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I problemi della giustizia e delle carceri da "Rapporto sui diritti globali 2003" (Gruppo Abele - C.G.I.L.)
La giustizia non è uguale per tutti
Un anno vissuto pericolosamente. Lo scontro istituzionale fra i poteri dello Stato ha raggiunto nel 2002 il suo apice, dopo il famoso avviso di garanzia recapitato a Silvio Berlusconi a Napoli nell’oramai lontano 1994. Mai era successo che nello stesso anno fossero proclamati uno sciopero generale della magistratura contro il rischio di vedere minata la propria indipendenza e uno sciopero generale dell’avvocatura che non vedeva mantenute le promesse elettorali; che fosse approvata una legge con il dichiarato scopo di salvare un paio di imputati e che quella legge non producesse gli effetti sperati; che nascesse un movimento di indignazione popolare contro una giustizia non più uguale per tutti. La politica della giustizia è ostaggio di interessi di parte, che ne impediscono una riforma nel senso della equità, della efficienza, della efficacia. La giustizia è ormai da lungo tempo stretta, confinata in un vicolo cieco dalle corporazioni, dagli interessi di alcuni, da imputati eccellenti e dalle loro rappresentanze politiche e istituzionali. È un Paese strano, il nostro, dove un parlamentare sino ad allora sconosciuto - Melchiorre Cirami nel luglio 2002 sale alla ribalta delle cronache, provoca indignazione e proteste pur di inserire nel Codice di Procedura Penale (CPP) una nuova ipotesi di remissione processuale: illegittimo sospetto. Il senatore Cirami (dell’Udc) si rende infatti disponibile in piena estate a prestare il proprio nome a un disegno di legge che sembra, anche ai meno avvezzi, pensato appositamente per portare via da Milano i processi Imi-Sir/Lodo Mondadori e Sme. Nelle dichiarazioni pubbliche di molti esponenti della Casa delle Libertà (CdL) non si fa mistero che è necessario fermare in qualsiasi modo, anche attraverso vie legislative, i giudici milanesi, verso i quali vi è da parte degli imputati illegittimo sospetto che siano giudici politicizzati di parte. Dopo accelerazioni estive quanto meno sorprendenti, aule parlamentari aperte in pieno agosto, brusche frenate imposte dal presidente della camera, modifiche imposte dal presidente della Repubblica, il 7 novembre 2002 la cosiddetta Cirami diviene legge dello Stato. Il giorno dopo viene sospeso il processo a Milano nei confronti di Cesare Previti e Silvio Berlusconi e le carte vengono inviate alla Cassazione per decidere se trasferire il tutto in altra sede. "Aspetto le scuse dai miei detrattori, che per mesi e mesi mi hanno accusato di aver presentato un Disegno di Legge mirato per il processo di Milano". Questo è stato il commento di Melchiorre Cirami, a fronte della decisione presa dalla Cassazione il successivo 28 gennaio 2003 di lasciare il processo a Milano, in quanto "non vi sarebbe alcun rischio di condizionamento ambientale per il Collegio giudicante". Il 28 gennaio si è consumato pubblicamente uno scontro durissimo fra la maggioranza di governo e la magistratura. Uno scontro istituzionale che ha visto il coinvolgimento di ministri, componenti del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), deputati, procuratori, avvocati-parlamentari, giudici-parlamentari. Al "resistere, resistere, resistere" di Francesco Saverio Borrelli, ultimo grido di allarme del Procuratore milanese prima di andare in pensione, si contrappone la decisione del ministro della Giustizia, Roberto Castelli, di inserire in tutte le aule di tribunale la frase "La giustizia è amministrata in nome del popolo".
