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Condannati dal governo a non avere più assistenza
Liberazione, 4 maggio 2003
Aveva solo 20 anni, il ragazzo che si è tolto la vita l’altro giorno a Roma, nel carcere di Rebibbia. Era un immigrato del Marocco, pensava di uscire tra pochi giorni, e invece aveva saputo di un cumulo di pena che lo avrebbe costretto dietro le sbarre per un altro anno. Di fronte a questa prospettiva ha preferito togliersi la vita. Il suo gesto pare abbia coinvolto emotivamente un altro detenuto, che lo ha seguito nella tragica scelta. A Genova, due mesi fa, sono morte due persone detenute al carcere di Marassi: sono morte per Aids, nonostante le legge dica che il magistrato deve valutare caso per caso per stabilire le situazioni di salute incompatibili con il carcere. Avrebbero dovuto poter morire a casa loro, ma con l’aria che tira nella società e nel parlamento, neanche i magistrati di sorveglianza si assumono certe responsabilità. Le condizioni di vita in carcere da tanto tempo sono drammatiche, ma oggi si sono fatte disperate: il sovraffollamento disumano, già oggi non è più gestibile e tende a crescere ulteriormente per le politiche del governo. Il ministro Castelli ha stanziato soldi solo per costruire nuove carceri, che non si sa se vedranno mai la luce, ma nel frattempo ha tagliato tutte le altre spese. Così, il numero degli operatori sociali non garantisce neanche la normale amministrazione e la situazione sanitaria segna ormai l’allarme rosso: le strutture penitenziarie si sono visti diminuire i fondi del 50% almeno, e ognuno si arrangia come può. Qualche direttore esce dai vincoli di bilancio, rischiando in proprio. Qualcun altro prova a garantire un’ecografia trasportando il detenuto dalla Puglia a Roma: non avendo i soldi per pagarla in loco triplica le spese caricandole su un altro capitolo di uscita del magro bilancio; in generale tutti riducono o cancellano i farmaci. Le associazioni dei medici penitenziari lanciano allarmi, associazioni sociali o di avvocati ne discutono nei convegni: chiedono soldi, chiedono conto di una riforma sanitaria per il carcere rimasta a metà del guado; denunciano una situazione lavorativa degli infermieri penitenziari quasi totalmente precari e malpagati; cercano di portare fuori il grido di dolore di migliaia di persone cui non viene più garantito neanche l’antibiotico o l’antidepressivo. A tutto ciò, al caldo che esaspererà ogni problema, non bisogna dimenticare la pesante, insopportabile rabbia determinata dai mancati provvedimenti legislativi in materia di indulto o sospensione pena. Per mesi si sono gestite pacificamente forme di lotta in carcere, per mesi si è discusso con i parlamentari che andavano in visita per capire o criticare i testi in discussione. Per mesi ci si è illusi che questa volta qualcosa sarebbe stato fatto. Qualcosa, un atto di clemenza, una legge che facesse uscire qualche migliaio di persone, che facesse tirare un po’ il fiato. Non era certo la soluzione, tutti sanno che ben altri sarebbero i nodi da affrontare per garantire i diritti fondamentali previsti dalla Costituzione e dalle leggi, in termini di recupero e reinserimento sociale, ma il carcere è solo una realtà esasperata della società che c’è fuori. Anche fuori non vengono garantiti i diritti sociali e si moltiplicano le ingiustizie sul piano democratico: la guerra è solo l’aspetto internazionale di una stretta autoritaria che si consuma ogni giorno nei quartieri, è un modo di gestire le contraddizioni sociale e per questo si consolida in leggi liberticide. Tutto questo i detenuti lo sanno, perciò hanno imparato a non aspettarsi niente. Eppure, questa volta il papa era andato a Montecitorio a chiedere un atto di clemenza, tutti avevano applaudito e un iter legislativo era già in corso. Il presidente della Camera si era impegnato, le radio e le televisioni ne parlavano ogni giorno, persino i parlamentari di Rifondazione comunista, pur nella prudenza che il contesto politico suggeriva, cominciavano a sperare. Quanti carceri abbiamo girato, esaminando le singole situazioni! Giovanna ti chiedeva di farle i conti relativamente ai suoi anni da scontare, mentre Salvatore ti mostrava gli articoli per cui era stato condannato