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Rassegna stampa sul dossier "Morire di carcere"
Quando la morte si incontra in cella
Rivista del Volontariato, gennaio 2004
Li chiamano "eventi critici", ma in realtà sono suicidi, morti per overdose, decessi dovuti alle precarie condizioni medico - sanitarie dei penitenziari. La redazione del giornale "Ristretti Orizzonti" è riuscita a ricostruire 111 casi
Cagliari, 21 gennaio 2003: Alessio, 25 anni, s'impicca in un gabinetto del carcere di Buoncammino servendosi di un asciugamano. Ci aveva provato già un mese prima e l'avevano salvato per un pelo. Tossicodipendente, carattere inquieto, Alessio stava scontando una condanna ad un anno e otto mesi per furto ed estorsione. Sarebbe uscito a marzo. Napoli, 22 marzo 2003: Luigi, 59 anni, sofferente di una grave forma di diabete, muore nel carcere di Poggioreale. I suoi avvocati esprimono sdegno per una morte annunciata. "Più volte", dicono, "erano state evidenziate al Magistrato di Sorveglianza le gravi condizioni di salute del detenuto". Luigi era in carcere perché accusato di avere aperto alcuni punti vendita di mozzarelle con l'aiuto patrimoniale di un presunto camorrista. Due storie tragiche, ma anche due storie come tante, cronaca quasi quotidiana in arrivo da quei gironi danteschi in cui si sono trasformati molti istituti penitenziari italiani. Soprattutto due storie ignorate, dimenticate, catalogate con burocratico distacco dal Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria (Dap) nella categoria degli "eventi critici". Parole asettiche dietro cui si celano suicidi, morti per overdose, decessi dovuti alle precarie condizioni medico - sanitarie dei penitenziari, esistenze che arrivano al capolinea in circostanze poco chiare.
Morire di carcere
Ci ha pensato la redazione di "Ristretti Orizzonti", bimestrale del carcere Due Palazzi di Padova, a rompere il silenzio con, un dossier intitolato "Morire di carcere";, presentato per la prima volta lo scorso settembre. Non che siano mancati sinora contributi alla sensibilizzazione da parte del mondo del volontariato carcerario o degli stessi detenuti, anzi il Rapporto utilizza anche inchieste delle associazioni del settore (Antigone, Nessuno tocchi Caino, Osservatorio Calamandrana, etc.). La specificità di questo lavoro consiste però nell'aver cercato di dare un nome e una storia a quelle che rischiano altrimenti di restare fredde statistiche. I ricercatori ci sono riusciti in 111 casi, circa la metà degli "eventi critici" conteggiati dal Dap. Negli altri casi non è stato possibile restituire un'identità alle vittime: non una riga sui giornali, non una testimonianza, al massimo gli scarni referti medici del penitenziario. Tra i casi ricostruiti dall'indagine, che copre il periodo gennaio 2002 - luglio 2003, si contano 71 suicidi, 18 decessi per "assistenza sanitaria disastrata", 17 morti per cause non chiare e 5 morti per overdose. A questi vanno aggiunti una ventina di tentativi falliti di suicidio e decine di casi di autolesionismo. Il dato sui suicidi è evidentemente il più impressionante: nelle carceri italiane i detenuti si tolgono la vita con una frequenza 19 volte maggiore rispetto alle persone libere. Una strage che ha spinto Adriano Sofri a definire - con amara ironia - il suicidio "la forma di evasione più diffusa". Ed è solo una magra consolazione osservare che a livello europeo vi sono nazioni messe peggio: se nel nostro Paese il tasso di suicidi è di 11.4 per 10 mila detenuti, Paesi come Francia, Inghilterra, Irlanda e Austria si collocano su valori decisamente più alti. Ma anche l'Italia è abbondantemente sopra la media europea, pari a 7.1. Un altro dato inquietante è quello dell'età di coloro che muoiono in carcere: nel 36% dei casi sono giovani compresi tra i 20 e i 30 anni, una fascia d'età che rappresenta "solo" il 26% del totale dei detenuti. Altissimo anche il dato dei tossicodipendenti, che rappresentano il 40% dei decessi e il 35% dei suicidi. Gli stranieri sono invece solo il 16%, nonostante la loro presenza nelle carceri italiane sfiori ormai il 30%. Ma è probabile che siano proprio loro a finire in quella zona d'ombra che copre metà degli "eventi critici": spesso privo di reti familiari o amicali, il detenuto straniero che muore in carcere ha buone probabilità di essere ignorato, così come gli era capitato in vita. È il caso di Kolica, albanese di 30 anni. Arrestato per detenzione e spaccio di cocaina trovata nell'abitazione in cui dormiva, il giovane si uccide dopo 35 giorni di sciopero della fame, impiccandosi nella sua cella dell'ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia: "In quella casa ero ospite solo per una notte, non ne sapevo nulla. Preferisco morire, piuttosto che restare qui dentro da innocente", ripeteva agli avvocati, che inutilmente hanno tentato di fargli ottenere almeno gli arresti domiciliari. Accanto al suo corpo, più magro di venti chili da quando era entrato in carcere, hanno trovato un biglietto: "Ero innocente". La sensazione di impotenza nel rivendicare la propria innocenza non è l'unica motivazione di un gesto estremo: altre cause sono la presenza di patologie gravi, l'attesa a volte lunghissima di un giudizio definitivo, le condizioni particolarmente fatiscenti di alcuni penitenziari. Ma più di tutto, ciò che influisce sullo stato d'animo del detenuto è la "perdita d'ogni speranza", la mancanza di prospettive. "Si tratta", scrivono i ricercatori, "di una ragione che spesso molti operatori, anche medici, sembrano non capire: cercano sempre la "giustificazione" dello squilibrio mentale e l'unica risposta che predispongono a tentativi di suicidio è l'isolamento nelle celle "lisce", cioè completamente vuote, oppure il ricovero in psichiatria, dove il paziente viene immobilizzato al letto e imbottito di sedativi". Sono comunque interventi a posteriori, mentre poco o nulla avviene sul fronte della prevenzione.
La dignità negata
La stessa carenza nelle politiche preventive si osserva nel caso delle morti dovute ad "assistenza sanitaria disastrata". Una definizione che può apparire troppo severa finché non si consultano i dati forniti nel dossier: i detenuti morti per "cause naturali" sono passati da 83 nel 1999, a 96 nel 2000, a 109 nel 2001, a 108 nel 2002 (la ricerca peraltro ha permesso di ricostruirne solo 28). Nello stesso periodo, la presenza di medici specialisti si è ridotta del 40% e in molti istituti mancano i soldi per l'acquisto dei farmaci "salvavita". È possibile intravedere prospettive di cambiamento? Tre le strade indicate dai curatori del Rapporto: tutela della dignità sociale delle persone incarcerate in attesa del processo, "qualità della pena", strumenti più efficaci per il reinserimento nella società al termine della condanna. Sono richieste minime, che da anni vengono dal mondo del carcere. Ad oggi però la situazione resta quella descritta dalla Procura di Milano in seguito all'ennesimo suicidio, nel luglio 2003. Il riferimento è al carcere di San Vittore (della cui direzione peraltro si riconoscono gli sforzi) ma probabilmente può essere esteso a gran parte del sistema penitenziario italiano: "Il problema", si legge, "è che la stessa struttura del carcere non rispetta l'incoercibile diritto d'ogni detenuto di essere custodito in un ambiente che rispetti la sua dignità, oltre che la sua salute e la sua sicurezza. Si tratta di condizioni di detenzione non degne di un Paese civile".