La riforma del Consiglio Superiore della Magistratura
Il 28 marzo del 2002 con la legge n. 44 il Parlamento approva alcune modifiche allo (0stiluzione e al funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura. Nella estenuante battaglia contro lo magistratura, questo volta lo CdL simbolicamente si occupa del CSM, riducendone il numero dei componenti da 20 a 16. È il primo passo, si dice, verso una riforma dell’ordinamento giudiziario. la magistratura, però, si compatta sempre più e lo stesso CSM elegge quale proprio vicepresidente Virginio Rognoni, di autentica e antica fede democristiana, che non risponde politicamente allo maggioranza di centrodestra. Rognoni, che durante gli anni del centrosinistra aveva ricoperto le funzioni di presidente della commissione diritti umani presso lo presidenza del Consiglio dei ministri, si immedesima subito in un ruolo di contrapposizione con chi, nello Casa delle libertà, attacca sistematicamente oramai tutte le toghe, senza distinguere fra quelle "rosse" e quelle "non rosse". Il tema della separazione delle carriere viene evocalo, utilizzalo come una clava nella discussione politica, ma non viene affrontalo con lo stessa decisione con cui si decide di occuparsi di legittimo sospetto, di rogatorie o di falso in bilancio. la sequenza delle priorità è evidente: prima ci si occupa dei propri affari giudiziari e poi del sistema giustizia nel sua complesso. Provvisoriamente accantonata l’idea di una riforma organica della giustizia, suscitando le ire delle Camere penali, speranzose di ottenere finalmente l’agognato risultato della separazione delle carriere, maggioranza e governo si sono concentrate a risolvere il broccio di ferro con quel che rimane del pool milanese per evitare condanne imbarazzanti per il presidente del Consiglio e per l’avvocato Cesare Previti. La giustizia è sempre meno uguale per tutti. Processi civili dalla durata imprevedibile e interminabile, processi penali a due velocità: lunghi e al limite della prescrizione per i più facoltosi, inesorabili e rapidissimi per i meno abbienti. Non ci sarà nessun extracomunitario che si avvarrà della garanzia processuale del legittimo sospetto, perché il suo difensore di ufficio nella migliore delle ipotesi punterà sul patteggiamento o sul rito abbrevialo. Il processo penale si va sempre più americanizzando. Le galere si riempiono di poveracci. Il doppio binario, che, agli inizi degli anni Novanta, indicava il doppio regime processuale per criminali ordinari e per criminali mafiosi, oggi sto ad indicare il doppio regime processuale classista. l’Italia è condannata con frequenza impressionante a Strasburgo dalla Corte europea per i diritti umani per lo lunghezza esageralo dei suoi processi civili e penali, per la durata ingiustificata dello custodia cautelare. Eppure se andassimo a chiedere a uno qualsiasi dei frequentatori abituali delle nostre carceri come funziono la giustizia italiana questi direbbe che nei suoi confronti è stata inflessibile, durissima, veloce. Il garantismo processuale di stampo anglosassone, a cui lo maggioranza berlusconiana si ispira, vale per chi ha i mezzi e le risorse per attivarlo, vale per gli imputati che possono scegliersi collegi di difesa qualificati. Si ferma, però, alle porte delle prigioni. Ne è prova una proposta di legge presentata allo Camera il 13 febbraio 2003 da un gruppo di parlamentari del centrodestra, fra cui l’indomabile Cirami e il presidente dello Commissione antimafia Roberto Centaro, che intende estendere la legittima difesa sino alla possibilità di sparare al ladro nel proprio domicilio anche se questi è disarmalo. In questo modo è finalmente esplicitato l’idea garantista di chiara matrice americana dello CdL la vita vale quanto la proprietà privata. Il ladro va punito, sparato, ferito, forse ucciso. Se si salva, ed è ricco, potrà invocare illegittimo sospetto. Ma questo è soltanto una rara eventualità.
500.000 persone a Piazza San Giovanni a Roma si sono auto - convocate per protestare contro una idea privata e privatistica di giustizia. Un movimento di indignati, che si era incontrato mesi prima al Palavobis a Milano, e che il14 settembre 2002 a Roma ha visto la sua esplosione pubblica e popolare in un’imprevedibile manifestazione di massa. L’oggetto dell’indignazione che muove il "movimento del Palavobis" è arci-noto: il desiderio di impunità di un gruppo politico-aziendale che ha nel presidente del Consiglio il suo riferimento. Accusati di giustizialismo da destra, guardati con diffidenza da sinistra, i "girotondini" si sono comunque conquistati uno spazio politico. Quando oramai si riteneva che nello scontro Berlusconi-giudici milanesi la partita del consenso fosse definitivamente vinta dal primo, è rinato un moto di protesta, di indignazione, contro l’idea di giustizia che emerge dai provvedimenti del governo Berlusconi. La gente che era a San Giovanni e che ha circondato i palazzi di giustizia si è occupata di un lato della medaglia: i privilegi di alcuni imputati eccellenti che mettono a rischio l’habeas corpus, il principio del giudice naturale precostituito per legge, l’indipendenza della magistratura.
