|
Inchiesta: "Così si muore in galera" Relazione di Luigi Manconi (Associazione "A buon diritto")
Il dato è secco ed eloquente. In carcere ci si ammazza 19 volte più di quanto ci si ammazza fuori dal carcere. Ed è un dato persino più significativo, e assai meno scontato, di quanto possa apparire al primo sguardo. Infatti, contrariamente a ciò che vorrebbe un diffuso luogo comune, non è affatto vero che la tendenza a togliersi la vita sia strettamente correlata alla riduzione della speranza (e della speranza di vita). In sintesi: più si è disperati più ci si suicida. Non è così, come documenta la gran parte delle ricerche in materia: tra i malati gravi, quelli irreversibili e quelli terminali, la percentuale di suicidi è ridotta. E su un altro piano, nei paesi dove è in vigore la pena capitale, il fenomeno dei suicidi tra i condannati a morte non ha alcuna rilevanza statistica. Dunque, quello scarto così ampio tra il numero di quanti si suicidano in carcere (quasi 13 ogni diecimila detenuti nel 2001) e il numero di quanti si tolgono la vita fuori dal carcere (meno dello 0.7 ogni diecimila residenti nel territorio italiano), va spiegato altrimenti. Sempre che, beninteso, il gesto di chi si dà la morte (e i molti gesti di quei molti che si danno la morte in carcere) consenta una qualche spiegazione razionale ed "esterna" al vissuto del suicida.
Per avvicinarci a un’interpretazione attendibile, disaggreghiamo quei dati e approfondiamoli. La ricerca ha preso in considerazione i suicidi e gli atti di autolesionismo avvenuti in case di reclusione, case circondariali case mandamentali ospedali psichiatrici giudiziari, case di cura e custodia, case lavoro. La prima notazione riguarda la crescita dei suicidi in termini assoluti. Tra il 1991 e il 1992 si registra un salto rilevantissimo (da 29 a 47), parallelamente all’incremento, altrettanto significativo, delle dimensioni della popolazione carceraria (da poco più di trentunmila a oltre quaranta quattromila detenuti). Le ragioni di una crescita così imponente sono diverse. Nel 1990 viene promulgato un provvedimento di amnistia, che consente a molti di uscire dal carcere e a molti di non entrare in carcere; e questo produce, negli anni immediatamente successivi, una sorta di contraccolpo, cui si sovrappongono gli effetti di due normative: il testo unico sulle sostanze stupefacenti e le misure antimafia (che precludono a molti, non solo condannati per reati di criminalità organizzata, l’accesso ai benefici della "legge Gozzini"). Ne deriva che, a partire da quell’anno (1992), e per l’intero decennio seguente, il numero dei suicidi aumenta, arrivando a triplicarsi, contestualmente alla crescita della presenza media dei detenuti, fino ai 56.537 del maggio 2002. Sottolineiamo questo perché è difficile escludere una correlazione tra crescita dell’affollamento (esiguità di spazio, promiscuità, tensione e reciproca aggressività, carenza di servizi, assistenza e strutture) e crescita dell’insostenibilità della condizione reclusa. Oggi, la "densità globale" è di oltre 130 detenuti per 100 posti effettivamente disponibili (e si tratta di una stima assai ottimistica). Va ricordato, in ogni caso, che l’incremento dei suicidi in termini assoluti e (segnatamente negli ultimi due anni) in termini percentuali è assai più elevato e rapido del ritmo di crescita dell’intera popolazione carceraria. In sintesi: il numero dei suicidi, dal 1990 ad oggi, è più che triplicato, mentre quello dei detenuti è meno che raddoppiato. Quest’ultima tendenza, va detto, ha un’origine assai più lontana. A partire dal 1953, il tasso di detenzione (ovvero il rapporto tra popolazione carceraria e popolazione complessiva) cresce, sia pure con un ritmo tutt’altro che regolare. Particolarmente intenso è, come si è detto, l’incremento a partire dal 1992 e per il decennio successivo, cosicché il tasso di detenzione del 2001 si avvicina a quelli, elevatissimi, dell’immediato dopoguerra (1945-1952). Se nel 1952 il tasso è di 100.55 detenuti su 100.000 abitanti, nel 2001 supera il 98. In questo quadro di crescente "carcerizzazione", l’incremento del numero dei suicidi è ancora maggiore.
