Articolo per Narcomafie

  

La crisi delle carceri italiane: galeotto fu il senso comune

di Sergio Segio

 

Narcomafie, febbraio 2003

 

"La soluzione a tutti i problemi delle carceri? Gliela do subito: chiuderle". Così rispondeva Francesco Di Maggio, allora al vertice del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (DAP), in un’intervista sul quotidiano "la Repubblica", il 30 gennaio 1994. Di Maggio aveva (ora è deceduto) fama di scarsa diplomazia e, quindi, frequente mobilità negli incarichi: al DAP era arrivato da Vienna, dove era stato inviato dal governo italiano come consulente giuridico presso il programma delle Nazioni unite per il controllo degli stupefacenti.

Ciò anche a seguito di sue rumorose dichiarazioni al "Maurizio Costanzo Show", secondo cui la mafia, più che a Palermo o Reggio Calabria, era annidata a Roma e Milano. Altri guai gli erano derivati dall’inchiesta sul verminaio dell’autoparco di via Salomone a Milano, che, muovendo dalle dichiarazioni di un "pentito" catanese, aveva portato all’arresto di alcuni poliziotti e un vicequestore, nonché a ombre e illazioni su alcuni magistrati milanesi, lui compreso, sino a scatenare un conflitto tra la procura del capoluogo lombardo e quella fiorentina, nonché tra polizia di Stato e GICO della Guardia di finanza. Prima dell’esilio viennese, infatti, Di Maggio era stato magistrato di punta nelle inchieste sulla criminalità organizzata e sugli insediamenti mafiosi nel Nord Italia, sino a entrare nello staff di Domenico Sica all’Alto commissariato antimafia. Il quale Sica, al contrario, era meno spigoloso, e assai più attento alle ragioni della discrezione, di quanto non sapesse o volesse risultare Francesco Di Maggio. La cui affermazione, citata all’inizio, aveva suono e intenzioni paradossali. Tant’è vero che il reggente del DAP, diversamente, era un acceso sostenitore della necessità di costruire tante e nuove carceri, come rimarcava in continuazione nelle numerose interviste, tra cui una, sempre su "la Repubblica", del 27.5.94: "Lo Stato dovrebbe darsi da fare per costruire le nuove carceri. C’è una novità che è frutto di Tangentopoli: il costo di un "posto-detenuto" che, a causa del sistema tangentizio, era giunto alla bella cifra di 450 milioni, oggi è sceso a 180 milioni. È il momento di procedere alla costruzione dei 26 mila posti che servono. Anche perché - proseguiva Di Maggio - arriveremo presto a quota 60-70mila [reclusi], contro una capienza di trentasettemila".

Anzi, in un’intervista precedente ("la Repubblica", 30.1.94), i posti mancanti erano da lui stimati in numero ancora superiore, come dichiarato a margine di una denuncia: "Non c’è un istituto, di quelli appena costruiti o in via di costruzione, che funzioni. Ci piove dentro, hanno truffato alla grande sui materiali. Un "sacco", una rapina ai danni del contribuente. Ogni posto per i detenuti viene a costare alla collettività 450 milioni. Ne bastavano 55. Il ministero dei Lavori pubblici dovrebbe saperlo bene. Invece di una cella se ne facevano dieci. Per queste "stranezze" abbiamo già presentato 42 denunce a varie procure. Se poi pensa che di posti ne mancano 30 mila, può capire in che acque navighiamo (e sarebbe interessante oggi sapere che fine hanno fatto quelle 42 denunce, visto che il settore penitenziario è stato tra i pochi "risparmiati" dalle inchieste sulla corruzione degli anni Novanta).

Non molto diverse erano state, l’anno precedente, le cifre fornite dal ministro Giovanni Conso: "I detenuti sono oggi quasi 50 mila, 20 mila in più del limite massimo. Drammatica relazione del Guardasigilli al governo"; se le cifre sono simili, dall’articolo di Giuseppe D’Avanzo, ne "la Repubblica" del 20 marzo 1993, si ricavava che le "ricette" differiscono: "È impensabile, ha sostenuto il ministro, costruire nuove carceri. I tempi non sarebbero inferiori ai cinque anni e spesso vicini ai dieci. Così non resta che utilizzare ciò che già c’è. Come, ad esempio, i 32 carceri mandamentali, ristrutturati nello scorso anno". E qui arriviamo al punto che ci ha spinto a fare questa necessaria premessa e a citare in particolare Di Maggio, peraltro anche antesignano sostenitore del cosiddetto "braccialetto elettronico".

 

Schiettezza e dimissioni

 

A differenza di Nicolò Amato (anch’egli ex PM), che diresse le carceri per l’intero decennio precedente, la gestione di Francesco Di Maggio, certo e diversamente assai breve, non ha lasciato segno alcuno. Abbiamo scelto di citarlo con insistenza per una sua peculiare e rara caratteristica in chi esercita funzioni di cotanta responsabilità: la schiettezza.

