Dossier: "Morire di carcere"

 

Morire di carcere: dossier 2002 - 2003

Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose

 

Il pianeta delle ombre e il mal di carcere

di Sergio Segio (Responsabile Programma carceri del Gruppo Abele)

 

Dignitas, n° 1 – 2002

 

Non è casuale che, nell’economia dei capitoli, Inchiesta sulle carceri italiane, il Secondo Rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia dell’Associazione Antigone (a cura di Stefano Anastasia e Patrizio Gonnella, edizioni Carocci, 2002) ne dedichi uno al tema "Eventi critici: maltrattamenti e decessi 2000 - 2001". L’estensore, infatti, avverte già nelle prime righe che, specie dopo l’11 settembre 2001, per chi abbia a cuore i diritti umani il clima non è dei migliori. La logica del fine che giustifica i mezzi, tuttavia, non si è esasperata solo negli USA, colpiti dalla tremenda strage terroristica delle Twin Towers e non vige solo a Guantanamano. In vari Paesi europei si sono verificati episodi di compressione dei diritti civili, irrigidimenti legislativi e normativi, peggioramento nelle condizioni carcerarie e violazioni nel diritto di difesa, in particolare per quanto riguarda le persone immigrate. Negli USA, a ridosso dell’attentato, sui giornali si è apertamente discusso di legittimità della tortura. E non solo in ambiti conservatori.

Un settimanale liberal come "Newsweek", ad esempio, è giunto a pubblicare un articolo del commentatore progressista Jonathan Alter dal titolo "È l’ora di pensare alla tortura". In Italia, segnala il Rapporto di Antigone (la quale ha diffusamente trattato l’argomento nel volume limiti alla costrizione, Quaderno di Antigone n° 2, che raccoglie gli atti di un convegno internazionale svolto dalla stessa associazione e dalla sezione italiana di Amnesty International), continua a esservi un vuoto giuridico al riguardo, poiché nel nostro codice non esiste ancora un reato specifico di tortura. E questo nonostante le sollecitazioni delle Nazioni unite, attraverso il Comitato dei diritti umani e di quello contro la tortura, e nonostante le numerose e trasversali proposte di legge presentate in Parlamento. L’introduzione di questa nuova fattispecie, peraltro, risulterebbe necessaria anche per delimitare e contraddistinguere i casi di tortura da quelli, sicuramente più frequenti, di maltrattamento. Fatto sta che il volume di Antigone enumera numerosi casi di morti sospette o evitabili e di pestaggi accaduti tra il 2000 e il 2001 in 29 carceri e in 7 tra commissariati e caserme di carabinieri. Analoghi rilievi compaiono nelle relazioni stilate e consegnate al governo italiano dal "Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti degradanti" (in sigla, CPT) del Consiglio d’Europa, dopo le periodiche ispezioni effettuate negli istituti penitenziari e nelle celle di sicurezza italiane.

 

Gli eventi critici e la crescita dei suicidi

 

Sarebbe certo sbagliato, e ingiusto nei confronti di chi ci lavora, immaginare che episodi di violenze generalizzate a danno di persone detenute siano frequenti o diffusi nei penitenziari italiani. Nondimeno, sarebbe fuorviante supporre che le sofferenze e i danni fisici e psichici che segnano molti di coloro che vivono dentro le carceri siano prodotti solo da violenze deliberate o da pestaggi. Vi è una casistica assai ampia, che nella classificazione statistica dell’Amministrazione penitenziaria prende il nome, un po’ generico e criptico, di "Eventi critici" e che riguarda sia i gesti di autolesionismo, i suicidi, i decessi e le aggressioni, sia le manifestazioni di protesta e le evasioni.

I dati ministeriali sono sicuramente utili nel fotografare questi particolari fenomeni e, purtroppo, nel delineare la crescita, in particolare di suicidi, tentati suicidi e atti di autolesionismo, la cui curva appare a tratti in drammatico parallelo all’aumento della popolazione detenuta, pressoché raddoppiata nel corso degli anni Novanta (ma più corretto sarebbe dire triplicata, poiché, secondo i dati al 31 dicembre 2001, ai 55.275 detenuti presenti ne vanno almeno sommati 26.195 affidati al servizio sociale; nel dicembre 1990 vi erano invece 29.113 detenuti presenti, mentre gli affidati al servizio sociale nel 1991 erano solo 3.988). Pur se nelle carceri italiane nel 2001 vi è stata un"‘impennata" nel numero di suicidi, va detto che la situazione è ancora peggiore in altri Paesi europei, in particolare in Francia e Austria, dove il tasso di suicidi è quasi doppio rispetto al nostro.