D’altra parte, a conferma ulteriore di questa tendenza, troviamo la crescita dei dati relativi agli atti di autolesionismo e ai tentati suicidi. In carcere, gli atti di autolesionismo il "tagliarsi", innanzitutto - hanno una funzione principalmente "dimostrativa", ma questo non ne limita in alcun modo la drammaticità. Il "farsi male" e il tentativo di togliersi la vita costituiscono, spesso, la sola forma di auto-rappresentazione e l’unica voce (pur stenta e rotta) rimasta a chi, per definizione e per condizione, è senza voce. E, infatti, al detenuto viene imposta, quale pena aggiuntiva, l’interdizione a comunicare col resto della società. Rimasto "senza parola", il detenuto si adatta, pertanto, a parlare attraverso il proprio corpo: il corpo offeso e costretto è, in molte circostanze, il solo mezzo di comunicazione con l’esterno. Il corpo è qui, davvero, il mezzo e il messaggio. E il corpo viene buttato così com’è - "tagliato", lacerato, mortificato - in faccia a chi lo vorrebbe ignorare. Di conseguenza non stupisce che, ogni anno, un detenuto su sette - e possiamo far riferimento solo ai dati ufficiali - ricorre all’autolesionismo o tenta il suicidio. In estrema sintesi, possiamo dire che:
Dunque, nei due anni presi in esame (2000 e 2001), il maggior numero di suicidi si concentra tra i detenuti che scontano condanne definitive (57) e - all’opposto - tra coloro che si trovano in custodia cautelare, in attesa di rinvio a giudizio o, se rinviati, in attesa della sentenza di primo grado (48). Questi ultimi, pertanto, sono - sotto tutti i profili - pienamente innocenti all’atto del suicidio. Si può dire, allora, che tra i "nuovi giunti" (questa è la definizione nel linguaggio della burocrazia carceraria) il rischio di suicidio è particolarmente elevato. Se consideriamo la durata della permanenza in carcere precedente il suicidio, troviamo che quasi il 55% dei detenuti che si tolgono la vita, lo fanno nei primi sei mesi di reclusione e oltre il 64% nel corso del primo anno. Si tratta, in tutta evidenza, di un fatto che richiede un’attenta riflessione. Così come va considerato con cura il dato relativo all’età: oltre il 53 % dei suicidi ha meno di 35 anni e oltre il 15% ne ha meno di 25. Quest’ultimo è un dato particolarmente rilevante, se si tiene presente che, sull’intera popolazione residente in Italia, i suicidi in quella fascia di età superano appena il 6% del totale. Non va dimenticato, tuttavia, che la popolazione carceraria è, proporzionalmente, più "giovane": e questo attenua il significato, altrimenti dirompente, di quella comparazione tra suicidi "dentro" e suicidi "fuori". E ancora: sul complesso dei suicidi avvenuti in carcere negli ultimi due anni, una percentuale significativa (oltre il 16%) riguarda detenuti per reati legati alla tossicodipendenza; oltre il 22% riguarda detenuti per reati di ridotto o ridottissimo rilievo penale e sociale (ricettazione e concorso in ricettazione, rissa aggravata, danneggiamento, diserzione, maltrattamenti in famiglia, furto e furto aggravato, guida senza patente, evasione fiscale, inosservanza degli obblighi di pubblica sicurezza...); e meno della metà dei suicidi riguarda persone recluse per reati di particolare allarme sociale (omicidio, tentato omicidio, concorso in omicidio, rapina aggravata, tentata rapina, associazione mafiosa, estorsione continuata, stupro e violenza sessuale...).
Nell’analisi relativa al biennio in questione, non può essere ignorato un dato strettamente politico. il 2000 è stato l’anno del "Giubileo dei detenuti", proclamato dalla Chiesa cattolica. Per un verso (il più importante per i diretti interessati), l’anno del mancato Giubileo: mancato perché, nonostante le ripetute richieste di un "segno di clemenza" espresse da Giovanni Paolo II e dalla Conferenza episcopale italiana (e nonostante la disponibilità dichiarata di quasi tutte le forze politiche), quel "segno" non c’è stato. Opposizione e maggioranza hanno temuto di "pagare", in termini elettorali, le conseguenze dell’approvazione di una misura ritenuta impopolare: e hanno preferito addebitarsi vicendevolmente la responsabilità del rifiuto di un provvedimento di amnistia e/o indulto. E, dunque, le speranze alimentate dalle parole delle gerarchie ecclesiastiche e dal dibattito sviluppatosi in sede pubblico - politica, hanno creato un clima d’attesa: ma la mancata approvazione di un "segno di clemenza" ha mortificato quell’attesa. Fatale che l’aspettativa delusa si rivolgesse contro chi aveva investito in essa, traducendosi in una frustrazione ancora maggiore. E le speranze incentivate e disattese hanno innescato, inevitabilmente, un meccanismo autodistruttivo. La violenza latente non si è