Una dote o un difetto, a seconda dei punti di vista, che gli costò rapidamente le dimissioni, da lui dichiarate e offerte nel gennaio 1994, dopo l’ennesimo contrasto coi sindacati del personale ("Pretendono di gestire ancora in maniera consociativa l’amministrazione penitenziaria. Un’ingerenza intollerabile" riferiva Di Maggio, sempre nell’intervista a "la Repubblica"), ma rientrate e respinte dall’allora Guardasigilli Conso; poco dopo, subentrato il governo Berlusconi, la situazione si invertì: il ministro di Grazia e Giustizia Alfredo Biondi, chiese e ottenne il "licenziamento" di Di Maggio, che cercò vanamente di resistere ("Il governo licenzia Di Maggio", "Biondi e la Maiolo attaccano Di Maggio, difeso da AN, una parte di Forza Italia e PDS. Berlusconi: "Va via", titolava e sottotitolava il quotidiano "il Manifesto" del 23 agosto 1994). Mentre "la Repubblica" dell’8 luglio dello stesso anno, anticipava: "Iniziate le grandi manovre per un cambio al vertice dei penitenziari. L’alto funzionario: "Non mi dimetterò". "Carceri, un giallo per Di Maggio. Gli agenti brindano: "Se ne va", ma il ministero continua a negare". E questo, in effetti, è curioso: gli agenti che "brindano", i sindacati che "ingeriscono" sono esattamente gli stessi che brinderanno, avendolo ottenuto, al "licenziamento" di un altro, e ben diverso in quanto a riferimenti, esperienze, culture e convincimenti, reggente dell’Amministrazione penitenziaria: Sandro Margara.

 

Numero di posti e arte d’arrangiarsi

 

Ma soffermiamoci ora sul punto: quei 25-30 mila detenuti così autorevolmente dichiarati in eccedenza. Il nuovo direttore del DAP ne ha ridimensionato il numero. "Negli istituti italiani quindicimila reclusi di troppo". Il problema, comunque, non cambia. Ciò che evidentemente cambia nel tempo sono i parametri con cui vengono definite le capienze "regolamentari", o "effettive", e quelle dichiarate "tollerabili" (da chi, su quali standard, per quanto tempo?) degli istituti di pena.

Di nuovo Di Maggio, a ridosso della nomina, aveva dichiarato che le cifre e le statistiche sugli istituti penitenziari e sui loro ospiti usualmente diffuse erano prive di fondamento o, comunque, inverificabili. I numeri, in effetti, non tornano.

I dati più recenti del DAP ci dicono che, al 31 gennaio 2000, la capienza "regolamentare" era considerata in 42.830 unità, mentre quella "tollerabile" era stimata in 48.170. Alla stessa data, i detenuti presenti erano 51.862, il numero di istituti in funzione 206, cui andavano aggiunti 51 mandamentali. Nel 1998 (al 28 febbraio) le capienze erano 43.367 e 49.893, i reclusi presenti 49.619, distribuiti in 261 istituti, case mandamentali comprese.

Solo pochi anni prima, i numeri della capienza effettiva erano sensibilmente minori: secondo l’Eurispes (nel Rapporto Italia 1996), che si basa sempre sui dati del DAP, a settembre 1995 erano 38.639, a fronte di 47.771 presenti (esclusi quelli nei mandamentali che, tuttavia, sono sempre mediamente nell’ordine di 250 unità). In un’intervista dell’estate 1993, Di Maggio dichiarava che erano presenti 50.518 carcerati "a fronte di una ricettività ordinaria di 35.283 detenuti, con una tolleranza massima di 42.761" ("la Repubblica", 10 agosto 1993).

Insomma, in questi ultimi 7 anni la ricettività effettiva sarebbe cresciuta di circa 7.500 posti e quella tollerabile di 5.500. E questo senza la nuova stagione edilizia (do you remember il Costruttore De Mico?) che auspicava Di Maggio, stante che le carceri di (relativamente) recente edificazione sono ancora da rendere operative.

Solo in queste ultime settimane il governo ha reagito ai rinnovati rilievi critici del "Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti", annunciando lo stanziamento di 13,8 miliardi di lire per consentire l’apertura di sei nuovi istituti: Ancona (101 posti), Perugia (250), Caltagirone (170) Rossano (170), Bollate (800), Sant’Angelo dei Lombardi (100), per un totale di 1.591 nuovi posti-cella, mentre devono ancora essere aggiudicati i lavori per la costruzione di tre nuovi istituti a Reggio Calabria (300 posti previsti), Marsala (175) e Favignana (100).