Processi in corso, processi conclusi, inchieste strane, inchieste mai nate
L’autunno del 2002 è stata una stagione intensa, fra sentenze clamorose, inchieste strane, processi sospesi, processi mai nati. A un certo punto si è assistito a un coro unanime di dissenso verso una magistratura che con troppa disinvoltura nel giro di pochi giorni condannava il senatore a vita Giulio Andreotti a 24 anni di carcere e incarcerava un gruppo di "disobbedienti" accusati di vecchi e desueti, ma mai abrogati, reati di opinione. Cosenza e Perugia. Ma anche Milano e Genova. A Milano, Previti e Berlusconi sembrano operare affinché il processo non si chiuda con una sentenza. A Genova si procede nei confronti del presunto "blocco nero", che nel luglio 2001 durante la protesta contro il G8 si rese responsabile di violenze e devastazioni, e si chiede contestualmente una rapida archiviazione per il carabiniere accusato dell’omicidio di Carlo Giuliani. Il 19 ottobre 2002, all’inizio della sua requisitoria, il PM Ilda Boccassini chiede 13 anni di carcere per Cesare Previti nell’ambito del processo Imi-Sir/Lodo Mondadori. L’8 novembre vengono emessi 6 avvisi di garanzia ad altrettanti poliziotti nell’ambito dell’inchiesta per le violenze seguite alla irruzione nella scuola Diaz a Genova. I poliziotti indagati salgono complessivamente a 19. Le accuse sono: lesioni personali gravi, falso e calunnia. Fra gli indagati il capo della squadra mobile di Roma Vincenzo Canterini, il capo del Servizio Centrale Operativo (SCO) della polizia Francesco Gratteri, il dirigente della Divisione Investigazioni Generali e Operazioni Speciali (DIGOS) della polizia di Genova Spartaco Mortola. Il 15 novembre parte inaspettatamente da Cosenza un’offensiva giudiziaria clamorosa nei confronti del movimento no global. Venti esponenti della rete no global meridionale e dell’area antagonista vengono arrestati di notte e portati in carceri lontane dalle loro città di residenza, come se fossero pericolosi terroristi. L’accusa rievoca gli anni Settanta: associazione finalizzata al sovvertimento dell’ordine costituzionale e propaganda sovversiva. Due giorni dopo, i giudici della Corte d’appello di Perugia condannano Giulio Andreotti a 24 anni di carcere per essere il mandante dell’omicidio di Mino Pecorelli. In 368 pagine sono contenute le motivazioni di una sentenza che fa scalpore e che riguarda un fatto avvenuto 23 anni prima. Le dichiarazioni del pentito Tommaso Buscetta vengono ritenute di "insuperabile valenza probatoria". Il 25 novembre 2002 il processo Imi-Sir /Lodo Mondadori viene sospeso in attesa della decisione della Cassazione in base alla legge Cirami. Il 3 dicembre il Tribunale del riesame di Catanzaro rimette in libertà 18 dei 20 no global. Due erano stati precedentemente scarcerati. Vengono definite insussistenti le esigenze cautelari. Il 4 dicembre il Giudice per le Indagini Preliminari (GIP) di Genova dispone 23 ordinanze di misure cautelari nei confronti di manifestanti accusati di devastazione e saccheggio durante i giorni del G8. Non viene contestato il reato associativo. Il 28 gennaio 2003 la Cassazione respinge la richiesta di legittimo sospetto e rinvia gli atti del processo Imi-Sir/Lodo Mondadori a Milano. Sempre in questi mesi, la Procura di Genova chiede l’archiviazione per il carabiniere Mario Placanica accusato di avere ucciso Carlo Giuliani, mentre a Napoli procede molto lentamente l’inchiesta sui 21 poliziotti accusati di violenze, maltrattamenti e abusi durante le manifestazioni del marzo 2001 in occasione del Global Forum. In questa sequenza di arresti, condanne, scarcerazioni, sospensioni, interrogatori, è difficile recuperare un’idea di una giustizia convincente, mite, rassicurante. Poliziotti e politici sembrano spesso andare alla ricerca dell’impunità; sovente le condanne arrivano quando nessuno più si ricorda chi è stato ammazzato; il dissenso, attraverso imputazioni desuete e repressioni di piazza, viene perseguito, maltrattato, imprigionato.
