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I suicidi in ambito penitenziario Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose
Nelle carceri italiane i detenuti si tolgono la vita con una frequenza 19 volte maggiore rispetto alle persone libere e, spesso, lo fanno negli istituti dove le condizioni di vita sono peggiori, quindi in strutture particolarmente fatiscenti, con poche attività trattamentali, con una scarsa presenza del volontariato. In alcuni casi le persone che si sono tolte la vita erano affette da malattie invalidanti e ricoverate in Centri Clinici Penitenziari, ma sembra che sia l’allocazione in un determinato reparto a rappresentare il principale fattore di rischio, più che la gravità della patologia: nel Braccio "G14" (Infermeria) di Rebibbia, nel Reparto Malattie Infettive di Marassi, come nel C.O.C. (Reparto Osservazione per Tossicodipendenti) di San Vittore, si sono uccisi anche detenuti che non erano gravemente ammalati. Forse il fatto di raggruppare i detenuti in base al loro stato di salute, con l’occasione di specchiarsi quotidianamente nella doppia sofferenza dei compagni, quella della detenzione e quella della malattia, contribuisce a far perdere ogni speranza. In questo concetto, della "perdita di ogni speranza", c’è la spiegazione - semplice e palese - per la maggior parte dei suicidi che avvengono nelle carceri. "Si uccide chi conosce il proprio destino e ne teme l’ineluttabilità", scrive l’Associazione A Buon Diritto - Associazione per le libertà. Una ragione che spesso molti operatori, anche medici, sembrano non vedere e capire: cercano sempre la "giustificazione" dello squilibrio mentale e per lo più l’unica risposta che predispongono (per chi sopravvive al tentativo di suicidio, chiaramente) è l’isolamento nelle celle "lisce", cioè completamente vuote, oppure il ricovero in psichiatria, dove il paziente viene immobilizzato nel letto (con cinghie che gli stringono i polsi e le caviglie) e imbottito di sedativi, nell’attesa che abbandoni i suoi "insani" propositi. Si tratta, comunque, di interventi a posteriori, sui "sopravvissuti", mentre nel campo della prevenzione c’è quasi il vuoto, manca persino un attento esame sui trascorsi delle persone che si sono uccise, per cercare di capire da dove nascesse la loro disperazione. Alcune indicazioni al riguardo vengono anche dalla nostra ricerca: l’elemento che, paradossalmente, accomuna i suicidi appena arrestati con quelli che stanno per terminare la pena è la mancanza totale di prospettive, seppure in situazioni molto diverse tra loro. Nessuna prospettiva di riottenere la rispettabilità persa per chi, da detenuto, attende il processo per mesi ed anni: anche se fosse assolto, non potrà più liberarsi dal marchio del sospetto. Nessuna prospettiva di poter trascorrere utilmente la detenzione, per chi sa di dover scontare molti anni: in tante carceri, spesso proprio quelle dove sono più frequenti i suicidi, il tempo della pena è tempo vuoto, dissipato lentamente aspettando il fine pena. Nessuna prospettiva di poter tornare a vivere "normalmente", per chi è entrato e uscito troppe volte dal carcere e si sente condannato (anche in libertà) ad una vita ai margini, di solitudine, di sofferenza fisica e psicologica. Messi a fuoco i problemi non è così difficile capire quali possono essere le strade percorribili per ridurre al minimo il rischio che un detenuto si uccida (pur nella consapevolezza che tante situazioni personali sfuggono ad ogni tentativo di comprensione). Il primo fronte è la tutela della dignità sociale delle persone incarcerate nell’attesa del processo. Oggi basta un "avviso di garanzia", cioè l’avvertimento che ci sono delle indagini in corso, perché giornali e televisioni saccheggino la vita della persona indagata… fregandosene della presunzione d’innocenza fino alla sentenza definitiva, che dovrebbe essere l’elemento fondante di tutti i sistemi giuridici moderni. Questo gioco al massacro può avvenire anche grazie ad un certo protagonismo di alcuni rappresentanti delle forze dell’ordine e dei giudici inquirenti, che non vedono l’ora di annunciare i loro "successi" nella lotta alla criminalità: nel 50% dei casi le persone indagate saranno poi assolte (tra i vari gradi del processo), ma ormai il loro nome è stato pubblicamente associato a vicende criminali ed è questo