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"Morire di carcere": dossier marzo 2004 Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, episodi di overdose
1 omicidio, 5 morti per malattia, 1 sospetta overdose da farmaci, il suicidio di 1 detenuto paraplegico: continua il monitoraggio sulle "morti di carcere" e, nel mese di marzo, registra 8 nuovi casi
Omicidio: 1 marzo 2004, Carcere della Gorgona (Li)
Francesco
Lo Presti, 64 anni, viene trovato morto all’interno
di una rimessa, in una zona vicino agli orti dell’isola - penitenziario.
Presenta una ferita alla testa, che potrebbe essere stata provocata da un
attrezzo agricolo. A scoprire il cadavere è un altro detenuto, che avverte
immediatamente la polizia penitenziaria. (Repubblica,
1 marzo 2003) Pietro
Pischedda, 38 anni, originario di Oristano, confessa di avere ucciso Francesco
Lo Presti colpendolo ripetutamente con un martello alla testa e ferendola anche
alla gola con un coltello. Pischedda era detenuto alla Gorgona dal 1998 e doveva
scontare una condanna a 24 anni di carcere per omicidio. L’uomo è stato
trasferito nel carcere livornese delle Sughere, gli inquirenti ora vogliono
capire quale sia stato il movente del delitto. (L’Unione
Sarda, 4 marzo 2004) Il
Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sospende il direttore del
carcere della Gorgona, Carlo Mazzerbo, e il comandante degli agenti di polizia
penitenziaria Giovanni Fancellu. “Un provvedimento reso necessario affinché
non si ripetano più in futuro tali gravissimi episodi”, è stato il commento
del Ministro Castelli. Il Comitato Carceri di Montecitorio ha annunciato che
anticiperà la visita, già prevista, all’isola della Gorgona. (Corriere
della Sera, 3 marzo 2004) Detenuti
impiegati come operatori del terziario: camerieri, ristoratori, cuochi, addetti
alle camere d’albergo, giardinieri, in un polo turistico di eccezione per le
attrattive paesaggistiche incontaminate, l’isola di Gorgona. È questo il
progetto che il provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria
della Toscana, Massimo De Pascalis, sta per tirare fuori dal cassetto per
rilanciare l’esperienza del carcere aperto, avviata a Gorgona anni fa e
recentemente offuscata dai due delitti che si sono consumati sull’isola.
“Non solo i due delitti non interrompono l’esperienza del carcere aperto -
spiega De Pascalis -, ma anzi stiamo pensando di dare una svolta e aprire un
nuovo capitolo di questa esperienza. I due omicidi, infatti, chiudono una fase
che si trascinava ormai più per forza di inerzia che con energie proprie. Per
questo, ora vogliamo fissare nuovi obiettivi, di maggiore qualità. Ciò
significa migliorare i processi di recupero e aggiungere ulteriore valore alle
attività tradizionali che i detenuti svolgono sull’isola offrendo loro nuove
occasioni di occupazione”. (Corriere
della Sera, 10 marzo 2004) Morte per cause non chiare: 2 marzo 2004, Carcere di Firenze Detenuto
marocchino viene ritrovato senza vita nella sua cella, steso nella branda,
piegato di lato, con un rivolo di sangue alla bocca. La prima ipotesi che
trapela dal carcere fiorentino è quella secondo cui l’uomo sarebbe morto per
un’overdose di farmaci. Franco Corleone, garante dei diritti delle persone
ristrette nelle libertà personali nel comune di Firenze, afferma: “È un
fatto gravissimo, che mostra ancora di più la situazione critica delle
carceri”. (Ansa, 3 marzo 2004) Assistenza sanitaria disastrata: 10 marzo 2004,
