|
Lo zoo umano. Scene di violenza da un interno di Sergio Segio (pubblicato in Fuoriluogo, 15 luglio 1997)
Il carcere è opaco per propria irrinunciabile natura: un elemento costitutivo al pari delle mura, delle sbarre, delle serrature, del clangore dei ferri, dell’odore rugginoso e stantio. In questo senso, la magnifica utopia del "carcere trasparente", programmatico corollario della riforma detta "Gozzini" e cavallo di battaglia dell’allora direttore generale dei penitenziari Nicolò Amato, equivale all’utopia, ancor più magnifica, dell’abolizionismo. Il carcere messo a nudo sarebbe costretto all’estinzione, com’è stato per i manicomi. Perché diverrebbe innegabilmente evidente che la pena reclusiva è pena violenta, non solo sofferenza morale ma vera e propria pena corporale, sempre e comunque; si veda, al riguardo, il bel libro di Daniel Gonin, "Il corpo incarcerato", psichiatra e medico penitenziario che dal 1962 lavora (e osserva) nelle carceri francesi. E, una volta disvelata la mistificazione della "pena dolce e redentrice", non rimarrebbe altra strada che istituzionalizzare la tortura oppure chiudere le prigioni. La prima opzione non è ragionevolmente pensabile; la seconda non è ragionevolmente probabile. Vorremmo fortemente che fosse, ma dubitiamo potrà mai essere.
Il come e il perché della pena
Dunque il carcere, per sussistere, innanzitutto nella propria funzione simbolica di rassicurazione sociale, ha da rimanere "altro", opaco e separato, universo del non detto e del non conoscibile. Tale ragionamento, meno paradossale di quanto possa apparire, non rende meno nobili e necessarie le iniziative tese quanto meno a ridurre le manifestazioni più appariscenti di violenza o trattamento inumano nei confronti di persone detenute o arrestate. Tuttavia, tali iniziative dovrebbero sempre accompagnarsi alla consapevolezza che ciò - la riduzione del tasso di violenza - è seriamente possibile solo all’interno di una complessiva logica di riduzione del carcere. Interrogarsi sul come della reclusione è inseparabile dall’altra, preliminare, domanda sul perché della stessa. Questo porterebbe più facilmente a immaginare e proporre un altrimenti dal carcere. Quando, come quasi sempre accade, i due interrogativi non si intrecciano e sostengono vicendevolmente, i risultati in termini di "umanizzazione" sono dubbi o nulli. In qualche occasione, addirittura controproducenti. E’ questo, ad esempio, un indesiderato e certo non previsto effetto della prima ispezione del "Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti" (CPT) in alcuni istituti penitenziari e commissariati italiani, avvenuta nel 1992, il cui Rapporto finale indicava come maggior problema quello del sovraffollamento e il carcere milanese di San Vittore come la situazione più compromessa. Le nuove ispezioni del CPT, avvenute nel novembre 1995 e febbraio 1996 (ne ha parlato lo scorso numero di Fuoriluogo) ribadiscono esattamente le stesse cose: il sovraffollamento è la principale questione e San Vittore la realtà più preoccupante. E, di nuovo, nella formula istituzionale della "Raccomandazione", le autorità penitenziarie vengono invitate ad intervenire. Le quali, in verità e per una volta, hanno prontamente provveduto, come rispondono ufficialmente al CPT, attraverso «frequenti e sistematici sfollamenti» che, nel corso del 1996, per quanto riguarda San Vittore «hanno comportato, complessivamente, il trasferimento ad altri istituti penitenziari di circa 2000 soggetti». Una parte di costoro sono finiti nelle carceri della Sardegna, con quale giovamento delle proprie condizioni di vita, di mantenimento dei rapporti familiari, di contatto con i difensori, di opportunità risocializzanti è facile immaginare per chiunque, anche se non particolarmente avvertito dei problemi dei detenuti.
Il silenzio degli animali
Se fosse possibile (certo sarebbe utilissimo: per tutelare realmente bisogni e diritti dei reclusi, ma anche per la stessa amministrazione penitenziaria e per legislatori talvolta poco ferrati sull’argomento) far stilare ai detenuti stessi un "Rapporto" e delle "Raccomandazioni", l’ordine dei problemi e delle necessità sarebbe decisamente un altro e, sicuramente, San Vittore, non starebbe in cima alle classifiche negative. Non solo per le attività socializzanti, lavorative e comunicative (chi può, vada a vedere il sito Internet: http: //www.sociol.unimi.it/cayenna) che vi si svolgono, ma anche per la rara - e quindi tanto più ammirevole - consapevolezza del direttore di quel penitenziario, Luigi Pagano, che, proprio commentando il Rapporto del CPT del 1992, ebbe ad affermare: «La condizione quotidiana che i detenuti sono costretti a vivere è equiparabile a una tortura», ma, ancor più acutamente a segnalare un fondamentale problema: il silenzio dei detenuti, la costretta passività: «Non sento rumori umani dai raggi, non sento voci. Questo dovrebbe spaventare chiunque. Dovremmo preoccuparci del silenzio che viene dalle carceri: ricorda quello che viene dai giardini zoologici». Animali in cattività e senza speranza gli uni e gli altri, snaturati nell’identità e nei comportamenti (a proposito: "cattività" significa sia prigionia che malvagità, meschinità). Eppure, per quelli degli zoo, se hanno la ventura di uscirne, giustamente sono previsti e studiati appositi e assai difficili percorsi di rieducazione alla libertà, al reinserimento nel proprio contesto, per tentare insomma di rimediare ai guasti prodotti dalla prigionia sui corpi e sui comportamenti. Per gli altri, gli animali umani, l’ipocrisia è tale per cui viene sostenuto essere la gabbia a rieducare: come a dire, una bestialità etologica.
