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L’informazione giornalistica sulle morti in carcere Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose
"I detenuti sono uomini, non numeri". Forse questo è un pensiero poco originale, sono in tanti che lo ripetono… e qualcuno ci crede anche. Poi sfogli una rassegna stampa sul carcere e trovi molti articoli che sembrano proprio note contabili: c’è il numero totale dei detenuti, di quelli che sarebbero di troppo rispetto alla "normale capienza", degli stranieri e dei tossicodipendenti, per finire con gli autolesionisti ed i morti suicidi. Questa catena di cifre ricorda tanto le cronache di guerra, con le dimensioni degli eserciti, dei "corpi speciali" di combattenti e, infine, con il bilancio di morti e di feriti. La propaganda bellica si cura di far apparire i nemici come semplici quantità numeriche e, allo stesso tempo, di umanizzare i propri soldati, riprendendo la loro partenza - tra abbracci, baci e lacrime -, magari mostrandoli mentre soccorrono gente bisognosa, mentre pregano o giocano a carte. Allora, il parallelo con l’informazione "dall’interno" potrebbe avere un senso parlando di lotta alla criminalità, piccola e grande, con la contrapposizione tra le forze benigne mobilitate dalla società civile ed i delinquenti, disumani e disumanizzati. Occupandoci di carcere, cioè di un momento nel quale la "guerra" è terminata e bisogna ricostruire una qualche occasione di riscatto per chi era un nemico ed ha smesso di esserlo, non dovrebbe più esistere la distinzione tra le persone che hanno un nome e un’identità e quelle che sono rappresentate da un numero, magari inserito in una statistica di portata nazionale. Sembra, invece, che questo non avvenga quasi mai e basta ripassarsi qualche articolo sui quotidiani per averne la controprova. I casi sono due: chi finisce in galera rimane per sempre nemico (quindi indegno di essere rappresentato come persona), oppure il ricorso alla contabilità è la maniera meno impegnativa per scrivere del carcere… basta prendere qualche dato dal sito internet del ministero… le cifre sono grosse, fanno impressione, ed è risaputo che la gente cerca cose impressionanti. Il problema è che i dati sono sempre gli stessi (con qualche variazione verso l’alto), l’emozione che possono dare passa in fretta e, con l’abitudine, presto si trasforma in perfetta indifferenza. La sensibilizzazione della società riguardo agli emarginati, al carcere e alla devianza, è un’impresa faticosissima, anche volendoci mettere tutta la professionalità e l’inventiva possibili. Figurarsi se l’impegno si limita all’indispensabile, se ci si accontenta di "riempire la pagina" rimasticando sempre gli stessi concetti, magari giustissimi, ma talmente logori che ormai annoiano anche noi detenuti, che pure siamo i diretti interessati. In questo modo chi non è detenuto, parente o amico di detenuti, volontario od operatore penitenziario, legge del sovraffollamento delle carceri come potrebbe leggere della migrazione delle oche canadesi… non gliene frega niente, in pratica! Ripassiamo anni di rassegna stampa sul carcere per raccogliere notizie e commenti sui cosiddetti "eventi critici" in ambito penitenziario: i suicidi, le morti per malattia, gli autolesionismi, etc… Molti articoli, anche di opinionisti intelligenti, anche di politici e operatori in gamba, sono pressoché identici a quelli che gli stessi hanno scritto nel infinite volte in occasioni simili: è vero che i problemi non sono tanto cambiati, però è anche vero che così l’informazione perde di vivacità (necessaria per cercare di coinvolgere i lettori) e l’analisi socio-politica del fenomeno fa ben pochi progressi. Non se la cavano meglio i redattori della cronaca, anche qui con alcune – poche – eccezioni. La fonte privilegiata della notizia – spesso l’unica – è la direzione del carcere, che di solito trasmette uno scarno comunicato nel quale si preoccupa soprattutto di difendere il lavoro svolto dagli agenti, "prontamente accorsi per soccorrere il detenuto", dai medici "chiamati d’urgenza" che "si sono prodigati per salvargli la vita" e dagli altri operatori che "lo seguivano costantemente". Sono loro i veri protagonisti dell’articolo che compare sui giornali: tante volte non c’è nemmeno il nome del detenuto morto (per suicidio o per malattia).