Morire di cella, aumentano i decessi per cause sospette
L’Espresso, 11 dicembre 2003
Duecentocinquanta mila euro in cambio di un rene. È pronta a tanto la signora Maria Cioffi per capire cosa sia veramente successo a suo figlio, Marcello Lonzi, l’11 luglio scorso, nel carcere di Livorno. "Morte per causa naturale", recita la versione ufficiale, ma la madre è convinta che Marcello sia stato vittima di un pestaggio. E che nessuno, a partire dalle guardie del penitenziario, abbia mosso un dito per soccorrerlo. La signora Maria è decisa ad andare fino in fondo, nonché a vendersi un rene per trovare i soldi della ricompensa a favore di chi fornirà informazioni. Dal canto suo, il sostituto procuratore Roberto Pennisi non ha escluso l’ipotesi dell’omicidio ma, per adesso, il caso Lonzi rimarrà catalogato tra i decessi non chiari. Ovvero tra le morti per cause sospette. Quelle che, nella stragrande maggioranza, rimangono senza risposte perché l’amministrazione penitenziaria non dispone di dati certi. Gli addetti ai lavori li chiamano "eventi critici", cioè i decessi, i suicidi, le morti per malattie e gli atti di autolesionismo di cui non è possibile stabilire la causa. Un numero in aumento. Basti pensare che, dal gennaio 2002 al settembre 2003, come sostiene un dossier della rivista carceraria "Ristretti orizzonti", negli istituti di pena sono morte 250 persone. Ebbene, di queste soltanto in 134 casi (108 cittadini italiani e 26 stranieri) è stato possibile stabilire la causa del decesso. Per quanto riguarda i casi accertati, 83 decessi sono stati causati da suicidi, 23 da un’inadeguata assistenza sanitaria, 9 da overdose e 19, nuovamente, vanno imputati "a cause non chiare". Nel complesso, dunque, ogni due detenuti che muoiono, uno non si sa per quale morivo. Un dato a dir poco preoccupante. Una tragedia dietro l’altra che si consuma spesso nell’indifferenza. Come il 25 ottobre scorso a Roma quando, a Rebibbia, una donna di 38 anni è stata trovata impiccata dentro la cella. Oppure il giorno dopo, a Milano, nel carcere di San Vittore, un detenuto di 20 anni è morto per inalazioni di gas da una bombola. Sembra che sia un gioco diffuso in carcere, alla stregua dello sballo in discoteca. Un embolo ha stroncato Maurizio Pintabona in pochi minuti e non si esclude che sia stato obbligato a inalare il gas. Solo pochi giorni fa, il 18 novembre, Mirko, un rumeno di 16 anni rinchiuso a Casal del Marmo a Roma, si è suicidato con i lacci delle scarpe. A togliersi la vita in carcere, spesso, sono proprio i più giovani, oltre ai tossicodipendenti cui manca poco tempo per tornare in libertà e ai condannati nei primi giorni di detenzione. Il numero maggiore di suicidi avviene al Sud e nelle Isole, soprattutto in Sardegna. Secondo i dati delle organizzazioni di volontariato, il rischio di suicidio per i detenuti è 19 volte superiore a quello di una persona libera. Dato questo che, se da un lato sembra scontato, dall’altro sottolinea il peggioramento delle condizioni di vita all’interno delle carceri italiane. Un pianeta che, secondo gli ultimi dati del ministero di Giustizia, conta su una popolazione di oltre 56 mila 403 detenuti, di cui 16 mila 636 stranieri e 15 mila 429 tossicodipendenti. In dieci anni la popolazione carceraria è raddoppiata. Le celle, il personale e gli stanziamenti invece no. L’indultino, approvato dal governo per sfollare le carceri, si è rivelato inefficace. Ne hanno beneficiato circa 3 mila reclusi, ma l’emergenza rimane oltre il livello di guardia. di Sergio Segio Fuoriluogo, 28.11.2003
Già
il titolo dice quel che c’è da dire: “Morire di carcere”. Il Dossier così
denominato, realizzato dalla redazione di Ristretti Orizzonti e dal “Centro di
documentazione Due Palazzi” di Padova, ha scelto di non mascherarsi dietro il
velo di parole prudenti e di equilibristici eufemismi. E neppure dietro
l’anonimità dei numeri. Numeri, peraltro, ormai difficili da reperire. Da circa 3 anni (paradossalmente da quando al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria fu istituito un gruppo di studio per monitorare il fenomeno dei suicidi in carcere) non vengono più diffuse le cifre relative ai cosiddetti “eventi critici” che accadono negli istituti carcerari. Vale a dire non solo suicidi, tentati o riusciti, ma anche decessi, atti di autolesionismo, ferimenti, omicidi, manifestazioni di protesta, scioperi della fame, eccetera. Insomma, quell’insieme di fatti che possono dare conto del grado di disagio di chi vive (e, appunto, muore) in carcere. Un disagio antico e in qualche modo intrinsecamente connesso all’istituzione totale ma anche decisamente crescente, in parallelo col degrado dovuto al sovraffollamento e con la rivincita delle teorie neo-retribuzioniste. Nel 2001, anno a cui risalgono gli ultimi dati ufficiali, i suicidi sono stati 70, mentre altre 109 morti sono state classificate come decessi “naturali”. Cifre ufficiose indicano, per il 2002, 53 suicidi e 113 decessi. Per il 2003 esiste solo un dato, avanzato dall’Osapp, uno dei sindacati autonomi della polizia penitenziaria, che parla di 39 suicidi nei primi otto mesi dell’anno. Il Dossier (integrale su www.ristretti.it) propone i frammenti delle storie di 111 detenuti morti, che si sono potute rintracciare nelle cronache giornalistiche dall’inizio del 2002 al luglio 2003. Morti così suddivise: 71 per suicidio, 18 per assistenza sanitaria disastrata, 17 per cause non chiare, 5 per overdose. Quasi altrettante, secondo la ricerca, sono le morti di cui non è stato possibile reperire sulla stampa alcuna informazione. Che la dicitura “morire di carcere” non sia particolarmente forzata lo si evince non solo dal numero dei suicidi ma anche da un altro dato che viene giustamente sottolineato: quello dei decessi per cause, per così dire, naturali e che in molti casi si rivelano essere state morti evitabili. Laddove si nota una inequivocabile curva di crescita: 83 nel 1999, 96 nel 2000, 109 nel 2001, 113 nel 2002. Curva che viene messa in relazione con il decreto legislativo 230 del 1999, in base al quale le competenze per l’assistenza sanitaria dei reclusi avrebbero dovuto progressivamente passare dal ministero della Giustizia a quello della Salute. n che non è avvenuto. In compenso, di anno in anno, sono stati operati drastici tagli alla sanità penitenziaria, con riduzioni dell’assistenza specialistica del 40% e talvolta con la mancanza dei farmaci “salvavita”. Molto di tragico ma nulla di strano, allora, se è parallelamente aumentato il numero delle vite detenute che non si sono salvate. Ad esempio, quella di Carmine Proietto, 57 anni, morto in carcere a Verona nel febbraio 2002. Arrestato un mese e mezzo prima, aveva già subito 3 infarti, motivo per cui aveva richiesto la concessione degli arresti domiciliari, rifiutati dal giudice. O quella di Fabio Benini, 30 anni, morto in cella a Torino: soffriva di anoressia, aveva perso 50 chili in pochi mesi, collassava due volte al giorno; sino alla mattina in cui l’hanno trovato morto nella sua branda. O quella di Sotaj Satoj, 40 anni, lasciato(si) morire a Lecce dopo tre mesi di sciopero della fame. Le quattro classificazioni delle morti (suicidio, assistenza sanitaria disastrata, cause non chiare, overdose) proposte dalla ricerca sulla base delle notizie di cronaca (spesso imprecise o poco circostanziate: solo il 10% dei 300 articoli esaminati viene giudicato costruito con sufficiente attenzione) hanno, in realtà, elementi possibili di sovrapposizione. Non sempre, ad esempio, è possibile distinguere se la morte conseguente all’inalazione di gas dalle bombolette, talvolta utilizzate per drogarsi, derivi da volontà suicidarie oppure da incidente o overdose. Ma, più preoccupantemente, tra le morti non chiare, vi sono casi in cui “le versioni ufficiali presentano zone d’ombra e incongruenze tali da far nascere il sospetto che mascherino episodi di maltrattamenti ad opera di agenti o di violenza da parte di altri detenuti”. Il Dossier cita alcuni casi di possibili omicidi mascherati. Tra cui quello di Luigi Acquaviva, morto nel carcere di Nuoro il 27 novembre 2000 e dapprima classificato come suicidio. La perizia necroscopica disposta dopo le proteste dei familiari accertò invece che, poche ore prima di morire, Acquaviva aveva subito un violento pestaggio. Nel novembre dell’anno scorso era fissato un processo contro 8 ispettori e agenti di polizia, accusati di omicidio colposo e lesioni. Dal Dossier non risulta, ma sarebbe utile sapere, se il processo si è tenuto e qual è stata la sentenza. E così per altri dei fatti riportati. Anche perché la sensazione è che le morti di carcere non vedano mai o quasi riconosciute le eventuali responsabilità. Tanto che al Dossier si potrebbe forse aggiungere un sottotitolo: “L’impunità come regola”. Com’è facile morire in prigione