per capire se rientrava tra le esclusioni oggettive previste dal testo, persino gli agenti di polizia penitenziaria calcolavano il numero dei detenuti che avrebbero visto uscire. Una speranza crescente che si è presto trasformata in delusione e rabbia incontenibili. Il cosiddetto indultino deve ancora andare in aula al Senato, ma tutti hanno capito che non c’è niente da fare, che le elezioni alle porte non fanno che esasperare dubbi e contrarietà preesistenti in diverse forze politiche. Ci si dovrebbe chiedere come affrontare una situazione che col caldo dei prossimi mesi potrebbe diventare esplosiva. La nostra risposta è nel lavoro di ogni giorno: una presenza sempre più frequente dei nostri istituzionali negli istituti di pena, le battaglie quotidiane per strappare qualche stanziamento o iniziativa alla regione e ai comuni, una battaglia culturale che accompagna i confronti e gli scontri nelle aule parlamentari. Ma le agende del parlamento sono monopolizzate dalle urgenze legislative per i potenti, non c’è tempo, non c’è spazio per i poveri (perché la maggior parte è davvero povera) che stanno in galera. Per loro non ci sono più neanche le prime pagine, e quindi si sceglie la strada della stretta burocratica, di irrigidimento delle regole, che nelle ipotesi legislative di qualcuno si vorrebbe persino più "militarizzata". Ancora una volta è necessario investire nel movimento, nella lotta sociale, nella battaglia per i diritti di tutte e tutti: anche nella campagna referendaria per l’art. 18 possiamo lottare per il marocchino di 20 anni morto a Rebibbia o per il tossicodipendente di Marassi.
Tagli alla sanità penitenziaria: via farmaci e medici
Dopo il taglio, deciso dall’amministrazione penitenziaria, di oltre il 50% della spesa sanitaria, la situazione negli Istituti di pena diventa grave ovunque, ma in Campania lo è ancora di più. I tagli, infatti, sono ingenti: la spesa per i farmaci in Campania è passata dai 600mila euro del 2002 ai 250mila del 2003, con un taglio del 60%; quella per gli specialisti è di 151mila euro contro i 300mila dell’anno scorso. Il numero complessivo d’ore d’assistenza medica giornaliere è passato dalle 86 ore del 2001 alle 72 del 2003; le ore d’assistenza infermieristica sono 250, contro le 350 del 2001. Il dramma che questi tagli comportano sulla vita di detenuti e detenute si legge dal racconto del consigliere regionale del Prc Francesco Maranta che proprio ieri è entrato nel carcere di Secondigliano: "Ho incontrato detenuti in sofferenza e operatori sanitari pronti a battersi per difendere la dignità del proprio lavoro. I tagli governativi rendono la situazione difficile per entrambi". La vivibilità delle carceri, resa già pesante dal sovraffollamento, causato dall’inasprimento delle pene e dalle politiche repressive, con questi tagli si aggrava, dunque, ulteriormente. "Appare evidente che la decisione del governo e del ministero della giustizia rendono precarie le condizioni d’assistenza sanitaria negli istituti di pena. Così mentre gli operatori sanitari vedono contrarsi sensibilmente il loro reddito, i detenuti cominciano a soffrire la mancanza di farmaci e l’assenza di medici. Per i detenuti affetti da Hiv il ritardo nella somministrazione delle terapie accelera i tempi della malattia, così come per i reclusi affetti da patologie croniche". Secondo le stime della stessa amministrazione su 53mila detenuti presenti nel 2000, ben 37mila hanno bisogno di assistenza sanitaria continuata, ovvero l’85% della popolazione dietro le sbarre. In Campania, che con circa settemila detenuti è la seconda regione d’Italia per numero di detenuti, ci apprestiamo a vivere una situazione di estrema difficoltà. "Con questi numeri e tagli il governo, di fatto, organizza "la rivolta" negli istituti di pena. Quest’operazione rischia di far fallire il passaggio della sanità penitenziaria al servizio sanitario nazionale - denuncia il consigliere regionale del Prc -. Chiederò al presidente Bassolino e all’assessore regionale alla sanità, Rosalba Tufano, che le procedure di esecuzione del passaggio siano accelerate. Perché non è possibile che persone, già detenute, siano costrette a rinunciare al diritto alla salute".
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