Da dove siano spuntati quei 7.500 posti è dunque fatto misterioso: forse da qualche "adeguamento strutturale", ovvero qualche nuova sezione o cella costruita nei penitenziari già esistenti, qualche ristrutturazione o, più semplicemente, con il raddoppio delle "brande" in celle già stipate. Forse il criterio di codificazione della "tollerabilità" segue gli stessi percorsi e meccanismi resi celebri dal decreto Donat - Cattin sull’atrazina, che da un giorno all’altro ne rese "tollerabile" l’eccessiva concentrazione nell’acqua semplicemente cambiando con un tratto di penna i valori consentiti. Forse, ancor più semplicemente, aveva ragione Di Maggio: occorre dubitare delle cifre carcerarie, comprese quelle da lui fornite.

 

Un letto a tre piazze

 

Eppure i numeri sono importanti, perché dovrebbero contribuire a fornire quella cognizione dei problemi indispensabile a formulare proposte sulla cui base si dovrebbero innestare le decisioni politiche e le gestioni operative.

Si sente dire da parte di giornalisti, ma anche di "tecnici" ed "esperti", che la popolazione carceraria è raddoppiata nel corso degli anni Novanta. In realtà essa è semmai triplicata, se, come dobbiamo, consideriamo la cosiddetta area penale esterna, ovvero quanti scontano, o finiscono di scontare, una pena in una o l’altra delle misure alternative al carcere, ma, principalmente, nella forma dell’affidamento ai servizi sociali, che ha conosciuto un trend espansivo nella seconda metà degli anni Novanta (i fruitori erano 3.988 nel 1991, sono diventati 24.485 nel 1999). Se i presenti in carcere al 31 dicembre di questi ultimi anni si sono aggirati sulle 50 mila unità, coloro che scontano una pena all’esterno erano e sono, mediamente, altri 30 mila.

Anzi, a voler essere precisi, a fine 1999, erano 51.814 in cella e 35.717 in misura alternativa. Peraltro è stata esattamente questa la "valvola di sfogo" che non essendo stati costruiti i 25 mila nuovi posti della proposta Di Maggio - ha consentito non di chiudere le carceri, come nella provocazione dello stesso, e che ha evitato di farle esplodere, limitandosi (assai semplicemente e a costo zero) a fare uscire (o non entrare) 30 mila persone attraverso le misure alternative alla detenzione.

Va da se (o lo dovrebbe) che, stante le capienze che abbiamo appena esaminato, chiunque proponga, come sentiamo o leggiamo in continuazione, "giri di vite" e "misure di rigore", vale a dire controriforme e nuove emergenze che riportino in carcere questa considerevole massa di "delinquenti a piede libero", o si sta esercitando nella (rischiosa) arte della demagogia, o non sa quel che dice, o, infine, sta proponendo una vera e propria e subdola sovversione del sistema: ovvero di far dormire tre persone in ogni letto di ogni penitenziario della Repubblica. Con le conseguenze facilmente immaginabili: rivolte, malattie, censure internazionali, richiami di Strasburgo, impennata di suicidi, gesti di autolesionismo, distribuzione ancor più generosa di Valium"

 

Il fascino indiscreto della tolleranza zero

 

Perché la doverosa attenzione ai numeri ci dice (o dovrebbe dirci) che i nostri trend sono simili, fatte le proporzioni, a quelli, ad esempio, degli Usa. Un articolo di Vittorio Zucconi, ne "la Repubblica" del 14 dicembre 1999, ha quantificato gli effetti delle politiche Usa: "L’America delle prigioni, due milioni dietro le sbarre", questo il titolo del prezioso reportage.

"Nel 1970 c’erano 200 mila persone in galera. Nel 1980 erano diventate 315 mila. Nel 1990, dopo il decennio di Reagan, erano più che raddoppiate, 739 mila. E, nel 1999, gli americani in cella sono diventati 1.983.000". L’inviato di "Repubblica" fornisce la necessaria e corretta interpretazione di quel dato: "È la droga ad avere riempito le carceri americane, nell’eterna illusione che il consumo, lo spaccio, il traffico di cocaina, eroina, amfetamine, stimolanti, possano essere sconfitti con le manette e le sentenze. Nel panico di genitori, autorità, famiglie, consigli comunali, Parlamenti messi di fronte al dilagare della tossicodipendenza, gli Stati hanno reagito inasprendo le pene, rendendo obbligatorie le sentenze senza condizionale, tre condanne e poi l’ergastolo. Un milione di persone, la metà dei detenuti americani, sono incarcerati per possesso o spaccio. Senza che, naturalmente, il traffico e il consumo di droghe diminuiscano".