L’Unità, 26 novembre 2003
Il rapporto: 250 morti in venti mesi, suicidi con una frequenza 19 volte maggiore rispetto alle persone libere
In venti mesi sono morte 250 persone nelle carceri italiane. Duecentocinquanta dal gennaio 2002 al settembre 2003. Dentro quelle mura dovevano soltanto espiare la pena, invece, al di là dei fili spinati, ci hanno lasciato la vita. Per 134 di loro è stato possibile stabilirne la causa, ma della restante metà non se ne sa nulla. Le informazioni su di loro, sono "desaparecide". Insabbiate. E non è tutto. In Italia i detenuti si tolgono la vita con una frequenza 19 volte maggiore rispetto alle persone libere. Il dato, impressionante, emerge dal dossier 2002 - 2003 "Morire di carcere", il primo rapporto nazionale sui decessi dietro le sbarre, pubblicato dalla rivista carceraria Ristretti Orizzonti e presentato ieri a Montecitorio. Il ministro della Giustizia, Roberto Castelli, intanto continua a promettere la costruzione di nuovi istituti di pena, pur sapendo bene che ne esistono almeno quattro disponibili, vuoti e in grado di rinchiudere numerosi detenuti ma che non vengono utilizzati. Ma andiamo con ordine. I detenuti si tolgono la vita spesso negli istituti dove le condizioni di vita sono peggiori e il numero maggiore di suicidi avviene al sud e nelle isole, soprattutto in Sardegna. Mentre le carceri del nord con più suicidi sono il Marassi di Genova e San Vittore a Milano, "notoriamente più degradati d’Italia" e l’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia. Ma il dossier, "Morire di carcere", presentato alla Camera alla presenza di parlamentari (Marco Boato, Enrico Buemi, e Ruggero Ruggeri), volontari (tra gli altri Sergio Segio) e detenuti, richiama l’attenzione non solo sui numeri. Ha, infatti, ricostruito 134 storie di carcerati morti nei penitenziari italiani tra il gennaio del 2002 e il settembre del 2003 per suicidio (83), inadeguata assistenza sanitaria (23), overdose (9) o per "cause non accertate" (19), togliendoli dall’anonimato delle statistiche sugli "eventi critici". Per altrettante persone morte in carcere nello stesso periodo "non è stato possibile sapere nulla, il che significa che ogni due detenuti che muoiono uno passa inosservato", ha spiegato la direttrice della rivista Ornella Favero, che non a caso ha invocato una maggiore vigilanza sul fenomeno dei decessi e sulle condizioni di vita nei penitenziari, a cominciare dall’assistenza sanitaria, sollecitando tutti i Comuni a istituire la figura del "garante dei detenuti". Un ruolo che potrebbe diventare efficiente se una legge ordinaria gli conferisse il potere di entrare negli istituti, per vigilare su eventuali violazioni di legge senza essere costretto a domandare l’autorizzazione al Ministero. E che potrebbe esercitare il "difensore civico" in qualità di osservatore permanente, se la proposta di legge che lo istituisce venisse approvata ma che, come dice Boato, incontra "forti resistenze". Tra i dati più significativi che emergono dall’indagine, c’è il quasi raddoppio delle morti per malattia in sei anni: erano 78 nel 1996, sono diventate 113 nel 2002. E quest’anno - a quanto è stato riferito - dovrebbe proseguire la tendenza all’aumento. Un fenomeno legato alla mancata attuazione della riforma che quattro anni fa aveva sancito il passaggio delle competenze sull’assistenza sanitaria, dal ministero della Giustizia a quello della Salute. E lo aveva fatto con una legge dello Stato che il Ministero di Giustizia continua a violare. Risultato: un taglio delle risorse economiche destinato alle cure per i detenuti, la riduzione del 40% dei medici specialisti e talvolta la mancanza di farmaci salva vita. Ad uccidersi sono più gli italiani degli stranieri (98 e 26 rispettivamente i casi di suicidio registrati nella ricerca), e soprattutto i giovani: un terzo dei suicidi aveva un’età compresa tra i 20 e i 30 anni e un altro terzo tra i 30 e i 40. La fetta più consistente è rappresentata dai tossicodipendenti; costituiscono il 38 per cento dei casi di suicidio, un fenomeno destinato probabilmente ad impennarsi, secondo l’ex sottosegretario alla Giustizia, Francesco Corleone, se diventerà legge il disegno di legge Fini sulla droga. Il ministro Castelli, intanto, torna sul progetto di costruire altre carceri. In programma, "23 nuovi istituti, per una spesa di oltre duemila miliardi di vecchie lire". Poi sventola dei numeri: "I detenuti in Italia sono oggi al di sotto dei 50 mila". Ciò che il ministro però non dice, replica Fabrizio Rossetti, responsabile nazionale Fp-Cgil, settore penitenziario è "perché carceri ristrutturate e pronte come la Casa circondariale di Lecco, quella di Pontremoli, l’istituto penitenziario di Laureana di Borrello e quello di Sant’Angelo dei Lombardi rimangono chiuse". Costruirne altre, per Patrizio Gonnella, responsabile di Antigone, poi non serve, "C’è stato, infatti, più volte suggerito dal Consiglio d’Europa e dal Parlamento europeo che il sovraffollamento si combatte con la depenalizzazione e con l’utilizzo maggiore di misure alternative: bisogna uscire dalla strettoia per cui l’unica forma di punizione è il carcere". Quanto al numero dei detenuti, dice la Cgil, è falso: al 31 ottobre erano 55.942. Difficile che in una ventina di giorni siano stati liberati più di seimila detenuti. Dietro le sbarre aumentano morti e suicidi
Dal 2002 ad oggi sono stati registrati 270 casi. Un dossier denuncia anche il deficit di assistenza sanitaria e il degrado delle strutture penitenziarie
Avvenire, 26 novembre 2003
In carcere si muore più spesso se si è costretti in penitenziari fatiscenti: 270 decessi dal 2002, 83 per suicidio. E si muore anche perché l’assistenza sanitaria in qualche caso non è stata all’altezza. Gironi infernali nei quali la maggior parte dei suicidi avviene poco dopo l’arresto o in seguito alla conferma della condanna. Dal 2002 ad oggi la rivista "Ristretti Orizzonti" della Casa di Reclusione di Padova e dell’Istituto di pena femminile della Giudecca, ha ricostruito la storia di 134 detenuti morti nel chiuso di una cella o sulla lettiga di una infermeria. Per tutti gli altri invece "non è stato possibile sapere nulla, il che significa che ogni due detenuti che muoiono uno passa inosservato", ha denunciato la direttrice della rivista Ornella Favero, presentando ieri a Roma il dossier "Morire di carcere" . L’incontro di Montecitorio è stata anche l’occasione per fare il punto sull’indultino. "Sono tremila i detenuti che ne hanno beneficiato, il dieci per cento dei condannati con sentenza definitiva". Lo ha detto Enrico Buemi (Sdi) replicando al presidente della Conferenza nazionale di volontariato sulla giustizia Livio Ferrari, che aveva sostenuto l’inefficacia del provvedimento. Questo mentre a Milano veniva arrestato il primo dei detenuti che aveva beneficiato della scarcerazione anticipata: aveva violato l’obbligo di dimora nel capoluogo lombardo. Tra le carceri del Nord, quelle più a rischio sono il Marassi a Genova, San Vittore a Milano e l’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia. Quanto ai suicidi nei penitenziari italiani i detenuti si tolgono la vita con una frequenza 19 volte maggiore rispetto ai liberi cittadini. La gran parte dei suicidi avviene al sud e nelle isole, specie in Sardegna. Davanti ad alcuni parlamentari, volontari carcerari (tra cui l’ex terrorista Sergio Segio) e di un gruppo di detenuti, la redazione di "Ristretti" ha presentato la ricostruzione delle 134 morti "classificabili": 83 per suicidio, 23 in seguito a malattie, 9 overdose e 19 per "cause non accertate". La maggioranza dei 134 casi riguarda italiani (108), gli stranieri venuti a mancare sono invece 26. E certo allarma vedere raddoppiati dal 1996 al 2002 il numero di carcerati deceduti per malattia, quando fuori dalle Case di Reclusione la tendenza è esattamente contraria: erano 78 i detenuti morti per malattia nel 1996, sono diventati 113 nel 2002. Tutta colpa "della mancata attuazione" della riforma, che quattro anni fa - spiega il dossier - aveva sancito il passaggio delle competenze sull’assistenza sanitaria dal ministero della Giustizia a quello della Sanità. "Quello che si è realmente verificato è stato il taglio delle risorse economiche destinato alle cure per i detenuti"; con il poco onorevole risultato che "la presenza dei medici specialisti nelle carceri si è ridotta del 40 per cento" e che a "volte mancano i soldi anche per l’acquisto dei farmaci salvavita". Un dossier: i suicidi in carcere sono 19 volte più frequenti che fuori