indirizzata contro terzi (le "rivolte estive" da alcuni temute e da molti strumentalmente evocate), ma si è ripiegata su se stessa; e si è scaricata sui soggetti che, invece che promotori e attori, ne sono stati vittime: i detenuti stessi. Anche per questo, forse, il picco dei suicidi, dei tentati suicidi e degli atti di autolesionismo si è registrato proprio nell’ultima parte di quell’anno: ovvero quando le speranze di "clemenza" si sono rivelate definitivamente vane. E così, ancora, nelle prime due settimane di gennaio dell’anno successivo (2001), altri 5 detenuti si sono tolti la vita. Dunque, se si ripartiscono per trimestri i due anni presi in esame, si rileva che il periodo ottobre - novembre - dicembre del 2000 è quello che registra il maggior numero di suicidi, sia in termini assoluti sia in termini percentuali (nonostante l’ulteriore crescita registrata nell’ anno successivo). Se tale ipotesi di interpretazione venisse confermata (incremento degli atti di autolesionismo e di suicidio come effetto di un investimento eccessivo e di un’aspettativa frustrata nei confronti di mancate decisioni politiche), si avrebbe un’importante occasione di riflessione sulle dinamiche del circuito sfera pubblica - sistema mediatico - ambiente chiuso. L’effetto - annuncio di una decisione politica e le conseguenze sul "senso comune" e sulla "psicologia collettiva" di una comunità non elettiva - non liberamente scelta e sottoposta a un regime coercitivo - possono essere assai rilevanti: e, come si è visto, non indolori.
Per tornare al quesito iniziale - ovvero perché ci si ammazza con tanta frequenza in carcere - va tenuta presente quella considerazione generale, prima anticipata: le cause dei suicidi sono tante quanti sono i suicidi. Può sembrare un’ovvietà, ma non se ne può prescindere: l’unicità e l’indecifrabilità delle motivazioni che determinano la decisione di togliersi la vita - tanto più all’interno di un universo chiuso come il carcere - non sono affrontabili con gli strumenti, inevitabilmente grossolani, di cui disponiamo. Ma questo non deve scoraggiarci dal ricercare e dall’indagare quelli che possiamo considerare i fattori predisponenti e i fattori precipitanti delle condotte suicidarie: così come non deve indurci a trascurare alcune costanti che emergono dai dati qui presentati. In particolare, risulta chiaro che i primi sei mesi di detenzione sono quelli "a maggior rischio". E lo sono, in particolar modo, per i detenuti più giovani incensurati o con una carriera criminale più recente) con imputazioni non particolarmente gravi: e con minore dimestichezza con i circuiti carcerari e gli stili di vita e le gerarchie lì dominanti. (Ma va ricordato che un terzo dei suicidi presenta una tipologia assai diversa per gravità dei reati; e un quinto dei suicidi si verifica nel periodo successivo ai primi tre anni di permanenza in carcere). Riprendiamo, ora, il ragionamento prima accennato. Se a determinare la rottura dell’equilibrio (e ad accelerare quella crisi che porta, infine, al suicidio), non è la "disperazione" - l’assenza di speranza per il futuro - bensì l’incapacità di vivere e organizzare il presente, tale situazione tende a realizzarsi più facilmente all’interno di un carcere. E non solo più facilmente qui che nella stanza di ospedale di un malato irreversibile: ma più facilmente qui e al momento dell’ingresso in cella, anche per coloro la cui prospettiva non è, necessariamente, "la più disperata". Nella stanza di ospedale del malato irreversibile, infatti, resiste quella "consolazione" rappresentata dalla vita di relazione: affetti, legami, sentimenti e possibilità di comunicazione. Tutto ciò, in carcere, in particolare all’atto dell’ingresso e nel corso della prima permanenza, sembra esaurirsi (e, nei fatti, accade davvero così). Inoltre, per il "nuovo giunto", il periodo che precede la costruzione di un altro sistema di rapporti (tutto "carcerario") è quello che vede i modi e i tempi della comunicazione con l’interno e con l’esterno interamente regolati dall’alto, spesso inconoscibili e, ancora più spesso, minacciosi. Un periodo durante il quale il nuovo arrivato - in particolare, se privo di precedenti esperienze detentive - si trova precipitato in un sistema di vita ignoto e autoritario, di cui non conosce regole e opportunità, gerarchie e linguaggio, garanzie e rischi. E fatale, pertanto, che si tratti della fase più difficile e, di necessità, più "a rischio". Ne consegue che un numero rilevante di detenuti - tra quelli particolarmente deboli, per una serie complessa di ragioni - trovatisi privi della possibilità di disporre della propria vita, ritengono di non poter fare altro che decidere della propria morte.