Ritorna quindi la regola della spersonalizzazione del "nemico" e in più i cronisti aggiungono, di propria iniziativa, un giudizio morale sull’accaduto, spesso senza conoscere la storia che c’è dietro: così il suicida si è "arreso", "non ha retto il peso della propria colpa", e via di questo passo… dunque non solo era cattivo, ma anche codardo! In qualche articolo traspare anche una specie di delusione perché il morto non potrà più scontare la condanna ricevuta, oppure perché si è sottratto al processo, impedendo così "l’accertamento della verità". Un perbenismo assurdo, che ha spinto Adriano Sofri a scrivere, con amara ironia: "Vorrei tornare su questa vergogna delle evasioni. Nell’ultimo mese sono evasi tre da Rebibbia e uno da Milano Opera. Gente all’antica, con lenzuoli annodati. (…) Ma la forma di evasione più diffusa e subdola, perché si maschera in modo da essere ignorata nelle statistiche criminali, è il suicidio. Un centinaio di delinquenti all’anno se ne vanno così, a volte anche loro con le lenzuola dell’Amministrazione. È ora di dire: basta!". (Il Foglio, 2 gennaio 1999)
Trascritte fedelmente le notizie diffuse dell’Amministrazione penitenziaria e aggiunti i propri apprezzamenti, il terzo passaggio, nella costruzione dell’articolo sulla morte di un detenuto, è quello di rovistare nella cronaca nera e giudiziaria per ricostruire le circostanze del suo arresto e del processo (se è già stato celebrato): spesso la parte più consistente del "pezzo" è costituita proprio dal resoconto delle indagini e degli atti processuali. Soprattutto nei giornali locali si citano i nomi dei carabinieri, dei giudici, degli avvocati e dei periti. Sulla vita del detenuto morto non viene scritto quasi nulla (tranne i precedenti penali, spesso elencati con diligenza: se era incensurato lo deduci dall’assenza di questo riferimento), forse perché non si hanno elementi, oppure perché si pensa che non importi a nessuno. Eppure sarebbe possibile dare queste notizie in modo diverso: circa il 10% degli articoli esaminati nella ricerca sono costruiti con maggiore attenzione, attingendo a fonti diverse, introducendo ipotesi ed interrogativi, a volte anche sollevando dei dubbi sull’attendibilità delle versioni ufficiali. Un risultato che deriva, di solito, dall’interessamento dei famigliari del detenuto morto, più raramente da quello di un rappresentante del volontariato, o di qualche politico. Come a dire che, chi non ha una rete di sostegno all’esterno, può tranquillamente scomparire senza che la notizia esca dalla cerchia degli addetti ai lavori. Un marocchino si è impiccato a San Vittore… forse era tunisino… aveva tanti "alias"! E la sua famiglia, se ne aveva una, da qualche parte nel nordafrica, non saprà mai che fine ha fatto. Il 10% di articoli "buoni" sono pochi, però stanno a significare che nelle varie redazioni c’è anche chi capisce l’importanza di raccontare il vissuto di una persona - quali che siano le sue colpe - per far riflettere i lettori, per aiutarli a capire (semmai gli interessi) i motivi di un suicidio o di uno sciopero della fame protratto fino a morirne. Sul versante opposto, invece, c’è il rischio di trasformare la storia vissuta (e tragica) in una sorta di romanzo, insistendo di proposito sulle circostanze più dolorose per suscitare nei lettori sentimenti di pietà e di indignazione. In particolare nei giornali locali alcuni articoli "soffrono" chiaramente di un eccesso di pathos: il detenuto morto è chiamato con affettuosi nomignoli e il carcere diventa il Regno del Male, dove tutti congiuravano perché si uccidesse. Anche questo tipo di informazione, a nostro parere, serve a ben poco: può strappare qualche lacrima alle persone più sensibili, però sposta l’attenzione dalla vera natura e dimensione dei problemi.
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