Il Manifesto, 26 novembre 2003
In carcere si muore di malattia, di overdose, di incuria, d’abbandono e soprattutto di suicidio, L’incidenza dei suicidi tra i detenuti supera di 19 volte quella tra i liberi. È una delle cifre del dossier "Morire di carcere", realizzato dalla rivista "Ristretti Orizzonti", fatta da detenuti e volontari del carcere di Padova. Il dossier, usando come fonti la stampa nazionale e locale, ha ricostruito 134 storie di carcerati morti nei penitenziari dal gennaio 2002 allo scorso settembre. 83 si sono tolti la vita, 23 sono morti per malattia, 9 per overdose, 19 per "cause non accertate". Di altrettanti carcerati morti nello stesso arco di tempo non è stato possibile sapere nulla: "Significa che ogni due detenuti che muoiono uno passa inosservato", afferma la direttrice della rivista Ornella Favero. Una ragione in più per istituire la figura del "garante dei detenuti" che vigili sulle condizioni di vita in carcere, a cominciare dall’assistenza sanitaria. Negli ultimi sei anni è quasi raddoppiato il numero dei detenuti morti per malattia. Erano stati 78 nel 1996, sono stati 113 nel 2002. Quattro anni fa la competenza della sanità carceraria è passata dal ministero della giustizia a quello della sanità. Ottima cosa in linea di principio. Peccato che la "riforma" sia stata accompagnata da un drastico taglio delle risorse: "La presenza dei medici specialisti in carcere si è ridotta del 40% e a volte mancano i soldi per l’acquisto dei farmaci salvavita". Venti dei suicidi censiti dal dossier sono avvenuti in penitenziari sardi. Al Nord l’incidenza più alta di suicidi si registra nel carcere di Marassi (Genova) e a San Vittore (Milano), "notoriamente tra i più degradati d’Italia. Nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia ci sono stati cinque suicidi in pochi mesi. A togliersi la vita in carcere sono più gli italiani (108) che gli stranieri (26), più i giovani dei vecchi (un terzo aveva tra i 20 e 30 anni, un altro terzo tra i 30 e 40 anni). I tossicodipendenti - circa il 30% della popolazione carceraria - costituiscono la fetta più grossa (il 38%) dei suicidi analizzati dal dossier. I giorni immediatamente successivi all’ingresso in carcere sono quelli a più alto rischio. Ma non sono infrequenti i suicidi tra i detenuti "definitivi" a pochi mesi dal fine pena. I tre parlamentari che hanno partecipato alla presentazione del dossier (Marco Boato del Gruppo misto, Enrico Buemi dello Sdi e Ruggero Ruggeri della Margherita) condividono le richieste di detenuti e volontari. È però hanno fatto capire che "non c’è clima" in Parlamento per approvare speditamente la legge che istituisce l’ufficio del garante nazionale per i detenuti e quella "sull’affettività", in carcere. Per far uscire dal cono d’ombra il pianeta carcere la strada più praticabile al momento è quella di premere sui Comuni perché nominino il difensore civico dei detenuti. A Roma l’incarico è stato affidato a Luigi Manconi. Detenuti suicidi, statistiche choc Frequenza 19 volte maggiore in cella
Il Mattino di Padova, 26 novembre 2003
Nelle carceri italiane i detenuti si tolgono la vita con una frequenza 19 volte maggiore rispetto alle persone libere. E spesso lo fanno negli istituti dove le condizioni di vita sono peggiori. È il dossier "Morire di carcere", realizzato dai detenuti e dai volontari della redazione della rivista "Ristretti orizzonti", a richiamare l’attenzione sul fenomeno. In cella 134 decessi: 83 suicidi e 9 morti per overdose
Gazzettino PD, 26 novembre 2003
Nelle carceri i detenuti si tolgono la vita con una frequenza 19 volte maggiore rispetto alle persone libere. E spesso lo fanno negli istituti dove le condizioni di vita sono peggiori. Il numero maggiore di suicidi avviene al sud e nelle isole, soprattutto in Sardegna, e un fetta consistente accade nei giorni immediatamente successivi all’ingresso in carcere o quando la condanna è diventata definitiva. Sono i dati allarmanti contenuti nel dossier "Morire di carcere" realizzato dai detenuti e dai volontari della redazione della rivista "Ristretti orizzonti" e presentati ieri nel giorno in cui un gruppo di detenuti del carcere milanese di San Vittore sono diventati operatori di un "call center" della Telecom Italia, svolgendo un’attività che possa permettere un migliore reinserimento al termine della detenzione. Il dossier di "Morire in carcere" ha ricostruito 134 storie di detenuti morti nei penitenziari italiani tra il gennaio del 2002 e il settembre del 2003 per suicidio (83), malattia (23), overdose (9) o per "cause non accertate" (19), togliendoli dall’anonimato delle statistiche sugli "eventi critici". Tra i dati più significativi che emergono dall’indagine, c’è il quasi raddoppio delle morti per malattia in sei anni: erano 78 nel 1996, sono diventate 113 nel 2002. E quest’anno, a quanto è stato riferito, dovrebbe proseguire la tendenza all’aumento. Un fenomeno che, è stato denunciato, è legato alla mancata attuazione della riforma che quattro anni fa aveva sancito il passaggio delle competenze sull’assistenza sanitaria dal ministero della Giustizia a quello della Sanità. Per quanto riguarda invece i suicidi, venti dei casi ricostruiti dalla ricerca sono avvenuti in penitenziari sardi. Tra le carceri del Nord, gli istituti che hanno avuto più detenuti che si sono tolti la vita sono il Marassi a Genova e San Vittore a Milano, "notoriamente tra i più degradati d’Italia", e l’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia, con cinque casi di suicidi nell’arco di pochi mesi. Ad uccidersi sono più gli italiani degli stranieri (108 e 26 rispettivamente i casi di suicidio registrati nella ricerca), e soprattutto i giovani: un terzo dei suicidi aveva un’età compresa tra i 20 e i 30 anni e un altro terzo tra i 30 e i 40. La fetta più consistente è rappresentata dai tossicodipendenti: costituiscono il 38% dei casi di suicidio ricostruiti dalla ricerca, a fronte di una presenza, sul totale dei detenuti del 30% e si uccidono con più frequenza da "definitivi". Una risposta seppure parziale al disagio oltre le sbarre, la vuole dare l’iniziativa del "call center". "Buongiorno Info 12, sono Mario, come posso aiutarla?". La prima linea libera Telecom Italia risponde e l’operatore potrebbe avere la sua postazione all’interno dell’istituto di pena San Vittore. Il ministro della Giustizia Roberto Castelli e il presidente di Telecom Italia, Marco Tronchetti Provera hanno presentato, al fianco del direttore dell’istituto, Luigi Pagano il progetto di telelavoro, prima esperienza in Europa, che intende dare ai detenuti l’opportunità di svolgere un vero lavoro all’interno degli istituti di pena, permettendo loro di impegnare il tempo in modo positivo e contemporaneamente, acquisire una professionalità in vista del reinserimento della società. Trenta persone (4 supervisori e 26 operatori), dopo aver seguito un percorso di formazione sulle modalità di comunicazione con il cliente, interrogazione del database e un training pratico, risponderanno da 20 postazioni allestite nel terzo raggio di San Vittore, in base a turni concordati tra Telecom Italia e la Cooperativa Out & Sider, che gestisce il lavoro dei detenuti. Dietro le sbarre record di suicidi e morti misteriose La denuncia di detenuti e volontari: in 21 mesi 250 vittime In 83 casi è stata accertata la volontà di togliersi la vita
Il Messaggero, 26 novembre 2003