che rimane impresso nella memoria della gente, non la sentenza d’assoluzione. Il secondo fronte riguarda strettamente la "qualità della pena". Se chiedi perché il carcere non riesce a svolgere la funzione rieducativa che la Costituzione gli assegna, ti senti invariabilmente rispondere: "È sovraffollato, mancano gli operatori, etc., etc.". Sono motivazioni reali, però non devono diventare il pretesto per bloccare in partenza le iniziative che potrebbero lo stesso attuarsi. Anche negli Istituti più cadenti e affollati (ad esempio San Vittore) si sono trovati degli spazi per attivare laboratori e corsi di formazione: salette per la socialità riadattate, magazzini dismessi, perfino angoli dei cortili utilizzati per "l’aria". Spesso questi progetti sono ostacolati anche sbandierando le esigenze della sicurezza, ma gli operatori penitenziari dovrebbero sapere bene che i detenuti, quando possono frequentare un’attività che li faccia uscire dalla cella, hanno comportamenti molto più corretti. Dove c’è una direzione intelligente, una scuola attenta, un volontariato dotato d’inventiva, il tempo della pena può essere riempito costruttivamente, in qualsiasi istituto. L’ultimo versante è quello del reinserimento nella società al termine della pena. I Radicali Italiani hanno fatto un’inchiesta per capire come operano i Consigli d’Aiuto Sociale, che sarebbero gli organi preposti a sostenere le persone scarcerate nei primi mesi di libertà: la nostra impressione è che i Consigli d’Aiuto Sociale esistano soltanto sulla carta, nella legge di riforma penitenziaria del 1975. Nessun detenuto o ex detenuto ricorda che siano intervenuti per aiutarlo. Ci sono gli Uffici per l'Esecuzione Penale Esterna (U.E.P.E.), con la duplice funzione di controllo e di sostegno durante l’esecuzione delle misure alternative e di sicurezza. Il controllo, magari attraverso le visite dei carabinieri, c’è anche… il sostegno a volte è difficile capire in cosa debba consistere, data la sporadicità dei rapporti con gli assistenti sociali. Certo, mancano gli operatori, mancano i fondi, manca tutto e quindi c’è poco da pretendere. Però, se la mettiamo così, c’è poco da pretendere anche dalle persone scarcerate, se la pena è stata soltanto punizione (e non rieducazione) e il dopo-pena significa soltanto controlli di polizia. Dove non arriva il volontariato c’è il vuoto e, quasi inevitabilmente, chi era drogato tornerà a drogarsi, chi rubava tornerà a rubare, finché il carcere si prenderà nuovamente "cura" di loro, o finché ne avranno abbastanza di tutto questo.Non sempre, però, i suicidi in carcere deriverebbero da una reale determinazione a "farla finita". A volte hanno origine da un finto suicidio andato male, come sostiene Franco La Maestra, ex militante delle Brigate Rosse, detenuto per 12 anni e libero dal 2001: "In genere si comincia con atti di autolesionismo: ti tagli, prendi a capocciate il muro. Poi insceni il suicidio. Se ti va bene prendi l’incompatibilità col carcere che può voler dire, per detenuti con pene brevi, uno sconto di pena, un trasferimento in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario, o in comunità. Solo che a quel punto è pericoloso. Sei deperito, puoi avere un mancamento, ti possono cedere le gambe. E allora sei morto. Il gioco, però, è pericoloso anche se sopravvivi. Tutto finisce nella tua cartella, vengono stesi dei rapporti, iniziano ad osservarti 24 ore su 24. A quel punto, se hai inscenato il suicidio, devi continuare a fingere, tutto il tempo. E non è facile". (Il Manifesto, 28 maggio 2003) Si uccidono più gli italiani che gli stranieri: con una presenza straniera del 30% circa (sul totale dei detenuti), i suicidi di stranieri ricostruiti nella ricerca sono "solo" il 16%. Tuttavia questa percentuale potrebbe essere sottostimata, in considerazione della maggiore difficoltà a raccogliere notizie sulle morti dei detenuti stranieri, spesso privi di quella rete di sostegno (famiglie, avvocati, etc.) che in molte circostanze fa da cassa di risonanza all’esterno del carcere. Del resto anche il numero complessivo dei suicidi è probabilmente sottostimato, come sostiene Luigi Manconi, presidente dell’Associazione A buon diritto - Associazione per le libertà". Se un detenuto cerca di uccidersi nella propria cella, ma muore in ospedale, o in ambulanza, il suo non sempre rientra negli