Ne derivano - ne dovrebbero derivare - conseguenze operative assai concrete, proprie di una amministrazione intelligente e razionale delle carceri. Ovvero un significativo investimento di energie e di tempo, di strumenti e di risorse, di personale e di competenze per l’attività di consulenza e di sostegno terapeutico ai "nuovi giunti" nel periodo iniziale della detenzione. La normativa già prevede, evidentemente, che in ogni istituto carcerario operi un "presidio - nuovi giunti", al fine di prestare assistenza (psicologica, in primo luogo) ai detenuti appena entrati. Ma, anche in questo caso, la realtà è molto diversa dalla lettera della legge. Non dovunque ci sono quei presidi e il numero di operatori e la disponibilità (prevista e retribuita) sono, in genere, assai insufficienti. Oltretutto, la più recente legge finanziaria è intervenuta su quella voce di spesa, riducendola ulteriormente. D’altra parte, il comportamento dei precedenti governi non è stato particolarmente più attento. A conferma del fatto che la "questione carceraria" resta per tutte le forze politiche (sia pure con significative differenze), e per l’intera società italiana, una sorta di buco nero: fattore di inquietudine e oscuro oggetto di rivalsa sociale; luogo dove proiettare le proprie paure e dove esiliare le proprie fobie; motivo di senso di colpa e, insieme, occasione di sospensione di quello stesso senso di colpa. Non a caso, la tendenza oggi prevalente è quella di spostare le carceri fuori dai centri storici e dalle città. Mai come in questo caso, l’atto del trasferimento corrisponde puntualmente a un desiderio di rimozione. E la rimozione va intesa, qui, in senso propriamente psicanalitico: la coscienza (individuale e collettiva) allontana da se un fattore di disturbo. Il carcere come meccanismo di difesa, quindi, non solo della propria sicurezza minacciata, ma anche - e soprattutto - del proprio equilibrio instabile a fronte di una pulsione (a trasgredire, deviare, delinquere) non agevolmente controllabile. Questa spiegazione può funzionare, e in parte funziona, ma non deve sottovalutare le profonde contraddizioni interne che quella rimozione incontra. Innanzitutto il fatto che la dimensione del carcere non risulta così lontana - non come una volta - dall’esperienza delle classi dirigenti e dei ceti sociali anche pienamente integrati (come conferma la storia italiana dell’ultimo decennio). Basti pensare agli effetti dell’attività giudiziaria contro la corruzione politico-amministrativa; e basti considerare come la legislazione sulle sostanze stupefacenti abbia messo in contatto con il vissuto dell’esclusione e della reclusione un numero crescente di famiglie. Non solo: resta il dato, pesante come un macigno, che oltre il 47% dei detenuti non ha ancora subito una condanna definitiva: e, dunque, la loro domanda di giustizia (ovvero l’iniquità della condizione di chi sconta in anticipo una pena non ancora inflitta) è difficile da ignorare. Questo rende schizofrenico (ancora una volta in senso proprio: dissociato) il discorso pubblico della classe politica: un’imponente mobilitazione ideologica e istituzionale sulla giustizia, che ignora la sofferenza e la pulsione di morte (suicidi, tentati suicidi e atti di autolesionismo, appunto) di quanti, della giustizia - come macchina del controllo e della pena -, fanno esperienza quotidiana.
Quelli qui pubblicati sono i risultati di una ricerca condotta da Luigi Manconi, con la collaborazione di Barbara Palleschi, Patrizio Gonnella e Paolo Lecca. Le tabelle sono state elaborate dall’autore su dati di: Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), Antigone Onlus. Per i diritti e le garanzie penali, Istat (Istituto Nazionale di Statistica), Agenzia Ansa, Consiglio d’Europa. Si ringraziano la professoressa Sara Bentivegna e il professor Antonio Mussino; e si ringraziano Ariella Martino e Franco Turetta.
Va tenuto presente che i dati qui illustrati possono essere sottostimati: abbiamo registrato, infatti, alcune discrepanze tra statistiche istituzionali e rilevazione empirica. Ciò è dovuto a più cause. La prima è di natura generale, collegata all’incerto funzionamento degli apparati amministrativi, in particolare per quanto riguarda il rapporto tra centro (Dipartimento) e periferia (singolo carcere), ma è altrettanto rilevante il ruolo giocato dalla "ritrosia" del personale di custodia e di quello medico a "riconoscere" i suicidi e a classificarli come tali. Fino a qualche anno fa non venivano registrati come suicidi in carcere i decessi avvenuti in ambulanza o in ospedale, anche quando immediatamente successivi e consequenziali al tentativo di togliersi la vita attuato in cella. Oggi non è più così e, tuttavia, i criteri di classificazione restano ancora approssimativi e controversi.
|