Di carcere si muore. Sono ancora troppi i detenuti che si tolgono la vita, con una frequenza 19 volte maggiore rispetto alle persone libere. Accade soprattutto negli istituti dove le condizioni di vita sono peggiori: il numero maggiore di suicidi si registra al Sud e nelle isole, soprattutto in Sardegna. Il momento più a rischio è nei giorni immediatamente successivi all’ingresso in carcere o quando la condanna diventa definitiva. Dal gennaio 2002 al settembre 2003 nelle carceri italiane sono morte 250 persone e più di due terzi ha un’età compresa tra i 20 e i 40 anni. La drammatica denuncia è contenuta in un dossier, realizzato dai detenuti e dai volontari della redazione della rivista "Ristretti orizzonti", presentata dai parlamentari Marco Boato, Enrico Buemi, Ruggero Ruggeri e da Sergio Segio. È la prima ricerca sul tema, dentro ci sono 134 storie di carcerati morti nei penitenziari italiani negli ultimi due anni. Non si muore soltanto di suicidio (83), ma anche di malattia (23), overdose (9) o per "cause non accertate" (19). Nei restanti casi la morte non ha cause evidenti: per ogni detenuto che muore per un motivo accertato, un altro decesso passa inosservato. La direttrice della rivista, Ornella Favero, ha invocato una maggiore vigilanza sul fenomeno dei decessi e sulle condizioni di vita nei penitenziari, a cominciare dall’assistenza sanitaria, e ha sollecitando i comuni a istituire la figura del "garante dei detenuti". Il numero di persone morte per malattia è praticamente raddoppiato in sei anni, passando da 78 a 113. Un dato in crescita progressiva, forse legato alla mancata attuazione della riforma che quattro anni fa aveva sancito il passaggio delle competenze sull’assistenza sanitaria dal ministero della Giustizia a quello della Sanità. Invece c’è stato il taglio delle risorse economiche destinate alle cure per i detenuti, la presenza dei medici specialisti si è ridotta del 40 per cento e a "volte mancano i soldi anche per l’acquisto dei farmaci salvavita", scrivono i relatori nel dossier. Tra le carceri del Nord, gli istituti che hanno avuto più detenuti che si sono tolti la vita sono il Marassi a Genova e il San Vittore a Milano, tra i più degradati d’Italia, e l’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia, con cinque casi di suicidio nell’arco di pochi mesi. Ad uccidersi sono più gli italiani degli stranieri (108 e 26 rispettivamente i casi di suicidio registrati nella ricerca). Ma soprattutto i giovani: un terzo dei suicidi aveva un’età compresa tra i 20 e i 30 anni e un altro terzo tra i 30 e i 40. La fetta più consistente è rappresentata dai tossicodipendenti, che costituiscono il 38 per cento dei casi di suicidio. Un fenomeno, secondo l’ex sottosegretario alla Giustizia Francesco Corleone, destinato ad aumentare se diventerà legge il ddl Fini sulla droga. "Occorre un monitoraggio costante delle morti in carcere, e dei fenomeni di autolesionismo, attraverso l’istituzione di un osservatorio permanente oltre alla rapida approvazione della legge che istituisce il difensore civico dei detenuti", sostiene Boato secondo il quale il provvedimento incontra "forti resistenze". In due anni 83 suicidi in carcere I dati in un dossier presentato a Roma
Italia Oggi, 26 novembre 2003
Oltre 80 suicidi nelle carceri italiane in due anni. Ben 19 volte in più di quanto accade all’aria aperta, e il 63% del totale di tutti i decessi avvenuti dietro le sbarre nell’ultimo biennio. Più della metà di coloro che si sono tolti la vita prima di tornare in libertà ha un’età compresa tra i 21 e i 30 anni. Mentre grazie all’indultino almeno 3 mila detenuti sarebbero già in libertà. Un preoccupante bollettino quello che proviene dalle carceri italiane analizzate dal dossier "Morire in carcere", realizzato dai detenuti e dai volontari della redazione della rivista "Ristretti Orizzonti" e presentato ieri alla camera dei deputati da Marco Boato, costituzionalista dei Verdi alla presenza di esponenti politici (come Enrico Buemi componente della commissione giustizia della camera e padre dell’indultino), del mondo del volontariato e delle onlus che lottano in difesa delle garanzie (Antigone). L’indagine racconta, in gran parte, storie di giovani che non hanno retto l’impatto con il duro ambiente penitenziario e alle sbarre hanno preferito la morte. Un fenomeno già conosciuto da tempo e che non accenna a diminuire visto che, come hanno sottolineato anche i relatori (tra i quali l’ex sottosegretario alla giustizia Franco Corleone), non vengono presi rimedi efficaci. Il primo imputato d’eccellenza è la sanità penitenziaria: in bilico tra Ministero della Giustizia e della Sanità (che non hanno ancora deciso come ripartirsi le competenze) e perennemente a corto di fondi e personale. Per non parlare delle strutture carcerarie. La ricerca dimostra che il numero maggiore di suicidi avviene al Sud e nelle isole, soprattutto in Sardegna dove la qualità dell’edilizia penitenziaria è molto al di sotto dei minimi tollerabili (come denunciato più volte anche dal Comitato Ue di prevenzione della tortura). Inoltre, una fetta consistente dei suicidi o anche delle autolesioni accade nei giorni immediatamente successivi all’ingresso in carcere o quando là condanna è divenuta definitiva. Per cercare di arginare questa ecatombe, per Boato sarebbe indispensabile innanzitutto approvare il ddl sull’istituzione di un difensore civico per le carceri che pende in commissione affari costituzionali della camera. "Nonostante siano state fatte numerose audizioni incontriamo non poche difficoltà ad approvare la legge che rappresenterebbe un passo importante per la tutela dei diritti dei detenuti", spiega il deputato Verde. Mentre Buemi rilancia il ruolo del Comitato per le carceri, costituito un anno fa presso la commissione giustizia di Montecitorio, ma finora non operativo. E a proposito del tanto contestato indultino ricorda che "in soli tre mesi è uscito dal carcere il 10% di coloro che hanno una condanna definitiva". Dossier sulle disastrose condizioni del nostro sistema penitenziario
Liberazione, 26 novembre 2003
"Eventi critici", questa la categoria di appartenenza all’interno delle statistiche ufficiali. Numeri su una tabella ufficiale e qualche titoletto dai toni scontati e ammuffiti sui giornali, quando va bene. Dei tanti detenuti morti nelle carceri italiane non si sa molto di più, spesso non si sa nemmeno questo. Ecco perché il dossier "Morire di carcere", curato dalla redazione di "Ristretti Orizzonti" (periodico di informazione e cultura dal carcere Due Palazzi di Padova), è un importante strumento per far conoscere e per riproporre problemi gravi legati al mondo penitenziario. L’obiettivo è quello di restituire un volto, un’identità alle vittime del nostro sistema carcerario, raccontare storie che parlano di morti per suicidio, per overdose, per "cause non accertate". Sono oltre 130 i detenuti che si è riusciti a strappare all’anonimato delle statistiche, tutti morti dal gennaio 2002 all’ottobre 2003, ma per altrettanti non c’è stato modo di sapere nulla, nonostante la ricerca fosse basata su una rassegna stampa nazionale e locale. La conclusione degli autori del dossier è che ogni due detenuti che muoiono, uno passa, per così dire, "inosservato", segno di un’informazione giornalistica superficiale e di un’analisi socio - politica del fenomeno che fa ben pochi progressi. "Bisogna essere più vigili su questo problema - ha spiegato Ornella Favero, responsabile di "Ristretti Orizzonti" - ed affrontare certi nodi irrisolti, primo fra tutti lo stato di abbandono in cui si trova la sanità penitenziaria". Oltre 100 detenuti l’anno muoiono per "cause naturali", a volte in seguito ad un infarto, ma spesso sono fatali le complicazioni di un malanno trascurato o curato male, il lento deperimento dovuto a malattie croniche o a scioperi della fame. Un’assistenza sanitaria disastrata quindi, che calpesta il diritto alla salute dei detenuti, "tanto più importante per chi è costretto alla vita in cella 20 ore su 24", come ha ricordato Franco Corleone, garante per la tutela dei diritti dei detenuti di Firenze. Una possibile soluzione al problema potrebbe essere quella di stipulare convenzioni con l’amministrazione penitenziaria, per consentire l’accesso negli istituti di pena a operatori sanitari volontari (medici e infermieri), che affianchino il personale medico in servizio. Un intervento particolarmente necessario per i progetti di prevenzione, oggi praticamente inesistenti, di assistenza ai malati cronici, di riabilitazione da malattie legate alla dipendenza da droghe, alcol e farmaci. Senza dimenticare l’esigenza di preservare la salute psichica dei detenuti, spesso vittime di crisi depressive ed altri disturbi mentali. Anche perché, quando le condizioni di detenzioni raggiungono livelli insostenibili, in molti