Tuttavia, le cifre da sole non sono sempre sufficienti. Specialmente a illuminare il cono d’ombra cui sono tradizionalmente relegati molti dei fenomeni violenti che avvengono nelle celle. Sui particolari e delicati aspetti dell’autolesionismo e del suicidio non sono molte le ricerche e gli approfondimenti. Tra quelli effettuati, come dire, direttamente "sul campo" vanno segnalati gli studi di Francesco Ceraudo, che da molti anni opera nel Centro Clinico del carcere di Pisa ed è presidente dell’Associazione nazionale medici penitenziari. Tra i materiali più recenti e acuti, vi è invece la ricerca "Così si muore in galera. Suicidi e atti di autolesionismo nei luoghi di pena" realizzata nel 2002 da Luigi Manconi, presidente di "A buon diritto. Associazione per le libertà".

La ricerca è importante per vari motivi e sotto diversi aspetti. Perché tenta, forse per la prima volta, sulla forza dei dati e della loro interpretazione, di rompere consolidati stereotipi sul suicidio in carcere, in particolare quello secondo cui la propensione a uccidersi sia strettamente correlata alla riduzione della speranza; proprio come avviene all’esterno, dove nei malati terminali o irreversibili la percentuale di suicidi è irrisoria. Secondo la ricerca, sul complesso dei suicidi avvenuti in carcere negli anni 2000 e 2001, oltre il 16% riguarda detenuti per reati legati alla tossicodipendenza e più del 22% riguarda detenuti per reati di scarso rilievo penale e sociale.

Anche qui: la condizione di tossicodipendenza, che generalmente si vuole associata a particolari fragilità, che a loro volta starebbero alla base di molte scelte di togliersi la vita, non sembra particolarmente rappresentata, stante che le persone tossicodipendenti costituiscono il 27.94% dei detenuti presenti in carcere (al 31 dicembre 2001).

Per Manconi, dunque, non è con la disperazione che si può spiegare lo scarto così rilevante tra il numero di quanti si suicidano in carcere (quasi 13 ogni diecimila detenuti nel 2001) e il numero di coloro che si tolgono la vita fuori dal carcere (meno dello 0.7 ogni diecimila residenti nel territorio italiano). Semmai, si può cercare di spiegarlo con la paura del noto e dell’ignoto, vale a dire che in carcere si uccide, quasi in eguale misura, "chi conosce il proprio destino e ne teme l’ineluttabilità; chi non ha la minima idea del proprio destino e ne teme l’imprevedibilità". La scelta di uccidersi riguarderebbe insomma la "normalità". Non sembrano cioè esserci particolari "gruppi a rischio", a parte quello dei "nuovi giunti" in carcere, ovvero di coloro che impattano per la prima volta questa realtà, spesso non trovando in quei primi delicati momenti il necessario supporto, se non quello eventuale (ma certo più frequente di quello degli operatori) e fondamentale di una sorta di auto-aiuto tra reclusi. Secondo i dati raccolti dai ricercatori, è difficile escludere una correlazione tra il sovraffollamento (con tutto quel che comporta, spazi ridotti, maggiore promiscuità, tensione continua, aggressività, lentezze esasperanti per il disbrigo di ogni pratica o per ricevere servizi e assistenza) e crescita dell’insostenibilità della condizione reclusa.

 

La fabbrica della malattia

 

Non è allora troppo forzato sostenere che anche i suicidi, e più complessivamente i cosiddetti "eventi critici", ovvero una quota significativa di violenza che il detenuto vive, subisce o esprime su di sé, sono in relazione di causa-effetto con la condizione di reclusione. Paradossalmente, nella situazione limite della prigionia, la scelta del suicidio può diventare estrema rivendicazione di dignità: "Non sempre il suicidio in carcere è un gesto di ribellione. Ma sempre pone l’istituzione davanti alla propria impotenza. Il condannato cessa di essere un recluso per affermarsi, attraverso la radicale negatività del gesto, come essere umano".