Carcere dell’Ucciardone (Pa) Giovanni Santospirito, 48 anni, muore in cella, probabilmente ucciso da un infarto. Un gruppo di detenuti dell’Ucciardone, a seguito della morte di Santospirito, scrive una lettera di protesta ai giornali, per dire basta alle “dure condizioni” carcerarie, definite “ai limiti della vivibilità”, e per denunciare che i soccorsi al loro compagno sarebbero arrivati tardi: “siamo stati noi, insieme con un agente penitenziario a portarlo in infermeria”. Il direttore dell’Ucciardone, Maurizio Veneziano getta acqua sul fuoco: “Nessuna negligenza da parte nostra”, dice. “Il detenuto era affetto da problemi cardiaci, e dal giorno del suo arrivo in carcere è stato sottoposto a ben sette visite mediche, di cui due cardiologiche”. Per quanto riguarda i presunti ritardi sui soccorsi, dice che “saranno i magistrati ad accertarlo”, anche se ritiene che siano stati “veloci”. Nella lettera-manifesto, inviata anche al Magistrato di Sorveglianza e alle autorità carcerarie, i detenuti dell’Ucciardone denunciano numerose disfunzioni: mancanza di farmaci, l’assenza di un reparto di degenza, ritardi nei colloqui con gli assistenti sociali, l’assenza di una sala-colloqui attrezzata, il cattivo funzionamento di docce e servizi sanitari, i prezzi eccessivi del “sopravitto”. Veneziano
ribatte: “Sappiamo tutti che la spesa sanitaria per i farmaci è stata
contenuta, ma gli standard necessari vengono, sempre e comunque, garantiti. Per
quanto riguarda la degenza, è vero che nel centro clinico dell’Ucciardone non
sono previsti i ricoveri. Nei casi in cui è necessario viene disposto il
trasferimento del detenuto, che riceve tutta l’assistenza necessaria. (Il
Giornale di Sicilia, 23 marzo 2004) Assistenza sanitaria disastrata: 16 marzo 2004, Carcere di Fossombrone (Ps) Detenuto
italiano, già sofferente per problemi cardiaci, muore stroncato da un infarto. (Corriere Adriatico – Redazione di Pesaro, 24 marzo 2004). Assistenza sanitaria disastrata: 22 marzo 2004, Carcere di Bari Michele Rutigliano,
42 anni, tossicodipendente, viene ritrovato morto nella sua cella. L’uomo
era stato al centro di un appello umanitario rivolto dalla famiglia
all’amministrazione carceraria, attraverso le pagine dei giornali, perché
venisse ricoverato in una struttura adeguata alle condizioni di salute precaria,
nelle quali era precipitato improvvisamente, alla fine del mese di gennaio.
Rutigliano era detenuto nel penitenziario di Foggia, le sue condizioni erano
peggiorate tanto da suscitare l’allarme e
da far correre ai ripari. Anche il parlamentare di Rifondazione comunista e
componente della commissione Antimafia Nichi Vendola era intervenuto in difesa
del diritto alla salute del detenuto, intervenendo presso il Dipartimento per
l’amministrazione penitenziaria: “Il carcere - disse in quell’occasione -
ti priva della libertà, ma non della dignità. Non dobbiamo permettere che
l’inossidabile burocrazia carceraria divori un’altra vita umana”.
Ma tant’è. Michele Rutigliano era stato trasferito
circa un mese fa da Foggia a Bari; qui, a quanto pare, la situazione detentiva
sarebbe migliorata decisamente. Il detenuto era visitato, seguito dal personale
dei servizi sociali, insomma, non lasciato più nella condizione di “larva
umana” denunciate dalle due sorelle dell’uomo all’inizio del mese di
febbraio. Le donne, raggianti di felicità per
l’ultima speranza concessa ad una persona che aveva sbagliato tanto nella
vita, avevano preso anche contatto con una comunità terapeutica nel leccese. Ma
i loro sogni si sono infranti all’improvviso. Ieri mattina. Il cadavere di
Michele è stato trovato nel suo letto, come se dormisse. La salma è stata
trasportata al Policlinico di Bari, per tutti gli accertamenti medico - legali.
