L’assistenza sanitaria disastrata

Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose

 

Oltre 100 detenuti l’anno muoiono per "cause naturali" nelle carceri italiane. Raramente i giornali ne danno notizia. A volte la causa della morte è l’infarto, evento difficilmente prevedibile. Altre volte sono le complicazioni di un malanno trascurato o curato male. Altre volte ancora la morte arriva al termine di un lungo deperimento, dovuto a malattie croniche, o a scioperi della fame.

A riguardo di questi ultimi casi, va detto che i tribunali applicano in maniera molto disomogenea le norme sul differimento della pena per le persone gravemente ammalate (art. 146 e art. 147 c.p.) e, spesso, la scarcerazione non viene concessa perché il detenuto è considerato ancora pericoloso, nonostante la malattia che lo debilita.

L’articolo 1 del Decreto Legislativo 230/99, sul riordino della medicina penitenziaria stabilisce che: "I detenuti e gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci ed appropriate, sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli essenziali e uniformi di assistenza individuati nel Piano sanitario nazionale, nei piani sanitari regionali ed in quelli locali".

Dall’entrata in vigore di questa legge sono trascorsi otto anni, nel corso dei quali le competenze sull’assistenza sanitaria dei detenuti avrebbero dovuto gradualmente passare dal Ministero della Giustizia a quello della Sanità: invece, quello che si è sicuramente verificato è stato il taglio delle risorse economiche destinate alle cure mediche per i detenuti, mentre l’attribuzione delle pertinenze è tuttora argomento di discussione e di confusione. Nel frattempo i detenuti morti per problemi di salute sono aumentati d’anno in anno.

Francesco Ceraudo, Presidente dell’Associazione dei medici penitenziari, definisce il carcere una "fabbrica di handicap" e aggiunge: "In queste condizioni, con i tagli alle risorse della Sanità Penitenziaria ed una conseguente diminuzione del personale, che era già insufficiente, non è più possibile garantire al detenuto quel diritto alla salute sancito dalla nostra Costituzione. L’immediata conseguenza di questa azione governativa sarà l’aumento dei suicidi e delle ospedalizzazioni, con un pericoloso sovraccarico di lavoro per la Polizia Penitenziaria. I nostri pazienti, dopo aver perso la libertà, rischiano di perdere la salute e talvolta la vita".

Rosaria Iardini, rappresentante dell’Anlaids, è convinta che: "Almeno il 70% delle persone sieropositive e ammalate che sono rinchiuse nelle carceri non ricevono cure corrette. A peggiorare la situazione ci sono anche i trasferimenti: capita spesso che, assieme al detenuto, non venga spedita la sua cartella clinica nel carcere di destinazione. La conseguenza è la sospensione forzata della terapia, l’annullamento dei risultati raggiunti e il rischio di andare incontro a infezioni opportunistiche".

Ma l’assistenza sanitaria in carcere è molto complicata anche perché a volte i detenuti "usano" la propria salute per cercare di ottenere migliori condizioni di detenzione (una dieta speciale, una cella singola, l’autorizzazione a fare la doccia ogni giorno… farmaci con i quali "sballarsi"), oppure la detenzione domiciliare o il rinvio della pena. I medici, a loro volta, tendono a considerare tutti i detenuti dei simulatori, a minimizzare di fronte ai sintomi di una malattia, a rassicurare il paziente - detenuto sul fatto che "non è niente di grave". Il comportamento di entrambe le parti impedisce, insomma, l’instaurarsi di un rapporto di fiducia, che pure sarebbe necessario per l’effettività e l’efficacia delle cure: di fare della prevenzione nemmeno a parlarne… quando manca perfino l’indispensabile.

Così, quando un detenuto muore, una azione di "depistaggio" viene spesso messa in campo per scaricare su altri la responsabilità dell’accaduto, sia all’interno del carcere (gli agenti non l’hanno sorvegliato, i medici non l’hanno curato, gli psicologi non l’hanno capito, i magistrati non l’hanno scarcerato), sia all’esterno (non è morto in cella, ma durante la corsa verso l’ospedale, oppure subito dopo l’arrivo in ospedale), il che vuol dire: noi non c’entriamo, il carcere non c’entra… da qui è uscito ancora vivo.

Ed è vero che ci sono delle indagini, che un fascicolo viene aperto in Procura, però le notizie diffuse dai giornali si basano quasi sempre sulle versioni "addomesticate" che provengono dal carcere. Fanno eccezione solo i casi nei quali i famigliari o gli avvocati del detenuto morto s’impegnano fortemente perché venga fatta chiarezza sulla fine del loro congiunto e, allora, si arriva anche all’accertamento delle responsabilità, a sentenze di condanna, a volte alla rimozione di direttori e dirigenti sanitari.

 

Il rinvio dell’esecuzione della pena in caso di malattia (articoli 146 e 147 Codice penale)

 

L’articolo 146 prevede il "rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena" quando il condannato è affetto da A.I.D.S. conclamata, o da grave deficienza immunitaria, o da altra malattia particolarmente grave per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione.

L’incompatibilità si verifica quando la persona è in una fase della malattia così avanzata da non rispondere più (secondo le certificazioni del Servizio sanitario penitenziario o di quello esterno) ai trattamenti terapeutici praticati in carcere.

L’articolo 147 prevede il "rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena" per "chi si trova in condizioni di grave infermità fisica". La legge non dice nulla per definire meglio il concetto di "grave infermità fisica" e per saperne di più dobbiamo guardare alla giurisprudenza che, peraltro, contiene anche elementi contraddittori.

Viene riconosciuta nel caso in cui la malattia conduca la persona alla morte senza che vi sia alcuna possibilità di cura; non è sufficiente, però, essere affetti da una malattia cronica irreversibile, bisogna che le condizioni fisiche del malato siano tali da poterne escludere la pericolosità.

Tuttavia alcune sentenze hanno vincolato la concessione del differimento alla possibilità della regressione della malattia (quale effetto di trattamenti terapeutici praticati in stato di libertà), quindi contraddicendo la prima interpretazione. In altre sentenze ancora troviamo letture della legge improntate a una maggiore umanità: al rischio di morte, quale elemento per determinare l’effettiva gravità delle condizioni fisiche, si aggiunge quello che la malattia "cagioni altre rilevanti conseguenze dannose" (Cass. Pen. Sez. VI, 1986, Celentano).

Ma l’interpretazione di maggior favore la troviamo in questa pronuncia: "La guaribilità o reversibilità della malattia non sono requisiti richiesti dalla normativa vigente in tema di differimento dell’esecuzione della pena, per la cui concessione è sufficiente che l’infermità sia di tale rilevanza da far apparire l’espiazione in contrasto con il senso di umanità cui fa riferimento l’articolo 27 della Costituzione" (Cass. Pen. Sez. I, 1994, Conti).

Da segnalare come l’infermità psichica non rientri tra i motivi del possibile differimento della pena. Quando l’infermità è accertata nel processo l’imputato viene prosciolto per vizio di mente e, invece della condanna, subisce l’internamento nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario; se un condannato impazzisce durante la detenzione (o rende manifesta una malattia mentale preesistente) l’aspetta comunque il "ricovero" forzato in un O.P.G..

Questa differenza deriva dalla presunzione che la malattia fisica, indebolendo una persona, la renda meno pericolosa per la sicurezza sociale e che, invece, la malattia mentale rappresenti un elemento di maggior pericolo: quindi il "criminale pazzo" va sorvegliato meglio del "criminale sano di mente".

 

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