Anche questa considerazione, che significativamente proviene da uno dei più attenti dirigenti dell’Amministrazione penitenziaria, Giovanni Tamburino, responsabile dell’Ufficio Studi del DAP e direttore del suo mensile, indirettamente ci dice quanto le condizioni di carcerazione siano oggettivamente e radicalmente lesive della dignità della persona. Laddove la dichiarata impotenza dell’Amministrazione al riguardo risiede forse nella consapevolezza che la pena reclusiva non è mai rimedio ma spesso pura ritorsione sociale, dunque a priori e comunque produttrice di dolore e violenza, negatrice di umanità e dignità. Il carcere è, di per se, fabbrica di sofferenza e malattia. Per dirla con il libro Ferri battuti: "Nel carcere i poveri e i disperati di tutto il mondo si danno convegno, avanguardie esposte e vulnerabili dello scambio di genti. La Medicina vi è di casa, con una complicazione amara: che la malattia che il medico cura è proprio quella che il carcere aggrava, per così dire di proposito, quando non la fabbrica" (Adriano Sofri e Francesco Ceraudo, ed. Archimedia, 1991).

In definitiva, la ricerca di Manconi non si azzarda a fornire risposte generalizzanti al quesito sul perché ci si uccida con tanta frequenza in carcere, assumendo correttamente che le cause dei suicidi sono tante quanti sono i suicidi stessi (e questo vale nelle prigioni quanto all’esterno). E che dunque vi sia sempre un originale e drammatico insieme di circostanze e fattori che determinano l’evento. Diverso è il discorso sugli atti di autolesionismo, dove prevale e ricorre una funzione principalmente "dimostrativa", di protesta o anche solo di tentativo di comunicare. Si pensi in modo particolare ai detenuti stranieri. 16.294 persone (al 31 dicembre 2001), che talvolta non conoscono la lingua e non riescono a farsi capire e soprattutto ascoltare.

Cosicché, scrive Manconi nella ricerca citata, "il farsi male" e il tentativo di togliersi la vita costituiscono, spesso, la sola forma di auto-rappresentazione e l’unica voce (pur stenta e rotta) rimasta a chi, per definizione e per condizione. è senza voce. E, infatti, al detenuto viene imposta, quale pena aggiuntiva, l’interdizione a comunicare col resto della società. Rimasto "senza parola", il detenuto si adatta, pertanto, a parlare attraverso il proprio corpo, il corpo offeso e costretto è, in molte circostanze, il solo mezzo di comunicazione con l’esterno. Il corpo è qui, davvero, il mezzo e il messaggio. E il corpo viene buttato così com’è - "tagliato", lacerato, mortificato - in faccia a chi lo vorrebbe ignorare. Di conseguenza non stupisce che, ogni anno, un detenuto su sette - e possiamo far riferimento solo ai dati ufficiali - ricorre all’autolesionismo o tenta il suicidio. Il silenzio imposto, l’irrilevanza sociale, la negazione di diritti sono pene aggiuntive, non scritte nei codici o nei regolamenti ma decisamente e immancabilmente operanti. Ma non sono le sole.

 

Le pene corporali

 

"La pena della prigione è ancora e soprattutto una pena corporale, qualche cosa che dà dolore fisico e produce malattia e morte", scrive Massimo Pavarini nell’introduzione a uno dei pochi testi che hanno sviluppato ricerca sul campo, ma anche riflessione teorica, attorno alle patologie penitenziarie (Daniel Gonin, EGA, 1994). Il carcere martirizza il corpo del detenuto più per ottusità che per sadismo, puntualizza Pavarini esaminando i risultati della ricerca di Gonin: "Circa un quarto degli entrati in prigione soffre già nei primi mesi di vertigini; l’olfatto viene prima sconvolto e poi annientato nel 31% dei detenuti; entro i primi quattro mesi, un terzo degli entrati dallo stato di libertà soffre di un peggioramento della vista fino a diventare con il tempo "un’ombra dalla vista corta", perché lo sguardo perde progressivamente la funzione di sostegno della parola, l’occhio non si articola più alla bocca; il 60% dei reclusi soffre entro i primi otto mesi di disturbi dell’udito per stati morbosi di iperacutezza; il 60%, fin dai primi giorni, soffre la sensazione di "carenza di energia", il 28% patisce sensazioni di freddo anche nei mesi estivi".