E, contestualmente, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bari ha
aperto un’inchiesta, coordinata dal sostituto Renato Nitti. Il magistrato ha
disposto l’autopsia, che verrà effettuata domani mattina nell’istituto di
medicina legale. Senza parole l’onorevole Vendola, che ha
appreso nel pomeriggio la notizia: “Sono sconvolto, una vita è andata perduta
e abbiamo perso tutti. Aspettiamo con ansia di conoscere i risultati
dell’azione intrapresa dalla magistratura per esprimere un giudizio completo
dei fatti che conosciamo in parte. Certo è che la violenza intrinseca del carcere è stata più forte di
qualsiasi impegno messo in campo in favore di Michele, alla cui famiglia io mi
stringo in un abbraccio di solidarietà. Fa male sentire che la segnalazione
fatta ai massimi livelli dell’amministrazione carceraria non abbia sortito gli
effetti che speravamo, e cioè la cura del paziente. Devo concludere, a questo
punto, che la vita di un poveraccio non ha proprio nessun valore. E mi auguro,
allo stesso tempo, che la giustizia faccia il suo corso fino all’accertamento
della verità”. (La Gazzetta del
Mezzogiorno, 23 marzo 2004) Suicidio: 24 marzo 2004, carcere di Opera (Mi) Andrea Mazzariello, 50 anni, paraplegico e costretto su una sedia rotelle si impicca usando come cappio il cordone di un accappatoio, che usava come vestaglia. Era in carcere dal 10 febbraio scorso, quando gli era sopraggiunto un definitivo di pena. Vivendo su una sedia a rotelle era stato assegnato al Centro Clinico del Carcere di Opera, ma per motivi ignoti non gli veniva somministrata la morfina, che gli aveva prescritto il suo medico di base prima della carcerazione. Racconta l’avvocato Giuseppe Rapone: “Otto giorni fa sono andato a trovarlo e mi ha raccontato che non gli davano la morfina da quando era stato arrestato, ossia da 42 giorni. La morfina gli era stata prescritta dal suo medico quando era a piede libero, per calmare i dolori lancinanti alla schiena che lo costringevano sulla sedia, per questo si è tolto la vita”. L’uomo stava scontando una condanna, a 11 anni di reclusione, per violenza sulla propria figlia, per la quale lui si professava innocente e per questo era stata chiesta la revisione del processo. Vista la sua condizione fisica, i suoi difensori di fiducia, Manuela Marcassoli e Giuseppe Rapone, avevano chiesto che fosse trasferito in una struttura sanitaria adeguata. Ma il Tribunale di Sorveglianza non aveva ancora deciso sull’istanza presentata dai legali di Mazzariello che, in relazione ad un altro residuo di pena di quattro mesi, erano invece riusciti ad ottenere un provvedimento che confermava il precario stato di salute, incompatibile con il regime carcerario. Al termine dell’autopsia, che ha confermato la morte per strangolamento causata dalla cintura, la salma è stata riconosciuta dai genitori. Andrea Pazzariello, nonostante la sua invalidità ha messo a punto il suicidio con una apparente freddezza non comune: ha legato la cintura dell’accappatoio alle inferriate della finestra, l’altro capo lo ha stretto al collo e quindi ha spinto la sedia a rotelle, facendola ribaltare. (Avvenire 27 marzo 2004) Il
detenuto ridotto a fascicolo, di Patrizio Gonnella (Associazione Antigone) Un paraplegico che si impicca in carcere dovrebbe fare notizia, dovrebbe indignare l’opinione pubblica, dovrebbe far scattare una inchiesta sulle responsabilità di chi non lo ha curato e non lo ha scarcerato. Un uomo costretto alla sedia a rotelle, e chiuso in galera, pone una quantità di domande. Come ha fatto a impiccarsi? Perché non era assistito o piantonato? Come mai era in carcere? Perché non era in ospedale o a casa? Come mai la Magistratura di Sorveglianza non ha deciso più rapidamente se sospendergli la pena? A chi può far paura un invalido totale? Se
il sistema penitenziario non riesce a trattare i casi limite, ci si può
immaginare cosa farà della vita di coloro che possono essere (mal) trattati
senza troppe delicatezze, in quanto sani, immigrati, tossicodipendenti. La vita
nelle galere italiane è sempre più difficile. Le carceri sono sprofondate,
dopo il dibattito estenuante sulla clemenza che ha partorito il ben poco
efficace indultino, in una opacità pericolosa. In una situazione di
sovraffollamento grave - 55 mila detenuti per 42 mila posti letto - la
condizione di salute psicofisica del singolo detenuto viene completamente
dimenticata. Non vi è più traccia del trattamento individualizzato, non ci si
può più occupare di uno solo, le pratiche sono troppe, i detenuti diventano
fascicoli. La magistratura di sorveglianza, per difetto di interesse e per
eccesso di lavoro burocratizzato, ha rimosso la questione dei diritti
fondamentali. Per cui può accadere che un detenuto cinquantenne, malato grave,
rinchiuso indebitamente in un centro clinico dell’amministrazione
penitenziaria, non se la senta più di attendere un piccolo atto di giustizia