La tabella a corredo dell’articolo evidenziava che l’Italia ha il tasso di detenzione più basso: U.S.A. 735 detenuti per 100 mila abitanti, Portogallo 145, Spagna 113, Regno Unito 120, Germania 90, Francia 90, Italia 86. Ma questo dato va un po’ meglio analizzato, come vedremo più avanti. Il brillante servizio di Zucconi suscitò qualche effimera resipiscenza sulla bontà della "ricetta Giuliani" e scosse la pubblica convinzione che in Italia occorra carcerare di più e più a lungo; nonché la "ricetta Di Maggio", che ora pare tornata d’attualità nei vertici del DAP, sull’utilità e/o indispensabilità di costruire nuove prigioni. Continua infatti Zucconi: "Costruire nuove carceri, come la California ha fatto spendendo migliaia di miliardi (chi invoca pene più severe e sicure ignora sempre i costi collettivi della detenzione), crea soltanto immense "porte girevoli" nelle quali si entra piccoli criminali e si esce grandi".

In questo e solo senso sì, il carcere è un hotel: per quella porta girevole, attraverso cui "ogni giorno, mille nuovi "ospiti" americani entrano e cinquecento ne escono". E in Italia?

 

La leggenda del perdonismo

 

Qui c’è un altro mistero dei numeri e un’inconsapevolezza del senso comune su cui riflettere. Se, come si diceva prima, in un giorno "X" dell’anno, i detenuti non sono 50 mila, bensì 87 mila, nel corso dell’anno coloro che entrano nel carcere sono assai di più. Le cifre degli ingressi negli ultimi anni spaziano da un minimo di 56.076 (nel 1990) a un massimo di 98.245 (nel 1994); guardando agli ultimi periodi, nel 1998 sono stati 87.134 e, nel 1999, 87.868. Per avere un’idea realistica del numero e del flusso di cittadini italiani sottoposti a misure penali bisogna sommare quelle cifre: gli ingressi nell’anno, i presenti in carcere al 1° gennaio e una quota di fruitori delle misure alternative. In effetti, il procedimento non è del tutto esatto (perché ci può essere un qualche margine di sovrapposizione tra le diverse voci, un certo numero di "pendolari" che entrano più volte nel corso dell’anno, e perché i semiliberi sono conteggiati sia nelle presenze che nelle misure alternative), ma è comunque questo l’ordine di grandezza cui pensare.

Ovviamente, ciò vale anche per gli altri Paesi. Negli U.S.A., ad esempio, secondo i dati riportati da Nils Christie in un importante lavoro (significativamente titolato "Il business penitenziario - La via occidentale al gulag", edizioni Elèuthera, 1996) il totale della popolazione americana sotto controllo penale, nel 1990 - 1991, assommava a ben 4.454.360 individui, così suddivisi: 71.608 nelle prigioni federali, 751.806 in quelle statali, 429.305 in quelle locali (dati relativi al 1991), 2.670.234 in libertà condizionale e 531.407 in libertà "sulla parola" (dati relativi al 1990). Il che portava il tasso reale di penalizzazione - carcerizzazione a 1.794 su 100.000 abitanti.

A livello europeo, per aver un termine di raffronto più omogeneo alla realtà italiana, possiamo considerare il probation, che è la sanzione alternativa al carcere più diffusa in molti Paesi e che possiamo (alla lontana, poiché negli altri Paesi si tratta, giustappunto, di sanzioni o pene comminate in sentenza, mentre in Italia sono invece misure decise discrezionalmente nella fase esecutiva della pena) paragonare al nostro affidamento in prova al servizio sociale. Secondo i dati più recenti del Consiglio d’Europa, in Germania "Ci sono 67.677 detenuti (dato relativo al 1° novembre 1996) e 87.440 in probation (nel 1997); in Francia 54.014 reclusi e 57.234 in probation e 25.5,57 al lavoro di pubblica utilità, in Inghilterra 55.537 detenuti e 54.090 in probation e 47.120 al lavoro di pubblica utilità.

L’Italia, insomma, con i suoi 24.48.5 affidati (nel 1999) risulta decisamente avara nelle concessione di alternative alla detenzione. Queste cifre e raffronti la dicono lunga sulla strumentalità e infondatezza di molti dei dibattiti sulla sicurezza e sul presunto "perdonismo" italico. Dicono, cioè, che negli altri Paesi magari si condanna di più, ma si carcera meno che da noi. Una piccola verità che i tecnici conoscono, ma raramente dicono; che i politici, in maggioranza (e di maggioranza, quanto quelli di opposizione), non sanno e non si adoperano per sapere; che gli operatori dell’informazione non sanno e fingono di sapere. Un fatto che non può che produrre leggi e misure sbagliate o pressappochiste e un sistema penitenziario e penale ingiusto e al collasso. Proprio come quello che ci ritroviamo.

 

 

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