Non deve allora stupire se quello stesso corpo aggredito dalla condizione innaturale della cattività nei suoi sensi e nelle sue funzioni, nella sua integrità e nella sua dignità, venga utilizzato come "arma" estrema e disperata di comunicazione. Del resto, proprio i detenuti tradizionalmente usano il corpo come "tabellone" su cui affiggere messaggi, ricorda Daniel Gonin. O, meglio, usavano, perché nell’epoca dell’AIDS la pratica del tatuaggio artigianale in carcere sembra assai ridotta, non costituendo più, oltre tutto, tratto distintivo d’identità, perché ormai divenuto moda e praticato commercialmente e trasversalmente ai ceti sociali. La violenza ora viene espressa su di sé, non produce eco esterna perché spesso sembra avere da comunicare solo l’individuale disagio e perché "l’occhio non si articola più con la bocca", la povertà di campo visivo si traduce e cronicizza in afasia.

 

La solitudine del detenuto

 

Paradossalmente e in definitiva, il carcere riformato e "aperto" ha zittito il detenuto sin dentro il chiuso della sua cella. Lo ha privato non solo della protesta violenta, così drammaticamente diffusa negli anni settanta, ma anche di quella pacifica (per esempio, lo sciopero del vitto o l’astensione dal lavoro possono facilmente comportare ritorsioni, sanzioni disciplinari e la mancata concessione di benefici), in cambio della speranza, di una promessa che non ha saputo - o che non poteva - mantenere, quella di ridurre il ricorso al carcere.

Un processo certo complesso e complicato, da analizzarsi su scala mondiale entro i generali processi di ricarcerizzazione e di globalizzazione, ma che in ogni modo vede come uno dei suoi effetti proprio la crescente solitudine del detenuto, la mancanza di ascolto e, in ultimo e in conseguenza, la crescita della sofferenza e del suo uso in vece della parola attraverso l’autolesionismo e il suicidio. Si potrebbe definirlo un fallimento delle buone intenzioni, certificato dall’enorme crescita della popolazione detenuta e dal progressivo mutare di segno delle misure alternative introdotte dalla riforma penitenziaria del 1975 e rafforzate da quella del 1986. La valenza decarcerizzante di queste ultime, infatti, è platealmente venuta meno

a vantaggio di una funzione di espansione del controllo sociale e di "esportazione" del carcere sul territorio, complementare alla tendenza alla ricarcerizzazione. Sempre nel corso degli anni Novanta, infatti, il numero degli ammessi alle misure alternative è cresciuto in parallelo e non in maniera inversamente proporzionale al numero dei reclusi. Esattamente com’è successo in modo più evidente e massiccio negli USA, ma anche in molti altri Paesi, stante che i tassi di carcerazione sono aumentati pressoché ovunque proprio nello scorso decennio che, guarda caso è quello stesso che ha visto, a partire dal 1991, il decremento complessivo delle statistiche dei reati e in particolare di quelli più gravi e degli omicidi.

Il clima, insomma, non è dei migliori, per tornare all’inizio di questo ragionamento. L’ottimismo della volontà deve cedere per un momento spazio al pessimismo della ragione e della constatazione. Tanto che possiamo provvisoriamente concludere con le parole - scritte significativamente poco dopo il varo della riforma del 1986 - di Igino Cappelli, che è stato a lungo magistrato di sorveglianza: Igino Cappelli, Gli avanzi della giustizia. Diario del giudice di sorveglianza, Editori Riuniti. "Ho lasciato il carcere peggiore di com’era anni prima della riforma. Fu un errore di stampo illuministico credere che una legge potesse, per virtù propria, trasformare realtà sociali e istituzionali, deviare il destino di uomini e donne. Il carcere poteva cambiare solo nel senso delle linee generali di tendenza prevalenti nella società, e dunque in peggio. Né si poteva pretendere che proprio la galera fosse un’isola di legalità e di decenza, se poi le sue vittime (Angioni, Netta, Antonia Bernardini) sono troppe volte le vittime della giustizia. E se la logica del lager è vincente, non c’è posto per un giudice impotente alla tutela dei diritti umani più elementari. Non deve esserci posto. La galera basti a se stessa. Ma imbarbarita e corrotta dalla legge e dal costume dell’emergenza, la giustizia è ridotta a celebrare i suoi nuovi riti in aule bunker allestite persino a ridosso o all’interno delle prigioni. Dove va il giudice? È tardi. La donna si è distesa sui suoi stracci. Anch’io raccolgo i miei avanzi e vado a dormire".

 

 

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