Le morti per "cause non chiare" e per overdose

Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose

 

In questa categoria possiamo distinguere due gruppi principali

 

  1. i casi nei quali la causa della morte non è circostanziata a sufficienza dall’informazione giornalistica, cioè dove l’uso di termini generici come "malore", "arresto cardiocircolatorio", etc., chiarisce ben poco e i casi di overdose, provocata da droghe, da psicofarmaci e alcool, dal gas delle bombolette da camping;

  2. i casi nei quali le versioni ufficiali presentano zone d’ombra ed incongruenze tali da far nascere il sospetto che mascherino degli episodi di maltrattamenti ad opera di agenti o di violenza da parte altri detenuti.

Il primo gruppo è il più consistente, dal punto di vista del numero dei casi descritti, e comprende i collassi causati da un eccesso di farmaci, le overdose da eroina, le morti conseguenti all’uso del gas delle bombolette a scopo stupefacente, ma anche quelle imputabili a patologie che non erano state diagnosticate per tempo, o curate male, o non curate affatto.

Di certo quando si verificano queste tragedie il "riserbo" degli operatori e dei magistrati è "strettissimo". In pochi se la sentono di fare veramente chiarezza sulle colpe e sulle mancanze dei propri colleghi, nell’attesa che il tempo faccia dimenticare l’accaduto (se il detenuto morto era uno straniero, magari registrato con un nome falso, non serve nemmeno una lunga attesa…).

Il secondo gruppo è rappresentato dai casi nei quali c’è il sospetto che la morte sia stata causata da un pestaggio, compiuto da agenti, oppure da altri detenuti. Si tratta quindi di possibili casi di omicidio che, in attesa degli esiti dell’inchiesta giudiziaria, sono comunque catalogati come morti per "cause naturali".

Nelle statistiche del Ministero della Giustizia sugli eventi critici in ambito penitenziario i pestaggi "ovviamente" non compaiono, però anche i dati sugli omicidi sono discutibili.

Nelle rassegne stampa che coprono lo stesso periodo ci sono, invece, diverse notizie riguardanti procedimenti penali contro degli agenti di polizia penitenziaria, accusati di avere provocato - direttamente o indirettamente - la morte di detenuti. C’è il caso di Luigi Acquaviva, morto nel carcere di Nuoro il 27 novembre 2000: "Otto poliziotti penitenziari saranno processati il 27 novembre per la morte di Luigi Acquaviva, il detenuto di San Giuseppe Vesuviano che il 23 gennaio di due anni fa morì nella sua cella, nel carcere di Badu ‘e Carros. Suicida, secondo la ricostruzione ufficiale, impiccato alle sbarre della cella con un cappio costituito da una serie di calzini annodati. Ma i familiari non avevano creduto a questa versione, e avevano subito sollevato pesanti sospetti sulla vicenda. Fatti propri dalla Procura, e in qualche modo avvalorati dalla perizie necroscopica dei consulenti del pubblico ministero, Vindice Mingioni e Roberto Demontis. Che certificarono un fatto inequivocabile: alcune ore prima della morte (il referto parla delle sei del 23 gennaio) Acquaviva subì un violentissimo pestaggio. Aveva ecchimosi su tutto il corpo, violenti traumi agli arti, alla testa. In qualche parte mancavano lembi di pelle. Un uomo fortemente debilitato quindi, che, stando alla ricostruzione ufficiale, avrebbe trovato la forza di impiccarsi. E che, per di più, avrebbe dovuto essere sorvegliato a vista. Le accuse per gli otto poliziotti (tra ispettori e agenti) vanno dall’omicidio colposo alle lesioni". (La Nuova Sardegna, 16 luglio 2002)

E c’è quello di Giuliano Costantini, morto ad Ascoli il 27 settembre 2000: "Secondo il sostituto procuratore Umberto Monti, l’agente di polizia penitenziaria Salvatore Pezzella nel settembre del 2000 avrebbe "punito" Costantini, ritenendolo responsabile di aver rotto un tubo di un lavandino. L’agente, abusando della sua posizione, avrebbe costretto Costantini ad uscire dalla cella, dove si trovava insieme ad altri detenuti; l’avrebbe quindi accompagnato in una stanza appartata e lontana da sguardi indiscreti e qui l’avrebbe colpito in varie parti del corpo con calci, pugni e schiaffi. Al termine della "punizione" l’avrebbe poi ricondotto, dolorante, nella sua cella. Successivamente Giuliano Costantini si sentì male: ricoverato in ospedale morì, nonostante un lungo intervento chirurgico. L’autopsia, però, non ha individuato nelle presunte percosse subite la causa della morte, dovuta piuttosto ad un’infezione, mal curata". (Il Messaggero, 9 ottobre 2002)

