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Quanto conta per noi donne il lavoro in carcere
Noi donne, abituate a lavorare sempre, fuori e poi in casa e poi con i figli, ventiquattro ore in "servizio permanente" tranne quando dormiamo (e anche allora, se i figli sono piccoli), qui dentro senza un impegno e un interesse forte rischiamo di impazzire o di adagiarci nell’ozio con tutte le conseguenze che ne possono derivare: sonnolenza, terapia, chiacchiere, depressioni o eccitazioni, proprio dovute alla rottura con i nostri affetti e le nostre abitudini. Senza un lavoro allora rimarremmo, probabilmente, a commiserarci e compiangerci. Il lavoro in carcere è indispensabile per trovare slancio, per superare, o almeno dimenticare un po’, la sofferenza, e ti aiuta a scavare nel tuo cuore e a scoprire che quello che ti procura dolore può insegnarti ad apprezzare di più la gioia, e a darti una maggiore forza d’animo. Ed è un po’, per usare un’immagine una volta tanto "romantica", come per l’ostrica: nonostante il dolore che le procura un granello di sabbia o una pietruzza che le entra dentro e la ferisce, lei probabilmente non piange, non si dispera. Giorno dopo giorno trasforma il suo dolore in una perla.
Gena (dall’Albania): Da quando sono arrivata alla Giudecca ho fatto più o meno tutti i tipi di lavoro qui dentro. Sicuramente io non avevo mai pensato, per esempio, di riuscire a fare l’imbianchina. Quando ho saputo che ero stata messa a fare questo tipo di lavoro, sinceramente ero un po’ spaventata, invece poi ho avuto un grandissimo aiuto morale e delle grandi soddisfazioni. Descrivo brevemente la mia esperienza: il primo giorno di lavoro praticamente ho preso paura, quando il capo operaio mi ha spiegato i miei compiti che consistevano nello stuccare, grattare e pitturare il muro. Ero convinta di non riuscirci perché prima di allora non avevo neanche mai preso un pennello in mano. Poi cercando di imparare e di seguire i consigli, ho iniziato ad avere una forte carica e quando vedevo il muro risanato e bianco da sola mi stupivo di riuscire con dei discreti risultati. Alla sera, anche se stanca ero soddisfatta, trovavo la voglia di leggere, di scrivere ed anche di scherzare, e le riflessioni che facevo prima di dormire mi davano forse più sofferenza, ma la superavo con più serenità grazie alle soddisfazioni che mi dava vedere il mio lavoro ultimato.
Sandra (italiana): Ho iniziato dopo circa un mese dal mio arrivo a lavorare al laboratorio delle perle e ho cominciato a fare dei fili di perle anche piccole, infilandole con l’ago una ad una e trovando la pazienza di farlo, cosa che pensavo di non possedere, e un po’ di tranquillità, perché al mattino quando mi svegliavo sapevo di avere qualcosa da fare. Ho fatto anche la scopina, e nelle ore libere continuavo ad andare al laboratorio e in un momento in cui non c’era lavoro con le perle, ho pensato di fare qualcosa usando la mia creatività. Avevo un pezzo di stoffa che ho tagliato per fare una borsa, il modello cambiava man mano che la cucivo (tutta a mano artigianalmente). Una volta finita ho ricevuto tanti complimenti dalle mie compagne, anche quelle che lavorano in sartoria, e dalla volontaria, che nemmeno Donatella Versace penso sia mai stata così tanto gratificata. Sono passati dei mesi, ora posso dire serenamente che la borsa era proprio brutta, ma la soddisfazione avuta in quel momento mi ha aiutato moralmente in maniera incredibile. Da poco ho iniziato a lavorare all’orto, ed è una esperienza lavorativa diversa da tutte le altre. Ho imparato a vangare, zappare, mettere il concime, fare la raccolta dei prodotti e devo dire che lavorare a contatto con la natura e vedere i risultati dei tuoi sforzi e della tua pazienza ti danno la forza di continuare a riflettere, di continuare a vivere questo momento di sofferenza ed apprezzare i prodigi quotidiani della vita.
Svetlana (dalla Serbia): Da quando sono arrivata in carcere sono stata messa ai vari lavori interni, scopina, MOF (addetta alla manutenzione ordinaria), aiuto cuoca, cuoca, etc.. Il lavoro che mi ha dato più soddisfazioni, e forse anche più problemi, è stato fare la cuoca. I primi giorni sono stati traumatici, perché oltre ad essere alla mia prima esperienza (personalmente cucinavo i piatti del mio paese solo per la mia famiglia), avevo la responsabilità di dover fare da mangiare per le circa 100 mie compagne. Il pensiero di sbagliare, oppure l’ansia che mi veniva dopo aver ricevuto qualche lamentela, mi hanno fatto passare delle notti in bianco. Ma tutto questo mi ha insegnato molte cose: mi ha insegnato soprattutto a chiedere ed ascoltare i consigli, perché la sicurezza di se stessi si ha con l’umiltà, e a imparare a superare i problemi personali e morali, cercando di sentirsi utili agli altri. In questo modo sono riuscita a convivere con il mio dolore impegnandomi con responsabilità nel lavoro, che serve anche a scavare nel proprio "io" in maniera costruttiva.
Omaira (dalla Colombia): io al mio paese ho cominciato a lavorare che avevo appena sedici anni, siamo in cinque sorelle e la nostra famiglia è di condizioni molto modeste. Adesso almeno, quando qui in carcere lavoro all’orto, raccolgo tutto quello che posso, non mi compro niente e metto da parte cinquanta - centomila lire alla volta. A settembre poi ero arrivata ad avere un milione, che ho spedito a casa, così il mio bambino, che sta con i miei genitori, può studiare senza essere di peso a loro. Ma c’è un’altra cosa non poco importante: è che lavorando noi riusciamo ad essere autosufficienti per le nostre necessità, e a non imporre alle nostre famiglie degli ulteriori sacrifici.
Gena, Sandra, Svetlana, Omaira
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