Suicidio a Iglesias

 

Iglesias, trentaseienne s’impicca con il lenzuolo

Gli avevano negato gli sconti di pena

 

L’Unità, 10 ottobre 2003

 

Dietro le sbarre non ci voleva più stare. Avrebbe voluto scontare la pena a casa. Non glielo hanno concesso. Si è ucciso. Una settimana fa, per rimarcare il suo disagio in quella prigione di periferia, (carcere mandamentale di Iglesias a 50 chilometri da Cagliari) si era tagliato le braccia con una lametta. Piccole ferite per esternare un dolore molto, troppo forte. Alla fine Domenico Frau non ce l’ha fatta più a resistere e ha deciso di uscire dal carcere, a 36 anni, nel modo più tragico.

Per questo motivo, per chiudere definitivamente la partita con la vita, ha aspettato che tutti gli altri detenuti alla fine della giornata rientrassero in cella e gli agenti penitenziari chiudessero i cancelli. Ha strappato il lenzuolo e dopo averlo legato alla grata della finestra e al collo, si è lasciato andare. L'ha trovato intorno alle 22 uno degli uomini di guardia al corridoio. Ogni tentativo di soccorso, compreso l’intervento degli uomini del 118, è stato inutile. Domenico Frau è morto subito dopo. Stava scontando una condanna esecutiva per uno scippo compiuto nel suo paese, Arbus, a ottanta chilometri da Cagliari. Il tentativo fallito per procurarsi un po’ di soldi con cui "andare avanti".

La fine tragica di un’esistenza non proprio felice segnata dalla povertà della sua famiglia e i problemi della droga. "Non è stata una vita facile e questo disagio se lo portava appresso come un peso - racconta don Salvatore Benizzi, parroco del carcere mandamentale -.

Qualche giorno fa, inoltre, che non volesse più stare o, meglio, che non si trovasse bene, l’aveva fatto notare tagliandosi le braccia". Non un tentativo di suicidio, come precisa il parroco da tempo impegnato a difendere i diritti dei detenuti, ma un segnale per rimarcare un disagio che, dietro le sbarre, era cresciuto. "Uno dei tanti atti di autolesionismo che si registrano in carcere".

Un atto, forte e violento, per rimarcare un disagio cresciuto, nonostante l’impiego di "spesino". Da un anno si occupava "di raccogliere le richieste degli altri detenuti per poi girarle agli agenti della polizia penitenziaria che si occupano degli acquisti. "Probabilmente in cella o nella stessa struttura è successo qualcosa che l’ha turbato profondamente, dato che negli ultimi due giorni pareva più triste. Turbato, appunto". Anche il tentativo di un rientro a casa, dalla madre e i quattro fratelli alcune settimane prima, era fallito. Tramite il suo avvocato aveva chiesto che gli venissero dati gli arresti domiciliari. Un modo per stare vicino ai famigliari, andato però a monte.

"Non c’era una condizione economica che potesse garantirlo - aggiunge il parroco -, una possibilità sconsigliata dall’assistente sociale che ha, alla fine, negato questa opportunità". Un’altra sconfitta per quel giovane che dal carcere sarebbe dovuto uscire prima della fine dell’anno.

Aveva presentato anche la domanda per i benefici e gli sconti di pena - continua il cappellano che più volte ha contestato il sovraffollamento della struttura penitenziaria (quasi cento in una struttura che ne può ospitare al massimo 60) - ma non aveva ancora ricevuto risposta". Un’attesa che, alla fine, si è trasformata in un vero e proprio incubo.

"È la classica reazione di chi ha questi problemi e dovrebbe stare altrove - spiega Nazareno Pacifico, medico e responsabile della Commissione diritti civili alla Regione - l’implosione che da un anno sta decimando i detenuti, in particolare quelli sardi. Il suicidio diventa la via di fuga più facile da percorrere per uscire da un incubo".

Il risultato di una miscela esplosiva che mette assieme "la mancanza di strumenti per la riabilitazione", il recupero e il reinserimento nella società e i tagli al sistema carcerario. Un cocktail distruttivo che, come denunciano i medici e gli addetti ai lavori, si scarica sulla parte più debole dell’intero sistema. "Il fatto è che questi giovani che stanno in carcere pagano un prezzo molto alto che deve essere attribuito a una politica scellerata - continua il medico che da anni difende i diritti dei detenuti - tesa soprattutto a misurare chi resiste di più dietro le sbarre". L’accusa è anche più forte. "Il fatto vero, per questi signori che ci governano - conclude Pacifico - è che un morto dietro le sbarre è un detenuto in meno da mantenere". Domenico Frau, probabilmente, era uno di questi.

 

 

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