La contestazione dei giudici cosentini a carico di Francesco Caruso e degli altri 19 esponenti del movimento meridionale richiama gli articoli 270 e 272 del Codice Penale (CP), l’associazione e la propaganda sovversiva. Reati per i quali sono previste pene edittali molto alte, nonostante prescindano del tutto da ogni azione concreta. Vengono insomma perseguite le idee delle persone, le loro convinzioni, le loro organizzazioni. Anche se nessuna rapina, nessun omicidio, nessun reato comune è stato commesso, programmato o tentato. La criminalizzazione del dissenso è stata sempre una preoccupazione dei regimi autoritari. Per questo il codice Rocco del 1930 vi ha dedicato un intero capitolo (il Titolo I del secondo libro del Codice Penale). Il regime fascista, attraverso ipotesi delittuose che facevano e fanno a pugni con il principio di legalità, di determinatezza della fattispecie di reato e di offensività cercava di anticipare, ben prima della stessa fase del tentativo, la punibilità di azioni e pensieri del dissenso politico. Quel codice non solo non è mai stato integralmente e radicalmente riformato, ma, nella parte relativa ai reati contro la personalità dello Stato, ha trovato nuova linfa alla fine degli anni Settanta, quando - di fronte alla "madre di tutte le emergenze", quella contro le organizzazioni che praticavano la lotta armata - sono state introdotte nuove ipotesi criminose, sono state innalzate le pene e soprattutto è stata rinvigorita l’idea di fondo del codice fascista, ossia la perseguibilità dei reati di opinione- Sfogliando un qualsiasi Rapporto annuale di Amnesty International si scopre che in varie parti del mondo, dalla Cina all’ex Birmania, dall’Iran alla Turchia, il dissenso politico viene imprigionato, ora nell’interesse superiore del partito al potere, ora del regime militare, ora della rivoluzione islamica, ora dell’integrità territoriale. La retorica del post 11 settembre, la nuova emergenza planetaria dettata dall’Amministrazione Bush, ha portato a generali irrigidimenti di normative, a direttive comunitarie che estendono la definizione di terrorismo in modo improprio, a nuove ipotesi delittuose l’art. 270 ter), a cooperazioni giudiziarie che non garantiscono i diritti minimi delle persone accusate, alle torture di Guantanamo. Solo 15 anni fa erano ben altre le prospettive. Dopo la legge Gozzini del 1986 sembrava che si fosse sulla strada di una soluzione politica per i reati commessi nella stagione degli anni Settanta, e quindi da più parti si chiedeva di rivedere anche quella sezione del codice Rocco relativa ai reati di opinione e ai reati contro la personalità dello Stato, al fine di restituire al Codice Penale una connotazione di ordinarietà, per evitare che i teoremi giudiziari potessero nuovamente portare a incriminare parti di movimento come sovversive o ricorrere alla categoria dell’eversione. Quei reati sono ancora lì, a uso e abuso di una magistratura, come si è visto a Cosenza.
L’ipertrofia del sistema penale
Alla dismissione progressiva delle politiche di welfare è parallelamente corrisposta una crescita esponenziale dell’area del controllo penale. Alla data del 31 dicembre 2002 i detenuti erano circa 57.000. Oltre 35.000 le persone in esecuzione penale esterna. Almeno 70.000 coloro che hanno vista la propria pena sospesa in applicazione della legge "Simeone - Saraceni" e che attendono una decisione definitiva della magistratura di sorveglianza, che chissà se e quando arriverà. Sommando a questi numeri coloro che sono agli arresti domiciliari e sottoposti a misure di prevenzione, si superano le 200.000 persone assoggettate a controllo penale. Il sistema penale, soprattutto attraverso il carcere, seleziona i suoi utenti principalmente fra gli stranieri, i tossicodipendenti, i senza lavoro, gli scarsamente alfabetizzati.
