|
Tra i dannati di Poggioreale "Così viviamo in 17 per cella"
Corriere della Sera, 30 luglio 2003
Nel carcere più affollato d’Italia. Oltre 2.000 reclusi, la metà in attesa di giudizio. A terra non c’è spazio per tutti. Anche per svegliarsi, bisogna fare i turni. Cinque scendono dalla branda, gli altri dodici aspettano, sdraiati e sudati. E intanto nella cella l’odore del caffè si mescola a quello delle feci, perché a Poggioreale cucina e latrina sono la stessa cosa, lo stesso ambiente: in un metro, la turca, separata da un ripiano per dentifricio e moka dal fornello a gas, in una stanza di dieci metri quadrati. Dietro a muri bassi di pietra e a tre portoni verdi nel cuore di Napoli c’è il carcere più sovraffollato e cadente d’Italia, una media di 2.350 detenuti per un penitenziario che ha una capienza tollerabile di 1.276 ("tollerabile" significa che in realtà i posti sarebbero 980, a stringersi se ne guadagnano 300). Lo specchio di un Paese che - dati del Consiglio d’Europa - ha una densità globale degli istituti di pena pari a 135 persone ogni cento posti disponibili, superato soltanto da Grecia (150) e Romania (143). In carcere le giornate si sentono dall’odore. E quello di Poggioreale è sempre lo stesso, la zaffata arriva anche all’ingresso dei raggi. Un odore di muffa, misto a sudore e miasmi da latrina. I detenuti ci vivono dentro, non se ne allontanano mai. Sono solo cento quelli che lavorano. Scopini, muratori, "spesini". La loro ricompensa è il domicilio al padiglione "Roma", il più vivibile, in celle da due, massimo cinque, e qui è un lusso che da fuori non è possibile capire. Gli altri non fanno niente. Si svegliano, escono dalla cella e si mettono in coda per lavarsi. Le docce sono venticinque in tutto, per 13 padiglioni (ognuno ha il nome di una città) e 400 celle. Significa che ogni detenuto si lava due volte alla settimana, non di più. Poi tornano dentro. "E facciamo i turni per stare in piedi sotto alla finestra, per prendere un po’ d’aria - dice Domenico Sannino, 31 anni, di Torre del Greco, 4 anni e 2 mesi per estorsione, fine pena ottobre 2005 -. Qualcuno si spoglia nudo e sta lì sotto a cercare una bava di vento, perché si boccheggia". Fuori, i loro familiari fanno anche loro la fila, sul marciapiede, sotto al sole, e poi in un corridoio stretto dove non si respira per il caldo. Arrivano alle 8, aspettano 4-5 ore per il colloquio. La riservatezza è garantita. Dal chiasso. La stanza per gli incontri con i familiari è una bolgia rovente, dove venti detenuti alla volta parlano (urlano, per farsi sentire) ai loro cari dall’altra parte del tavolo. Mancano gli spazi, e così c’è una sola ora d’aria al mattino e un’altra al pomeriggio (la media nelle altre carceri italiane è di quattro ore al giorno). Quasi ogni padiglione ha il suo cortile, ma sono tutti piccoli e stretti. Si può solo passeggiare fino al muro in fila indiana, voltarsi, e poi ricominciare. In certe aree un assembramento di quattro persone diventa intralcio per gli altri che deambulano. Non c’è nient’altro. Non ci sono sale per la "socialità", non ci sono laboratori, se - raramente - qualcuno viene a fare uno spettacolo teatrale, la recita si fa in una delle due chiese. I pasti vengono preparati in cella, la mensa è quasi deserta. Significa che il cibo viene conservato e cucinato in stanze bollenti dove convivono anche diciassette persone. L’unico svago è la televisione. Da tre anni, hanno messo quelle a colori, e i detenuti ne sono quasi orgogliosi, perché a Secondigliano - l’altro grande penitenziario campano - il mondo fuori lo vedono ancora in bianco e nero. Gli educatori sono dieci, ogni giorno in servizio ce ne sono cinque: uno per 400 detenuti. Gli psicologi sono ancora meno, e hanno turni giornalieri di 4 ore. La visita medica è prevista solo all’ingresso del carcere. Dopo, non c’è più nessun controllo sanitario, si interviene soltanto a richiesta. Un detenuto può stare anni senza essere valutato fisicamente. Salvatore Acerra sa bene che il suo non è il migliore dei carceri possibili. Lo dirige da 12 anni, ha attraversato stagioni ancora peggiori di questa. È un uomo dai modi gentili, parla con un filo di rassegnazione nella voce. "Faccio fuoco con la legna che ho", dice. "Nelle celle l’afa è atroce, e il sovraffollamento peggiora la situazione. Lei crede che non mi piacerebbe dare un senso sociale alla pena di questa gente? Avere laboratori, palestre? Ma tutti gli spazi possibili sono occupati. Tutti. Non c’è posto per uno spillo". Poggioreale è un vecchio malato terminale. Non può migliorare. Venne ultimato nel 1912, l’architetto che lo progettò si suicidò pochi mesi dopo. Nel piano originario, aveva previsto celle al massimo per sette persone. Da allora, non è stato aggiunto niente. Alla fine degli anni Settanta venne rubato un po’ di spazio ad un padiglione per costruire, nei sotterranei, l’aula bunker per i maxiprocessi. Una colonia di topi la prese a