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Torture tra metafora e realtà di Sergio Segio
Fuoriluogo, aprile 2002
«La
condizione quotidiana che i detenuti sono costretti a vivere è equiparabile
alla tortura»: così il direttore del carcere San Vittore, Luigi Pagano,
rispondeva al giornalista Enrico Deaglio nel 1995. Pagano si riferiva al
sovraffollamento: fenomeno a oggi irrisolto, anzi aggravato e con esso le
sofferenze dei reclusi. I quali, però, sembrano essere sottoposti a una
violenza un po’ meno metaforica di quella adombrata da Pagano, la cui
democraticità è, peraltro, da tutti riconosciuta. Secondo quanto viene
periodicamente denunciato dall’Osservatorio Calamandrana, attivo nel carcere
milanese, le celle di San Vittore troppo spesso somigliano a una piccola
Bolzaneto. Questo è solo uno, e non il più grave, dei fatti (pestaggi, suicidi, morti evitabili) riportati nei vari numeri del bollettino. Nei giornali carcerari, tranne apprezzabili eccezioni, il tema della violenza sui reclusi non compare mai. Men che meno se ne parla nei media ufficiali, ai quali, in effetti, raramente arrivano notizie al riguardo. C’è, come dire, una carenza di fonti e l’obiettiva difficoltà del verificare l’attendibilità dei racconti. Tuttavia, in questi mesi, dall’Osservatorio sono stati riferiti numerosi fatti che configurerebbero pesanti reati. A questo punto, i casi sono due. Chi ha il potere nonché il dovere di accertare e perseguire reati (la magistratura inquirente) e quanti hanno la responsabilità degli istituti di pena (direzione locale e centrale) accertino la sussistenza o meno di quanto riportato e agiscano di conseguenza: perseguendo i responsabili di pestaggi (e delle eventuali omissioni e complicità), nel caso vengano comprovati i fatti, oppure e viceversa rimuovendo ogni sospetto di comportamenti violenti e/o omertosi da parte del personale penitenziario e medico, se tali fatti risultassero falsi. L’altra possibilità è che tutti (magistrati, direzione, media) si voltino dall’altra parte. Non sarebbe la prima volta. E neppure l’ultima. Salvo poi (fingere di) stupirsi quando la vastità delle violenze, come a Sassari, faccia saltare il coperchio della pentola. Almeno momentaneamente. Poi, come sempre, tornano impunità e silenzio. Un silenzio che viene dalle carceri e che, diceva sempre Pagano (peraltro tra i promotori della "Carta di Calamandrana" che ha dato le mosse all’Osservatorio) nell’intervista citata, «dovrebbe preoccupare chiunque: ricorda quello che viene dai giardini zoologici». Certo: per rompere il silenzio rassegnato e avvilito degli uomini in gabbia occorrerebbe che alle loro parole non rispondesse sempre e solo il silenzio distratto della società civile e quello omissivo di chi ha il dovere di accertare i fatti. Perché proprio di distrazioni e omissioni, di omertà e illegalità impunite è da sempre lastricato l’inferno carcerario. |