atti suicidali carcerari. Inoltre l’amministrazione penitenziaria tende a declassificare ad eventi involontari fatti volontari. Tra detenuti esiste la pratica del drogarsi inalando il gas delle bombolette per alimenti. Se un detenuto ci muore, è da considerarsi overdose involontaria o suicidio voluto? L’amministrazione lo considera sempre un atto involontario, ma non di rado si tratta di suicidio vero e proprio". (Il Manifesto, 28 maggio 2003)I tossicodipendenti rappresentano il 31% dei casi di suicidio ricostruiti, a fronte di una presenza, sul totale dei detenuti, di circa il 30%. Si uccidono con più frequenza da "definitivi" e, addirittura, in vicinanza della scarcerazione: questo può essere indicativo di particolari angosce legate al ritorno in libertà, all’impatto con l’ambiente sociale di provenienza, al rinnovato confronto (ineludibile, fuori del carcere) con la propria condizione di dipendenza. L’ingresso in carcere ed i giorni immediatamente seguenti sono un altro momento nel quale il "rischio suicidio" appare elevato, non solo per i tossicodipendenti: i detenuti per omicidio (che sono il 2.4% di tutti i detenuti, tra attesa di giudizio ed espiazione pena) rappresentano ben il 13% dei casi di suicidio esaminati, molti avvenuti nei primi giorni di detenzione. Si tolgono la vita più frequentemente coloro che hanno ucciso il coniuge, parenti o amici, più raramente i responsabili di delitti maturati nell’ambito della criminalità organizzata. Alcuni eventi della vita detentiva, poi, sembrano funzionare da innesco rispetto alla decisione di "farla finita": il trasferimento da un carcere all’altro (a volte anche solo l’annuncio dell’imminente trasferimento, verso carceri e situazioni sconosciute), l’esito negativo di un ricorso alla magistratura, la revoca di una misura alternativa, la notizia di essere stati lasciati dal partner, etc… Abbastanza rari, invece, sembrano essere i casi di suicidio direttamente connessi all’arrivo della sentenza di condanna. Circa un terzo dei suicidi aveva un’età compresa tra i 20 e i 30 anni e, più di un quarto, un’età compresa tra i 30 e i 40. In queste due fasce d’età il totale dei detenuti sono, rispettivamente, il 36% e il 27%: quindi i ventenni si uccidono con maggiore frequenza, rispetto ai trentenni. Nelle altre fasce d’età le percentuali dei suicidi non si discostano molto da quelle del totale dei detenuti. La punibilità del tentativo di suicidio in carcere
Il tentativo di suicidio compiuto in carcere è punito disciplinarmente (come avviene anche per l’autolesionismo, il tatuaggio, il piercing), in base all’articolo 77 del Regolamento penitenziario che, al punto 1) prevede l’infrazione (molto generica) della "negligenza nella pulizia e nell’ordine della persona o della camera". Oltre alle possibili sanzioni decise dal Consiglio di disciplina (richiamo, esclusione dalle attività, isolamento, etc.), l’infrazione disciplinare comporta la perdita dello sconto di pena per la buona condotta (liberazione anticipata), nonostante il codice penale non consideri reato il tentativo di suicidio.
Il documento del Comitato nazionale di bioetica (17 gennaio 2003)
L’aumento dei suicidi tra i detenuti - in 10 anni sono triplicati - spinge il Comitato nazionale di bioetica (su proposta del prof. Luciano Eusebi, docente di diritto penale a Piacenza) a votare un documento al riguardo: "Il quadro obiettivo risulta di gravissimo disagio, come indicano un tasso di suicidi di quasi 20 volte superiore a quello nazionale e un numero impressionante di condotte autolesionistiche. Resta anche la percezione, in molti casi, del ricorso da parte dei detenuti a sostanze stupefacenti. La stessa garanzia immediata della salute dei reclusi appare messa in discussione, il che richiede la disponibilità di risorse adeguate". Il Comitato di bioetica, poi, si sofferma su quattro punti: "La tutela della salute di questi individui è preciso dovere morale, oltre che giuridico dei pubblici poteri. La condanna a pena detentiva non deve implicare la compromissione dei diritti umani fondamentali. Sono necessari provvedimenti urgenti rispetto al sovraffollamento. Infine è auspicabile un approfondimento finalizzato all’introduzione di pene principali non detentive, finora assenti". (Corriere della Sera, 24 gennaio 2003)
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