ricorrono a quella "forma di evasione più diffusa e subdola, perché si maschera in modo da essere ignorata nelle statistiche criminali, che è il suicidio", come ha scritto pochi anni fa Adriano Sofri. E i dati sono allarmanti (53 casi solo dall’inizio del 2003), basti pensare che "il tasso di suicidio in carcere è venti volte superiore alla media e il primo periodo di detenzione è il più delicato" ha spiegato Ruggeri (Margherita). Tra le proposte avanzate spicca quella della creazione di un osservatorio permanente sulle morti e le problematiche sanitarie in carcere, anche avvalendosi delle informazioni raccolte dalle associazioni di volontariato e dai giornali carcerari. Buemi (Sdi) ha sottolineato la decisione congiunta delle Commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera per un’inchiesta conoscitiva sullo stato della sanità in carcere, aggiungendo che "è necessario portare avanti un progetto sulla qualità ambientale dei penitenziari e sulla creazione di rinnovati spazi di lavoro, fondamentali per la salute psichica dei detenuti". D’accordo anche Russo Spena (Prc) che ha definito il carcere "una struttura di segregazione assoluta, a causa di una politica del governo che ha fatto precipitare la situazione sia sul piano normativo, con l’indultino, sia sul piano dell’assistenza sanitaria e del lavoro". A fine conferenza è invece un po’ caduta nel vuoto la domanda di Vittorio Antonini, dell’associazione "Papillon" di Rebibbia, che chiedeva "le intenzioni del la Commissione Giustizia sull’organizzazione di una conferenza nazionale di verifica sugli ostacoli che incontra la legge Gozzini", questione sulla quale i partiti dell’opposizione non sembrano troppo uniti. Carceri: detenuti suicidi 19 volte di più rispetto ai liberi Presentato dossier su morti dietro le sbarre
Ansa - Roma, 25 novembre 2003
Nelle carceri italiane i detenuti si tolgono la vita con una frequenza 19 volte maggiore rispetto alle persone libere. E spesso lo fanno negli istituti dove le condizioni di vita sono peggiori. Il numero maggiore di suicidi avviene al sud e nelle isole, soprattutto in Sardegna, e una fetta consistente accade nei giorni immediatamente successivi all’ingresso in carcere o quando la condanna è diventata definitiva. È il dossier "Morire di carcere" realizzato dai detenuti e dai volontari della redazione della rivista "Ristretti orizzonti" a richiamare l’attenzione sul fenomeno, e non solo sui numeri. Presentata oggi a Roma alla presenza di parlamentari (Marco Boato, Enrico Buemi, e Ruggero Ruggeri), volontari (tra gli altri Sergio Segio) e detenuti, la ricerca ha infatti ricostruito 134 storie di carcerati morti nei penitenziari italiani tra il gennaio del 2002 e il settembre del 2003 per suicidio (83), malattia (23), overdose (9) o per "cause non accertate" (19), togliendoli dall’anonimato delle statistiche sugli "eventi critici". Per altrettante persone morte in carcere nello stesso periodo "non è stato possibile sapere nulla, il che significa che ogni due detenuti che muoiono uno passa inosservato", ha spiegato la direttrice della rivista Ornella Favero, che non a caso ha invocato una maggiore vigilanza sul fenomeno dei decessi e sulle condizioni di vita nei penitenziari, a cominciare dall’assistenza sanitaria, sollecitando tutti i Comuni a istituire la figura del "garante dei detenuti". Tra i dati più significativi che emergono dall’indagine, c’è il quasi raddoppio delle morti per malattia in sei anni: erano 78 nel 1996, sono diventate 113 nel 2002. E quest’anno - a quanto è stato riferito - dovrebbe proseguire la tendenza all’aumento. Un fenomeno che, è stato denunciato, è legato alla mancata attuazione della riforma che quattro anni fa aveva sancito il passaggio delle competenze sull’assistenza sanitaria dal ministero della Giustizia a quello della Sanità": "quello che si è realmente verificato è stato il taglio delle risorse economiche destinato alle cure per i detenuti"; e il risultato è che "la presenza dei medici specialisti si è ridotta del 40 per cento" e che a "volte mancano i soldi anche per l’acquisto dei farmaci salvavita". Per quanto riguarda invece i suicidi, venti dei casi ricostruiti dalla ricerca sono avvenuti in penitenziari sardi. Tra le carceri del Nord, gli istituti che hanno avuto più detenuti che si sono tolti la vita sono il Marassi a Genova e San Vittore a Milano, "notoriamente tra i più degradati d’Italia", e l’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia, con cinque casi di suicidi nell’arco di pochi mesi. Ad uccidersi sono più gli italiani degli stranieri (108 e 26 rispettivamente i casi di suicidio registrati nella ricerca), e soprattutto i giovani: un terzo dei suicidi aveva un’età compresa tra i 20 e i 30 anni e un altro terzo tra i 30 e i 40. La fetta più consistente è rappresentata dai tossicodipendenti: costituiscono il 38 per cento dei casi di suicidio ricostruiti dalla ricerca, a fronte di una presenza, sul totale dei detenuti del 30 per cento e si uccidono con più frequenza da "definitivi"; un segnale probabilmente indicativo di particolari angosce legate al ritorno alla libertà. Un fenomeno destinato probabilmente ad impennarsi, secondo l’ex sottosegretario alla Giustizia Francesco Corleone, se diventerà legge il ddl Fini sulla droga. L’ingresso in carcere e i giorni immediatamente seguenti sono un altro momento in cui il rischio suicidio appare elevato, non solo per i tossicodipendenti: i detenuti per omicidio rappresentano ben il 14 per cento dei casi di suicidio esaminati, molti avvenuti nei primi giorni di detenzione. Anche in questo caso la spinta è probabilmente rappresentata dalla "mancanza totale di prospettive". Tra gli interventi auspicati nel corso della conferenza stampa un monitoraggio costante delle morti in carcere e dei fenomeni di autolesionismo attraverso l’istituzione di un osservatorio permanente e la rapida approvazione della legge che istituisce il difensore civico dei detenuti; un provvedimento che, ha fatto notare Boato, incontra "forti resistenze". Giustizia: dossier 2002 - 2003, 250 detenuti morti in carcere A Montecitorio il primo dossier nazionale, di metà non si sa perché
Adnkronos - Roma, 25 novembre 2003
Dal gennaio 2002 al settembre 2003 nelle carceri italiane sono morte 250 persone: per 134 di loro (108 italiane e 26 straniere) è stato possibile stabilirne la causa, della restante metà invece non se ne sa nulla. Il dato impressionante emerge dal dossier 2002 - 2003 "Morire di carcere", il primo rapporto nazionale sui decessi dietro le sbarre, pubblicato dalla rivista carceraria "Ristretti orizzonti" e presentato oggi a Montecitorio. I suicidi accertati sono stati 83 (43 nel 2002 e 40 nel 2003 fino al 30 settembre), 23 i decessi causati da inadeguata assistenza sanitaria, 19 le morti per "cause non chiare", 9 le morti per overdose. Quanto alle fasce di età dei detenuti defunti, 48 avevano fra i 21 e i 30 anni, 38 fra i 31 e i 40 anni, 17 fra i 41 e i 50 anni, 5 fra i 61 e i 70 anni, 3 meno di 20 anni. 42 persone morte erano tossicodipendenti, 17 accusate e/o condannate per omicidio, 9 accusate e/o condannate per omicidio. A 25 di loro mancava da espiare meno di un anno di condanna e poi sarebbero state rimesse in libertà.
La legge sul garante dei detenuti in vigore entro la legislatura
A presentare alla stampa i risultati della prima ricerca su dati Dap nella storia repubblicana sulle morti in carcere ("è purtroppo significativo - dice l’ex sottosegretario alla Giustizia Franco Corleone - che ancora una volta questo lavoro venga fatto da associazioni private di volontari e di detenuti e non da istituzioni pubbliche..."), sono i parlamentari Marco Boato ed Enrico Buemi insieme a Sergio Segio, alla direttrice della rivista "Ristretti Orizzonti" Ornella Favero e ad un gruppo di detenuti in licenza, fra i quali Francesco Morelli. "La nostra indagine nelle diverse carceri italiane - sottolinea Favero - ha confermato come molto spesso i morti in carcere sono "morti di carcere": suicidi, malasanità, depressioni. E purtroppo questo vale anche dopo il carcere quando il reinserimento diventa impossibile". Fra le richieste degli operatori carcerari al Parlamento, un impegno al di là degli schieramenti e dei colori politici al varo entro la fine della legislatura di alcune leggi sul carcere, a partire dalla istituzione della figura del Garante dei diritti dei detenuti.