Allarme tossicodipendenti nelle prigioni europee
Più del 50% dei detenuti nelle prigioni dell’UE ha fatto uso o consuma sostanze stupefacenti: lo afferma uno studio dell’European Monitoring Cenfre for Drugs and Drugs Addiction (EMCDDA), l’Osservatorio europeo sulle droghe di Lisbona, che lancia l’allarme sul fatto che almeno 180.000 reclusi fanno uso di droghe e "buona parte di essi ha seri problemi legati a questo tipo di consuma". "Il carcere non mette fine all’uso di stupefacenti, osservano in modo critico gli esperti UE - così come non risponde ai bisogni terapeutici degli utilizzatori di droghe". L’altro aspetto drammatico dell’elevato ricorso agli stupefacenti nelle carceri europee stigmatizzato dall’EMCDDA è "il tasso relativamente elevato d’incidenza dell’HIV, dell’epatite, della tubercolosi e di altre malattie infettive legale all’uso di droghe, che si riscontra nella popolazione carceraria". A destare particolare preoccupazione è soprattutto la tendenza al ricorso alle droghe registrata tra le donne. In generale, la percentuale dei detenuti dell’UE tra cui si registra il ricorso a droghe illecite varia, a seconda dei penitenziari e dei Paesi, dal 29% all’86%, e supera abbondantemente il 50% nella maggior parte degli Stati membri, la cannabis è la sostanza più utilizzata, ma è molta elevata (in alcuni casi intorno al 50% della popolazione carceraria) il consumo di eroina, la prigione si conferma come il luogo tristemente famoso in cui spesso avviene il "primo buco": fino al 21% dei detenuti tossicodipendenti che assumono droghe per via iniettiva ha cominciato a farla nel carcere stesso. la disponibilità di sostanze stupefacenti nelle carceri europee non sembra essere un problema: gli esperti dell’UE ritengono che "le droghe illecite sono facilmente reperibili, con una particolare facilità di accesso a cannabis, eroina e farmaci psicotropi (benzodiazepine). La disponibilità di sostanze stupefacenti da iniettare e la scarsa reperibilità di siringhe rappresenta un cocktail drammatico nella carceri, costringendo a una continua condivisione di aghi che è spesso alla base della trasmissione di malattie infettive. Il Rapporto dell’Osservatorio invita le istituzioni UE a elaborare nuove strategie di intervento e di assistenza, mettendo l’accento sulla necessità di valutare il fenomeno in tutta la sua estensione. Nel leggere le caratteristiche giuridiche ed extragiuridiche della popolazione detenuta si rileva che su 57.000 persone recluse, poco meno di un terzo è composto da extracomunitari, che la metà di questi proviene dai Paesi islamici, che un terzo è composto da persone con problemi di tossicodipendenza e alcol dipendenza, che i reati contro il patrimonio costituiscono il 25% della percentuale totale dei reati commessi dai detenuti, che i reati di mafia sono meno del 2,5% del totale dei reati commessi, che il 99,2% dei reati di mafia è commesso da italiani, che 19.000 detenuti circa hanno un residua pena inferiore ai 3 anni, che gli ergastolani che stanno effettivamente scontando l’ergastolo sono più di 800, che 15.595 persone detenute prima dell’arresto erano disoccupate, che 22.000 persone circa non hanno completato gli studi obbligatori, che oltre 17.000 detenuti hanno meno di 30 anni di età. Il diritto penale massimo si va lentamente a costruire, al di fuori d’ogni possibile riforma minimalista del codice Racco. Presso il ministero della Giustizia opera una Commissione per la riforma del Codice Penale presieduta da Carlo Nordio. Nel frattempo passano messaggi inequivoci per nuove penalizzazioni. I tassi di detenzione viaggiano verso l’alto, 100 detenuti ogni 100.000 abitanti. Nelle carceri italiane ci sono 16.000 persone in più rispetto ai posti - letto regolamentari.
Proteste nelle carceri, diritti a rischio
Il 9 settembre 2002 scatta la preannunciata e pacifica protesta dei detenuti. Sciopero del carrello, rifiuto del vitto dell’Amministrazione, rinuncia alla ora di aria, battitura di oggetti metallici contro le sbarre delle celle. La protesta contro il sovraffollamento e per un atto di clemenza si diffonde rapidamente in decine e decine di istituti penali. Una protesta dettata dalla difficoltà di convivere in troppi in spazi ristretti, insufficienti. L’Amministrazione penitenziaria prova a barare sui numeri sostenendo che la capienza tollerabile sarebbe di 59.000 unità, capace quindi di contenere i detenuti in esubero. Una capienza tollerabile, dato di per se strano e non attendibile, che nel giro di 6 mesi cresce di 11.000 posti nelle statistiche ufficiali senza che un solo carcere nuovo sia aperto. I misteri della matematica penitenziaria. Il dato della capienza regolamentare è invece ovviamente immodificabile, e resta di circa 42.000 posti - letto. Nelle carceri nuove accade che in celle pensate per una persona - 10 metri quadri compreso il bagno - vengono inseriti 1 o 2 letti in più, 3 metri quadri a persona. La III Sezione della Corte europea dei diritti umani nella sentenza Kalashnikov contro la Russia, del 15 luglio 2002, ha sostenuto che vivere in meno di 3 metri quadri costituisce ipotesi di trattamento inumano, crudele o degradante. E in questi spazi angusti si è costretti a starci spesso sino a 20 ore al giorno. In molte case circondariali italiane, infatti, le ore fuori dalla cella per il passeggio all’aria aperta e la cosiddetta socialità non sono mai più di quattro. Il resto della giornata viene trascorso fra quattro mura, davanti alla tv. Le prospettive di un trattamento finalizzato alla risocializzazione sono ben lontane dall’avverarsi.