L’invisibilità della tortura
Quando la porta del carcere si socchiude e uno sguardo esterno vi penetra, esso risulta inevitabilmente deformato, condizionato, incapace di vedere ciò che pure ha sotto il naso. Lo sguardo esterno, per quanto professionalmente autorevole e meglio motivato, che cerca segni di tortura, non sa - non possiede i "codici" - per rintracciarla, per riconoscerla appieno nelle infinite varianti della violenza fisica, di quella psicologica, farmacologica (tutto o quasi viene proibito o limitato nelle prigioni, tranne psicofarmaci e tranquillanti, distribuiti a iosa, quale che sia il disturbo), di quella prodotta da insensatezze burocratiche o da discrezionalità impenetrabili, dal bastone o dalla carota, o di quella, "trasversale", che colpisce congiunti e familiari. Una violenza che spesso deriva più da ottusità distratta, che non da cattiveria o sadismo, ma connaturata senza scampo ai luoghi e alle funzioni. Ma, pur volendo soffermarsi solo su quella propriamente fisica, occorre dire che Amnesty ha descritto la reale situazione assai meglio di quanto abbia saputo o potuto fare il CPT. Il quale, infatti, scrive nell’ultimo Rapporto che la sua delegazione «non ha avuto notizia di alcuna documentazione di tortura relativa a detenuti ... e non ha inteso che di pochissime documentazioni recenti relative ad altre forme di maltrattamenti fisici... eccezione fatta e notevole per la Casa Circondariale e la Casa di Reclusione di Napoli». Eppure, quest’unica "eccezione", in cui numerosi detenuti affermavano di essere stati sistematicamente percossi, viene commentata assai sfumatamente in questo modo: «il CPT riconosce che possa essere necessario, allo scopo di mantenere l’ordine, adottare un atteggiamento particolarmente fermo nei riguardi dei detenuti. Tuttavia, non bisognerebbe mai ammettere (il corsivo è nostro, ndr) che un tale metodo degeneri in atti di maltrattamenti deliberati tali quelli sopradescritti».
Amnesty è meno reticente
I rapporti di Amnesty International, in particolare in quello del 1995 recepito dal Comitato contro la tortura delle Nazioni Unite, risultano meno condizionati e reticenti, laddove segnalano che in Italia, «nel corso degli anni ’90 vi è stato un significativo incremento del numero delle denunce di violenze fisiche gratuite e deliberate sui detenuti da parte di forze dell’ordine e agenti di custodia», rivolte specialmente ad immigrati. Ma, soprattutto, Amnesty rivela un segreto di Pulcinella: chi denuncia le violenze ricevute, viene a sua volta denunciato per resistenza od oltraggio a pubblico ufficiale e mentre - sostiene sempre Amnesty - le denuncie verso agenti non hanno seguito o comunque danno luogo a pene simboliche, le contro - denunce comportano spesso un alto prezzo per il detenuto. Un dato che sembra sfuggire al CPT quando riscontra assenza di «documentazioni». Ma si consoli l’Italia: il Rapporto ’97 di Amnesty evidenzia una stessa e forse più grave situazione in Germania. E’ questo, insomma, il nodo: quale che sia il Paese o il singolo penitenziario, la violenza, più o meno sistematica, più o meno fisicamente violenta, è inscritta nel corredo genetico dell’istituzione. Descriverla, contrastarla, pensare realisticamente di ridurla, essendo impossibile annullarla se non abrogando la prigione, è doveroso e necessario: alla radicalità dell’analisi può e deve accompagnarsi un pragmatismo riformista della pratica, così come al pessimismo della ragione va sempre opposto l’ottimismo della volontà. Ma, forse, ciò va fatto liberandoci da ingenuità ed ipocrisie, ed avendo coscienza che, allo scopo, vale più rompere il silenzio e la passività dei detenuti che istituire 100 "difensori civici". Lo ha dimostrato, ieri, il movimento carcerario che, esso, ha prodotto le condizioni di varo e di allargamento della "Gozzini" e, oggi, l’iniziativa di Sofri, Bompressi e Pietrostefani che, se non altro, ha imposto attenzione e fatto istituire in quattro e quattr’otto un Comitato conoscitivo sui problemi penitenziari nell’ambito della Commissione Giustizia della Camera. Se questo Comitato servirà a qualcosa, oppure a poco o nulla come i precedenti, dipenderà in buona parte dai detenuti stessi, dal loro protagonismo e dalle sollecitazioni politiche che sapranno portare avanti.
|