Redattore sociale, agenzia di stampa del Terzo settore, 22 settembre 2003
Suicidi, morti per malattia o per "cause non accertate", atti di autolesionismo: il dossier "Morire in carcere" di Ristretti Orizzonti indaga sugli "eventi critici" nelle carceri italiane e sull’informazione giornalistica. Più a rischio le carceri degradate, con poche attività e volontari: il numero maggiore di suicidi al sud e nelle isole, al nord sono concentrati in istituti come la Casa Circondariale di Marassi (Ge) e quella di San Vittore (Mi), oltre che nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Reggio Emilia. I tossicodipendenti rappresentano il 35% dei casi di suicidio. Dossier "Morire di carcere": nell’informazione giornalistica prevale "la contabilità". Tre anni di rassegna stampa sul carcere per raccogliere notizie e commenti sui cosiddetti "eventi critici". Dossier "Morire di carcere": ridurre il rischio che un detenuto si uccida garantendo la "qualità della pena" Cos’è possibile fare per ridurre al minimo il rischio che un detenuto si uccida? Dossier "Morire in carcere": si muore di più nelle carceri degradate, con poche attività e volontari. I tossicodipendenti sono il 35% dei casi di suicidio. Li chiamano "eventi critici": i suicidi, le morti per malattia, gli atti di autolesionismo. Le morti dimenticate in carcere
Leggo, giornale gratuito di Venezia, 22 settembre 2003
"Per ogni due detenuti che muoiono, uno passa inosservato". È il dato che, insieme allo stato di abbandono della sanità penitenziaria, emerge dal dossier "Morire di carcere", presentato ieri a San Servolo. Il dossier ricostruisce le storie di 111 detenuti, morti nelle carceri italiane tra il gennaio 2002 e il luglio 2003; per altrettanti detenuti morti nello stesso periodo, la redazione di "Ristretti Orizzonti" non è riuscita ad ottenere nessuna notizia. In carcere assistenza sanitaria disastrata La denuncia dei detenuti del Due Palazzi
City, giornale gratuito di Padova, 22 settembre 2003
Le storie dei detenuti morti nelle carceri italiane tra il gennaio 2002 e il luglio 2003 sono state raccolte in un dossier realizzato dai detenuti della Casa di Reclusione di Padova. Nel dossier Morire di Carcere siamo riusciti a dare un’identità a 111 detenuti - spiega Francesco Morelli, dell’associazione "Ristretti Orizzonti" - togliendoli dall’anonimato delle statistiche". "Le morti in carcere avvengono spesso per un’assistenza sanitaria disastrata", dichiara Francesco, uno dei detenuti che ha curato il dossier. Secondo la ricerca, oltre 100 detenuti l’anno muoiono nelle carceri italiane per "cause naturali". A volte la causa della morte è l’infarto, evento difficilmente prevedibile. Altre volte sono le complicazioni di un malanno trascurato o curato male. Altre volte ancora la morte arriva al termine di un lungo deperimento, dovuto a malattie croniche o a scioperi della fame. Recente è stato il caso di Riccardo Tonicello, 56 anni, detenuto al Due Palazzi, morto all’ospedale lo scorso febbraio. "Soffriva di grave insufficienza epatica - commenta Francesco - un improvviso aggravamento delle sue condizioni ha spinto i medici del carcere a chiederne il ricovero urgente, ma troppo tardi, è morto dopo poche ore". Morire in carcere: dossier 2002 – 2003
Vita non profit magazine, 22 settembre 2003
Il documento racconta la storia di 111 detenuti molti per suicidio, malattia, overdose o "cause non accertate". La cooperativa "Il Cerchio" di Venezia ha presentato il dossier 2002 - 2003 intitolato "Morire in carcere". Si tratta di una raccolta di 111 casi accertati di persone che hanno perso la vita dietro le sbarre. Di seguito pubblichiamo l’introduzione al dossier. "Le storie (alcune di poche righe, altre di una pagina) dei detenuti morti suicidi, per malattia, per overdose, per "cause non accertate", costituiscono la parte principale del dossier: sono 111, quelli ai quali siamo riusciti a restituire un’identità, togliendoli dall’anonimato delle statistiche. Per quasi altrettanti non c’è stato modo di sapere nulla, nonostante la rassegna stampa (che ha fatto da base per l’indagine) contenesse notizie tratte da tutti i principali quotidiani nazionali e da molti giornali locali: la conclusione più logica è che, ogni due detenuti che muoiono, uno passa "inosservato". Una seconda sezione del dossier raccoglie notizie e riflessioni tratte dai giornali carcerari: testimonianze di detenuti che conoscevano le persone morte, a volte degli stessi compagni di cella. Inoltre materiali tratti da inchieste delle Associazioni impegnate in difesa dei diritti civili (Antigone, Nessuno tocchi Caino, Osservatorio Calamandrana, etc.), ricerche, interviste, articoli di Adriano Sofri e Sergio Segio, etc. L’ultima parte è costituita da tabelle riassuntive: l’elenco dei detenuti morti, la loro età e il motivo della morte, le carceri nelle quali si sono verificati i decessi, etc". L’intero documento è consultabile al sito: www.ristretti.it Presentato dossier su decessi detenuti in carcere
Repubblica, 21 settembre 2003
È stato presentato oggi a Venezia durante il dibattito sul tema Carcere: "Progetti e percorsi di recupero", il dossier "Morire di carcere", realizzato dalla redazione di Ristretti Orizzonti, giornale dalla Casa di Reclusione di Padova, dal Centro di Documentazione Due Palazzi e dall’Associazione di volontariato penitenziario Il Granello di senape. Si tratta di un documento che raccoglie le storie dei detenuti deceduti nelle carceri italiane - tra il gennaio 2002 e il luglio 2003 - per suicidio, malattie, overdose o per "cause non accertate". "Siamo riusciti a restituire un’identità a 111 detenuti" ha spiegato durante il suo intervento Francesco Morelli, di Ristretti Orizzonti. Se chi è "dentro" si "fa fuori" Cresce il numero di suicidi e atti di autolesionismo in carcere
Famiglia Cristiana, 21 settembre 2003
"Eventi critici": sono catalogati sotto questa voce i fatti più drammatici della vita di un carcere. Autolesionismo e suicidio non sono argomenti facili né lievi da trattare. È una sconfitta per tutti parlare di persone che "si fanno fuori", inalando il gas della bomboletta o impiccandosi con un brandello di lenzuolo. Ma anche di autolesionismo: detenuti che si tagliano le braccia, la faccia, che si cuciono la bocca con una molla della biro, che ingoiano di tutto: lamette, pile, molle del materasso. Racconti e dati presentati da Ristretti Orizzonti (giornale del carcere di Padova) in un recente convegno a Venezia. Episodi purtroppo in crescita (il Comitato nazionale di bioetica all’inizio del 2003 è intervenuto segnalando che il tasso di suicidi, in carcere, è superiore di quasi 20 volte a quello nazionale e il numero delle condotte autolesionistiche è "impressionante") con una regolarità implacabile e tragica: l’ultimo, in ordine di tempo, risale all’inizio del mese, un marocchino di 30 anni che si è impiccato a Busto Arsizio. Dice il direttore del carcere milanese di San Vittore, Luigi Pagano: "Il possibile suicidio di qualcuno è un vero e proprio incubo per me, un pensiero che non mi abbandona mai".
Il progetto "celle a rischio"
Sarà per questo motivo che, da tempo, Pagano sta cercando una soluzione, anzi, un’armonizzazione tra alcune iniziative già in atto nel suo carcere per scongiurare l’autolesionismo o l’estrema rinuncia alla vita, ideando e introducendo un nuovo progetto, quello delle "celle a rischio". Al Progetto nuovi giunti confluiscono tre tipi di iniziative: il Dars, sostenuto dal Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria - datato 2002 -, e costituito da un "pronto soccorso psicologico, con il presidio di uno psicologo ogni giorno della settimana, al pomeriggio; il Progetto accoglienza 2003 (che fa capo ad alcune associazioni di volontariato assai attive nel Carcere, incontro e presenza, Sesta opera San Fedele, City Angels), che accompagna fin dall’ingresso chi arriva in carcere offrendo mediazione culturale, un po’ di cibo, un kit di sapone, spazzolino e qualche capo di biancheria pulito, e la scuola, che interviene con attività di arteterapia (scultura e pittura). Ma la vera novità consiste nell’offrire un supporto "alla pari" da parte di chi ha già passato quei momenti critici detenuti. Nessuno sa, meglio di un recluso, quali siano le sensazioni, lo sconforto, la voglia di farla pagare a qualcuno, di farla finita, clamorosamente.