che gli consentirebbe di andarsi a curare fuori dal carcere, e decida di
ammazzarsi. (Il Manifesto, 27 marzo 2004) Augusto Battaglia e Luigi Giacco
(DS) interrogano i
ministri Castelli e Sirchia
“Il 24 marzo 2004 nel carcere di Opera - Milano si è tolto la vita un detenuto paraplegico costretto su una sedia a rotelle, Andrea Mazzariello”. Inizia così l’interrogazione che i parlamentari Augusto Battaglia, Capogruppo DS in Commissione Affari Sociali, e Luigi Giacco, Responsabile Nazionale DS Area Disabili, hanno presentato ai Ministri Castelli e Sirchia. “Da informazioni assunte dalla stampa, il Mazzariello, pochi giorni prima, aveva manifestato al suo legale la sua disperazione per l’abbandono in una cella e per non essere curato adeguatamente per la malattia di cui soffriva, una stenosi del canale midollare che gli procurava forti dolori. Non gli veniva somministrata la morfina e cercavano di sostituirla con altri farmaci contro il dolore, che gli provocavano ulteriori forti sofferenze. Il Mazzariello, prima di rientrare in carcere per la condanna definitiva, aveva chiesto gli arresti domiciliari per motivi di salute, ma gli erano stati negati. Quando il Mazzariello già si trovava ad Opera aveva presentato, tramite i suoi avvocati, un’istanza di differimento della pena per motivi di salute”. Illustrando il caso, i Parlamentari Diessini, chiedono ai Ministri di conoscere “se i fatti corrispondono al vero e se sono state avviate le indagini amministrative e giudiziarie sul caso; se le autorità erano a conoscenza del disagio psicologico con una conseguente depressione acuta e se erano state avviate tutte le procedure di precauzione per prevenire l’atto suicidale e per quale motivo il detenuto non era stato trasferito in ricovero esterno”. Infine Battaglia e Giacco chiedono di sapere “quanti sono i detenuti in condizione di disabilità ed in quali condizioni vengano garantiti i trattamenti necessari per la loro salute.” “È
incredibile che un disabile grave fosse tenuto in certe situazioni all’interno
di un carcere,” - dichiarano in conclusione i parlamentari - e qui sorgono dei
forti dubbi sulle condizioni dei detenuti e sulle responsabilità del caso e i
Ministri ci dovranno spiegare se il diritto alla salute e alla vita in carcere
sono realtà o sono diventati dei diritti invisibili”. (Ufficio
Stampa dell’On. Luigi Giacco, 31 marzo 2004) Assistenza sanitaria disastrata: 25
marzo 2004, Carcere di Regina Coeli (Roma) Angelo Fioretti, 44 anni, sofferente da tempo di una grave patologia cardiaca, muore in cella. Era stato arrestato il 28 novembre 2003: il Gip dispone che deve restare in carcere, nonostante la malattia. Solo nel marzo 2004 viene in ospedale e operato. Cinque giorni dopo l’operazione, avvenuta il 18 marzo, il Gip dispone il suo rientro al carcere. Il 25 marzo Angelo Fioretti muore. (Liberazione, 6 aprile 2004) Assistenza sanitaria disastrata: 29 marzo 2004, Carcere di Salerno Rosina
Marotta, 56 anni, durante la notte ha un malore e viene trasportata d’urgenza
al Pronto soccorso dell’ospedale “San Giovanni di Dio e Ruggi
d’Aragona”, ma quando vi arriva, dopo l’una e 45, è già morta. Morte per
arresto cardiocircolatorio (probabile infarto), si legge nel primo referto, ma
sarà l’autopsia a stabilire le cause del decesso della donna, arrestata il
mese scorso con l’accusa di detenzione di cocaina. Il magistrato di turno, il
dottor Lo Mastro, ha ordinato il sequestro del cadavere ed aperto un fascicolo
d’inchiesta. Per il momento non ci sono iscrizioni nel registro degli
indagati: il medico legale, incaricato dalla Procura, dovrà verificare
attraverso l’autopsia cosa abbia condotto alla morte la detenuta, mentre
un’altra indagine interna al carcere di Fuorni dovrà stabilire l’esatta
dinamica dei fatti e se l’assistenza prestata alla Marotta sia stata conforme
al suo stato di salute. Dell’accaduto
sono stati informati i familiari della donna ed il suo avvocato di fiducia, il
penalista salernitano Massimo Ancarola. Lo stesso legale che qualche settimana
fa aveva presentato ai giudici del locale Tribunale del Riesame una richiesta di
concessione dei domiciliari alla propria assistita, finita in carcere alla fine
del febbraio scorso con l’accusa di detenzione di sostanze stupefacenti.
L’avvocato aveva allegato al suo ricorso una serie di documenti (per lo più
certificati medici) che riguardavano anche lo stato di salute della detenuta che
da tempo soffriva di patologie ipertensive. I giudici, però, non accolsero
l’istanza del legale, ritenendo ancora sussistenti le ragioni cautelari messe
a base dell’ordinanza di arresto chiesta dal PM Cassaniello e convalidata dal
GIP. Così la Marotta era rimasta in cella e, probabilmente, nessuno poteva
prevedere che le sue condizioni si potessero aggravare a tal punto da arrivare
all’improvviso decesso. (La
Città di Salerno, 30 marzo 2004) |