L’inchiesta sui pestaggi al San Sebastiano
Il 27 marzo 2000 i detenuti del carcere San Sebastiano di Sassari iniziano una protesta pacifica rumoreggiando con le sbarre delle celle a mezzanotte meno un quarto. Battono con le posate sulle grate, danno fuoco alle lenzuola, fanno esplodere le bombolette di gas. La protesta segue quello dei direttori. A causa del loro sciopero, infatti, i detenuti sono lasciati senza viveri del "sopravvitto" e senza sigarette. Il 10 aprile del 2000 viene organizzato uno sfollamento generale dei detenuti da trasferire in altri istituti dell’isola. Durante la traduzione una trentina di detenuti vengono brutalmente picchiati. I parenti protestano. Scattano le prime denunce, l’associazione Antigone il 18 aprile 2000 incontra i vertici dell’Amministrazione penitenziaria. Il 20 aprile le madri dei giovani detenuti picchiati organizzano una fiaccolata. Il 3 maggio la Procura emette 82 provvedimenti di custodia cautelare, di cui 22 in carcere e 60 agli arresti domiciliari. Vengono coinvolti il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, la direttrice, il medico, il comandante di reparto. Il 9 marzo del 2001 il sostituto procuratore presso la Repubblica di Oristano chiede il rinvio a giudizio per 95 fra agenti e dirigenti dell’Amministrazione penitenziario. 50 imputali chiedono il rito abbreviato semplice o condizionato. Il 21 febbraio del 2003 il Giudice per l’Udienza Preliminare (GUP) di Sassari condanna con il rito abbreviato l’ex Provveditore generale delle carceri sarde a un anno e sei mesi, l’ex direttrice a un anno, l’ex comandante degli agenti a un anno e quattro mesi, 10 agenti di polizia penitenziaria da quattro a sei mesi. Nove agenti verranno giudicati a seguito di rito ordinario, 48 gli assolti. Si tratta della più grande inchiesta per maltrattamenti nello storia delle carceri italiane. La pena detentiva si riduce a contenimento e punizione. Nelle carceri si ozia. Lavoro, formazione professionale, istruzione, sono diritti fondamentali e cardini del trattamento allo stesso tempo. Oggi, però, sono diritti di carta e sulla carta. Lavora circa il 25% della popolazione detenuta, spesso impegnato in attività di amministrazione domestica. Uno percentuale, fra l’altro, poco indicativa, perché essa include anche chi lavora a turnazione un’ora al giorno, un giorno a settimana, uno settimana al mese, un mese l’anno. La stessa denominazione delle qualifiche dei lavoranti è indice della scarsa possibilità di crescita professionale, in vista della futura liberazione; scopino, spesino, scrivano, portavitto. Chi assumerebbe mai una persona che nel suo curriculum, oltre ad avere la fedina penale macchiata, ha quale unica esperienza lavorativa significativa quella di scopino? Le lavorazioni industriali sono praticamente chiuse. Nel giugno del 2000, con la legge cosiddetta Smuraglia, c’è stato il tentativo di rilanciare il lavoro penitenziario intra moenia attraverso incentivi fiscali e previdenziali per le imprese disponibili ad assumere persone in carcere. Nella Finanziaria 2003 la legge ha avuto un’insignificante copertura finanziaria, tanto da depotenziarne gli effetti possibili. La formazione professionale vive degli umori, delle sensibilità, delle disponibilità delle Regioni. In una Italia a macchia di leopardo, accade che in alcune Regioni la formazione professionale in carcere sia sostenuta, mentre in altre Regioni non ve ne è traccia. L’istruzione si ferma spessa a quella obbligatoria o a corsi di alfabetizzazione primaria per gli extracomunitari. Il turn over dei detenuti, i trasferimenti continui da carcere a carcere, il numero basso di potenziali frequentatori di corsi di scuola secondaria sano le concause di un sistema di istruzione che stenta a decollare.
