla di un’autorità e di un ruolo di genitore, e prima dov’erano? Ora ho una maturità per parlare di mio figlio e delle responsabilità di genitore, ma quando ero fuori a commettere reati, dov’era mio figlio? E’ forse una maturità di comodo? Chiara: E’ vero, bisogna considerare che, quando ci si trova a fare determinate cose, si mette sul piatto della bilancia ciò che si considera importante ed i rischi che si corrono. Ovvio che mettendo su un piatto i figli e dall’altra parte il tornaconto che può derivare dalle nostre azioni, se poi si sceglie quest’ultimo, per forza ne consegue che i figli sono messi in secondo piano. Rita: Sì, quando si decide di percorrere una strada, spesso si decide di "omettere" i figli, io per esempio è anche per questo che ho deciso di non averne. Ornella: Ma esiste un modo per creare un avvicinamento, così che il carcere non sia causa di una scissione, di una rottura totale nel rapporto coi figli, con il compagno, con i genitori? Un colloquio al mese a disposizione, parecchie ore da passare insieme senza controllo visivo e auditivo, a vostro parere salverebbe qualcosa di più a livello dei vostri rapporti affettivi? Emilia: Sicuramente sì, anche perché in quel caso non ci sarebbe il limite insopportabile di un’ora, e quindi avresti più tempo per approfondire tutte quelle cose che in sessanta minuti diventano per forza superficiali, anche solo il fatto di vedere tuo figlio camminare, muoversi ti aiuta tantissimo. Rita: Anch’io la penso così. Ci sarebbe il tempo di potersi confrontare in modo diverso, cosa che attualmente si può fare solo per lettera, ma con un figlio non puoi pensare di "salvare il rapporto" scrivendogli.
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