Nel "Rapporto sulle carceri 2001" dell’Associazione Antigone c’è la notizia del processo contro 24 agenti del carcere di Reggio Calabria, 12 dei quali accusati di omicidio volontario: "Francesco Romeo, 28 anni, muore il 29 settembre 1997 nel carcere di Reggio Calabria. Dagli atti giudiziari emerge che Romeo sarebbe stato aggredito da almeno 5 persone; successivamente il corpo sarebbe stato trasportato sotto un muro per simulare un tentativo di evasione. La messinscena è stata smascherata dopo la consulenza medico - legale che ha dichiarato la assoluta incompatibilità delle lesioni con la caduta dall’altezza di 3/4 metri. La causa diretta della morte sarebbe invece una serie di colpi di bastone, o manganello, che avrebbero provocato la frattura del cranio. Le lesioni alle braccia hanno invece evidenziato un tentativo di protezione del volto. Risultano lesioni allo scroto ed al coccige. Il P.M., dopo due anni di indagini, ha rinviato a giudizio 24 agenti di polizia penitenziaria, di cui 12 per omicidio volontario e 12 per favoreggiamento. Quasi tutti gli imputati negano la propria presenza al momento e sul luogo del fatto. I registri delle presenze risultano alterati con il bianchetto. Nessuno ha attivato l’allarme. Intercettazioni ambientali dimostrerebbero che tutti gli escussi in qualche modo sono a conoscenza di come sono andati i fatti il giorno della morte di Romeo. Le intercettazioni hanno evidenziato, secondo quanto chiesto dal P.M. nel rinvio a giudizio "una naturale tendenza al pestaggio all’interno della struttura carceraria (anche) da parte del personale di polizia penitenziaria".

Tra i casi descritti nella ricerca (relativi al 2002 - 2003) il più clamoroso è quello di Mauro Fedele, morto il 30 giugno 2002 nel carcere di Cuneo. La versione ufficiale parla di "arresto cardiocircolatorio" ma Giuseppe Fedele, padre di Mauro, lancia accuse contro gli agenti di custodia. "Il corpo di mio figlio è pieno di lividi: ha la testa fasciata e ha segni blu su collo, sul petto, specialmente a destra, come uno zoccolo di cavallo; e poi sui fianchi e all’interno delle cosce, sia a destra sia a sinistra. È chiaro che lo hanno riempito di botte, forse con i manganelli, e che è morto per questo. Chiederemo che un nostro medico di fiducia assista all’autopsia, perché dopo quello che abbiamo visto non possiamo subire passivamente e credere a quello che ci hanno detto e cioè che Mauro è morto per arresto cardiocircolatorio. Il nostro avvocato presenterà una denuncia per omicidio, perché pensiamo che sia morto in seguito ad un pestaggio". (La Stampa, 1 luglio 2002)

A riprova del fatto che i pestaggi compiuti dagli agenti non sono eventi rarissimi (anche se, fortunatamente, è raro che provochino la morte dei detenuti che li subiscono) c’è il numero consistente di procedimenti penali dei quali danno notizia i giornali e che, a margine della ricerca, abbiamo registrato.

Va detto che la verità giudiziaria è scritta soltanto con la conclusione del procedimento e, fino allora, la presunzione d’innocenza vale per tutti gli imputati. Ma va pure detto che per un detenuto è arduo denunciare d’essere stato picchiato, perché è esposto al rischio di ritorsioni, perché sa che potrà vincere la causa soltanto producendo prove inconfutabili, altrimenti sarà lui ad essere condannato per calunnia, e nel carcere la raccolta di queste prove viene spesso ostacolata (basti pensare ai referti medici che si "smarriscono", ai detenuti citati come testimoni che, prima del processo, vengono trasferiti in carceri lontane, etc.).

Per tutti questi motivi nasce il ragionevole sospetto che le denunce depositate in procura rappresentino soltanto la punta di un iceberg, dalle dimensioni difficilmente verificabili.

 

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