male, e ancora oggi dà testimonianza di sé nei cortili per le ore d’aria. Nel 1984 la Commissione antimafia chiese al governo un piano straordinario per risolvere la situazione di degrado. Non ottenne nulla e nel 1986 tornò alla carica: "Quel carcere è inabitabile e va chiuso". Marco Pannella - nel 1994 e poi nel 2000 - tuonò: "È una vergogna per l’umanità". In questi giorni la Camera penale di Napoli ha pubblicato un piccolo e bel libro (Il carcere dimenticato, edizioni Simone) sulla situazione dei penitenziari campani. A pagina 10: "Poggioreale rappresenta poi un caso a parte. Un vero inferno. Risulta difficile credere che si possa reggere una situazione del genere". Basta mettere una mano sul muro esterno di un padiglione per capire cos’è Poggioreale. Sono bagnati, fradici di umidità. Quasi tutti i detenuti raccontano dei pezzi di intonaco che periodicamente cascano loro sulla testa. Il colore dell’acqua che esce dai rubinetti e dalle docce è marrone, rugginoso. Dai tombini del "passeggio" esce puzza di fogna. L’amministrazione fa quel che può. In questi giorni è stato chiuso per restauri il padiglione "Avellino", e i suoi cinquecento detenuti sono stati spediti altrove. Il direttore aveva fatto presente che dirottarli nelle altre zone del carcere era fisicamente impossibile. La conta giornaliera di ieri si è fermata quindi a 1.629 "ospiti". Da settembre, come ogni anno, ricomincerà a salire. Quest’anno si è toccata la punta massima di affollamento a maggio, 2.476 persone nelle celle. Ma i "ritocchi" al carcere sono palliativi, perché anche le aree rimesse a nuovo nel 2001 sono già vecchie, piove acqua dai soffitti, ogni giorno i cessi si intasano, e le conseguenze, per chi accanto alle latrine vive (uno sull’altro), cucina e mangia, sono immaginabili. A sperimentare questa forma di "vita", sono anche e soprattutto dei "presunti innocenti". La metà dei detenuti di Poggioreale è infatti in attesa di giudizio. Quello che colpisce nei "definitivi" invece è il fatalismo. Non si aspettano niente, non sperano. Non si stupiscono. Francesco Della Ragione, 31 anni, napoletano, sta scontando sei anni per rapina a mano armata: "Qui dentro siamo assai, il problema è questo. Mancano le attività, e così il tempo non passa mai". Lui, a Poggioreale c’era già passato anni fa, altre rapine. "Una volta fuori - dice - mi sono sentito perso". Enzo Liguoro, 36 anni, uscirà nel 2009 dopo aver scontato una condanna per rapina e spaccio di droga. "Nella mia cella siamo in dieci. Non ti puoi nemmeno muovere - racconta -. Se si è in piedi, anche girarsi è un problema. Così, con questo caldo, si litiga, c’è nervosismo. Mi piacerebbe sfogarmi, ma nel passeggio non c’è lo spazio per giocare a pallone. Cosa sogno per il mio futuro? Una cella meno affollata, magari con sole altre due persone". Gennaro Cipolletta, 41 anni, è un privilegiato. In carcere fa quello che faceva prima di ammazzare "per futili motivi" un suo collega: il muratore. Vive al padiglione Italia, quello dei "lavoranti", il migliore. "Sono sempre a fare rappezzi e pitturare. La verità è che questo carcere non si può migliorare. Bisognerebbe buttarlo giù e rifarlo dalle fondamenta". Gaetano Costanzo, 36 anni, sta scontando undici anni per un reato più detestabile di qualunque altro, abusi sessuali su minori. Dice che sta male. "Mi piacerebbe un carcere nuovo per imparare qualcosa. Così è solo sofferenza. Vorrei che qualcuno mi aiutasse. In fondo, penso di averne diritto anch’io". Su un muro dell’ufficio fax di Poggioreale c’è un manifesto che si vede spesso nelle carceri. "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". È l’articolo 27 della Costituzione. Quando è stato promulgato, Poggioreale era già vecchio. Il ministro della Giustizia Giuseppe Grassi ne era cosciente: "È difficile che un istituto di pena funzioni quando è costretto a ospitare il doppio dei detenuti", scrisse in una nota al suo presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi. Era il 1947.
I numeri
I detenuti. In Campania i detenuti sono 6.841 (dato aggiornato al 31 dicembre 2002). La stragrande maggioranza sono uomini, il 96,4%. I più numerosi sono i reclusi che hanno tra i 30 e i 34 anni (1376). Tra i 18 e i 20 anni sono 136, tra i 25 e i 29 anni sono 1278 mentre gli ultrasettantenni sono 45.
Capienza. Nei 16 penitenziari campani la capienza regolamentare è di 4.826 posti, ma è tollerata una presenza superiore. In realtà il numero dei carcerati supera di gran lunga la soglia di tolleranza.
Le donne. Le detenute donne sono 248: 116 sono nubili, 91 sposate. La maggior parte (87) sono casalinghe, 62 sono disoccupate, 25 hanno un lavoro e 32 sono in cerca di un’occupazione. L’età. Il 19,7% dei detenuti campani ha tra i 30 e i 34 anni. Il 2,6% ha tra i 18 e i 20 anni, l’8,8% tra i 21 e i 24. Tra i 25 e i 29 sono il 17,3%, mentre tra i 35 e i 39 sono il 17,4%. Tra i 60 e i 69 anni sono il 2,9% e sopra i 70 sono lo 0,5%.
|