Con l’aiuto dei compagni
Scelti tra quelli più equilibrati, che già partecipano ad altre attività, una decina di reclusi si impegna a turno - gratuitamente - ad assistere e intrattenere quelli appena arrivati e catalogati come soggetti potenzialmente intenzionati a farsi del male. L’esperimento dura da tre mesi e sembra aver dato ottimi risultati, tanto che la Asl Città di Milano (sulla base dell’esperienza inglese dei peer support) ha deciso di far seguire ai detenuti un corso di formazione, per poter ottenere dei "competenti in prevenzione generale", facendo in futuro, di questa attività, un lavoro retribuito. Morire in carcere: dossier 2002 - 2003
Vita non profit magazine, 21 settembre 2003
Il documento racconta la storia di 111 detenuti morti per suicidio, malattia, overdose o "cause non accertate". Carceri: viaggio fra suicidi, salvataggi e morti sospette
Corriere Veneto, 21 settembre 2003
Ci aveva provato alle 15.30 di un caldo pomeriggio d’agosto, con un lenzuolo, ed è stato salvato dall’agente di polizia penitenziaria che gli ha tolto il cappio al collo nel bagnetto della cella. Uscito illeso dal primo tentativo, il giovane cinese ci ha riprovato mezz’ora più tardi, con il detersivo per la pulizia del pavimento. Stava per ingollarlo quando un secondo agente è intervenuto tempestivamente e gli ha tolto la bottiglia di bocca. Quel pomeriggio voleva proprio morire, il cinesino che chiamavano Bruce, per sfotterlo, visto che era sempre in branda e non aveva nulla da spartire con il mitico Bruce Lee, campione di energia, di arti marziali e di velocità. Scongiurato il peggio, uscito dal buco nero, Bruce è tornato alla vita, ma di lui si sono perse le tracce. Il suo è uno dei molti casi scovati dal gruppo di "Ristretti Orizzonti", rivista carceraria redatta al Due Palazzi di Padova, che ha cercato di restituire un’identità a 111 persone che appartenevano all’anonimato delle statistiche sugli "eventi critici" successi fra il gennaio 2002 e il luglio 2003. Un lavoro che riguarda l’intero territorio nazionale e il Veneto in particolare, e che è partito da una considerazione: che nei penitenziari italiani i detenuti ti si tolgono la vita con una frequenza 19 volte superiore rispetto alle persone libere. Il primato appartiene alle isole, 20 morti solo in Sardegna, mentre al Nord sono concentrate nella casa circondariale di Marassi, a Genova, e a San Vittore, Milano, strutture notoriamente degradate. Il Veneto è una sorta di isola i felice: due a Padova, uno a Verona, uno al femminile della Giudecca e uno a Vicenza, fra strani decessi, suicidi riusciti e tentati. Poi ci sono i detenuti veneti che si sono uccisi nelle carceri fuori regione, come il veronese F.V., 32 anni, che si è impiccato in una stanzetta dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia, uno degli istituti a maggiore rischio di suicidio perché lì, sottolineano i sociologi, le sofferenze psicologiche sono maggiori. In quella circostanza, era il 9 agosto del 2002, dopo tragedia il cappellano dell’istituto spedì una drammatica lettera aperta al vescovo di Reggio Emilia e al sindaco della città, lanciando l’allarme interno. Il giovane veronese era infatti il quinto "caduto", in pochi mesi, fra le mura della struttura psichiatrica. La notizia è uscita solo grazie allo slancio emotivo del religioso. Ma nei diciannove mesi coperti dall’indagine, nessuna segnalazione giunta dai sei ospedali psichiatrici italiani. "Sorge allora un dubbio, molto forte - insinuano i ricercatori - che in questi tipi di penitenziari i ricoverati possano morire per le cause più diverse senza che all’esterno si sappia alcunché. Molti degli internati sono abbandonati dalle famiglie e le strutture, per la loro natura, sono ancor meno trasparenti delle carceri normali. Gli Opg funzionano da buchi neri per le forme più gravi di disagio sociale". Ristretti Orizzonti, invece, parla di assistenza sanitaria insufficiente nel caso di un cinquantasettenne, di origini calabresi e residente a San Bonifacio, che il 20 febbraio del 2002 è morto nell’infermeria del carcere di Verona per una crisi cardiaca. L’uomo era dentro da un mese e mezzo con l’accusa di aver partecipato ad un’estorsione. Aveva subito tre infarti e il quarto gli è stato fatale. Il dito accusatore della "morte evitabile" è stato puntato sul decesso di una giovane detenuta del carcere femminile della Giudecca. "Probabile malore, nessun segno sul corpo", aveva telegrafato il referto medico, chiudendo così un’intera esistenza di cui nessuno ha chiesto nulla. La redazione distaccata della Giudecca di Ristretti ha voluto aggiungere due righe sibilline: "Era una ragazza di origine zingara e sembra avesse perso il sostegno della famiglia a causa dei suoi problemi di tossicodipendenza. In carcere prendeva molti psicofarmaci". Esce dalle tipologie elencate dalla letteratura la fine di R.C., veneziano di 45 anni, che si è ucciso con il gas. È successo nel carcere di Tolmezzo (Udine), il detenuto ha preso un sacchetto di plastica, se l’è infilato in testa come sembra abbia fatto nel luglio 1993 Gabriele Cagliari nel carcere di Milano e, a differenza del presidente dell’Eni, che si sarebbe soffocato, ha preso la bomboletta del fornello e ha fatto in modo che il gas riempisse il sacchetto, lasciandosi stordire fino a perdere conoscenza e a morire. Il fatto strano, al di là della tecnica che sembra fare a pugni con l’istinto di sopravvivenza, è la sua storia. Mai un segno d’insofferenza, mai un giorno d’infermeria. Così, almeno, lo ricordano a Tolmezzo e a Vicenza, dove era stato detenuto per undici mesi prima di esser trasferito. È come se R.C. fosse stato rapito da un impulso improvviso. Era dentro da un anno e ne avrebbe dovuti scontare almeno venti. Un ambiente per lui sconosciuto. "Il carcere è un momento di vertigine - spiegano Pietro Sarteschi e Carlo Maggini, massimi teorici della materia - tutto si proietta lontano: le persone, i volti, le aspirazioni, le abitudini, i sentimenti. Le tensioni che prima rappresentavano la vita, schizzano di colpo in un passato che appare lontano, lontanissimo, quasi estraneo. L’individuo si richiude in sé stesso e nella sua solitudine sviluppa un terreno fertile per istinti suicidiari, senza che gli altri se ne accorgano". Ma c’è anche chi sostiene che a volte il suicida non rifletta affatto sulla morte. Un momento disperato, un gesto improvviso e addio. Da Padova una "strana" ricerca sui suicidi in carcere
Vita non profit magazine, 5 settembre 2003
In questa estate in cui non si sa parlar d’altro che di caldo e ognuno pensa al suo star male per l’afa asfissiante, e difficile che qualcuno si preoccupi di che cosa vuol dire star male in carcere. Eppure, le cronache sono piene di questo male, un male che spesso si esprime in quelli che il Ministero della Giustizia chiama "eventi critici": atti di autolesionismo, tentati suicidi, suicidi riusciti. Nella redazione di Ristretti Orizzonti, realizzata da detenuti, detenute, volontari della Casa di Reclusione di Padova e dell’Istituto Penale Femminile della Giudecca, eravamo stanchi e avviliti da tutte queste notizie di "morti di carcere", in cui i protagonisti non hanno una identità, un volto, un diritto al ricordo, ma solo un piccolo spazio nelle nude statistiche sui suicidi di detenuti. Così, abbiamo avviato una ricerca sull’ informazione giornalistica riguardante questi eventi, per capirne di più ma anche per ridare un po’ di dignità e di considerazione a queste morti, per contribuire a non dimenticare le storie delle persone che non ce l’hanno fatta a reggere il peso della detenzione, e anche per invitare il volontariato ad essere più presente e attento su questi fatti. La parte principale della ricerca è costituita dalle storie - alcune di poche righe, altre di una pagina - di detenuti suicidi, morti per malattia, per overdose, per "cause non accettate", in ordine cronologico dal gennaio 2002 al luglio 2003. Sono oltre cento, quelli ai quali siamo riusciti a restituire un identità e una provenienza togliendoli dall’anonimato delle statistiche. Per altrettanti - non c’è stato modo di sapere nulla, nonostante la rassegna stampa (che ha fatto da base per l’indagine) contenesse notizie tratte da tutti i principali quotidiani nazionali e da molti giornali locali: la conclusione più logica è che, ogni due detenuti che muoiono, almeno uno passa "inosservato". Una seconda sezione della ricerca raccoglie notizie e riflessioni tratte dai giornali carcerari: testimonianze di detenuti che conoscevano le persone morte, a volte degli stessi compagni di cella. In questa parte trovano posto anche alcuni articoli di Adriano Sofri, in carcere a Pisa, e una lettera dei detenuti di Rebibbia. L’ultima parte è costituita da tabelle riassuntive: l’elenco dei detenuti morti, la loro età e il motivo della morte, le carceri nelle quali si sono verificati i decessi (la "classifica" è guidata da Cagliari e Sassari). Per
finire, vale la pena riportare una considerazione di Francesco Morelli, il
detenuto che si è occupato più di tutti di questa ricerca, e che spiega bene l’idea
da cui è partita: "I detenuti sono uomini, non numeri. Poi sfogli una
rassegna stampa sul carcere e trovi molti articoli che sembrano note contabili.
I casi sono due: chi finisce in galera rimane per sempre nemico (quindi indegno
di essere rappresentato come persona), oppure il ricorso alla contabilità è la
maniera meno impegnativa per scrivere del carcere…". |