In questo contesto riparte una nuova campagna per un provvedimento di demenza. L’ultimo risale al 1990. Dopo la riforma costituzionale, che nel 1992 ha innalzato ai due terzi il quorum per la concessione del provvedimento di demenza, di amnistia e indulto non se ne è fatto più nulla. In occasione del Giubileo del 2000, anche grazie a una decisa presa di posizione della Chiesa cattolica, è ripartita una campagna nazionale per il provvedimento di demenza. I veti incrociati, il timore delle allora prossime elezioni politiche generali, l’enfasi mediatica sui temi della sicurezza, il fatto che fossero imputati Berlusconi e Previti, sono state le cause concomitanti di una mancata discussione in Parlamento del provvedimento. Il Papa che il 9 luglio del 2000 a Regina Coeli, durante il Giubileo dei detenuti, pregava per la demenza, ci riprova nel novembre del 2002 quando, invitato a Montecitorio davanti alle Camere riunite in sessione straordinaria congiunta, apre il suo solenne discorso richiedendo nuovamente umanità e demenza per i detenuti. I detenuti chiedono demenza, le associazioni chiedono demenza, i sindacati di polizia penitenziaria chiedono demenza, il presidente della Camera chiede demenza. Ed è proprio Pierferdinando Casini, che forzando i tempi e forzando la mano, impone rapide calendarizzazioni e procedure parlamentari snelle almeno sulla soluzione di ripiego, ossia la sospensione condizionata della pena per chi deve scontare meno di 3 anni. Il cosiddetto "indultino", idea creativa degli onorevoli Giuliano Pisapia e Enrico Buemi, non necessita di quelle maggioranze qualificate imposte dalla Costituzione per indulto e amnistia. Dopo mediazioni complicate, restrizioni e allargamenti, il provvedimento passa alla Camera il 4 febbraio 2003, nonostante la strenua opposizione di An e della Lega, ferme e coerenti su posizioni securitarie. Si fanno le prime proiezioni su quanti beneficeranno della sospensione condizionata della pena. Il detenuto deve avere un residuo pena di 3 anni e averne scontata almeno un quarto. Sono esclusi coloro che sono sottoposti al regime di sorveglianza particolare (art. 14 bis, ter e quater dell’Ordinamento penitenziario che definiscono la cosiddetta pericolosità penitenziaria), coloro che hanno commesso alcuni reati di gravità particolare (sequestro, traffico di sostanze stupefacenti, associazione a delinquere di stampo mafioso, prostituzione minorile, terrorismo e così via), i delinquenti abituati, professionali e per tendenza. Dunque, gli effetti deflativi vengono comunque giudicati assai scarsi. Ma nel giro di pochi giorni l’indultino al Senato ricade nelle sabbie mobili delle discussioni parlamentari e dei veti incrociati. Il 28 febbraio il premier Silvio Berlusconi pubblicamente dichiara inesistente un accordo politico sull’indultino o sull’indulto e rilancia un grande programma di lavori pubblici, e privati (?), carcerari quale antidoto al sovraffollamento.
Dal febbraio del 1997 Adriano Sofri è in carcere al Don Bosco di Pisa. Neanche l’anno 2002 è stato quello della grazia, lui non lo chiede, alcuni lo chiedono per lui, il ministro della Giustizia non trasmette le carte al presidente dello Repubblica, il presidente della Repubblica non decide. Nonostante lo stesso premier Berlusconi si sia pubblicamente espressa per la grazia, nulla è avvenuto. Un po’ di schermaglie pubbliche fra destra e sinistra intorpidiscono la discussione. Nel frattempo, Sofri presenta ricorsa alla Corte europea dei diritti umani, rinvenendo nell’assurda vicenda processuale che lo ha visto protagonista insieme a Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani una violazione delle norme della Convenzione del 1950 sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali relative all’equo processo. Lui chiede di presenziare all’udienza a Strasburgo, l’Amministrazione penitenziaria e la magistratura di sorveglianza si trovano nuovamente di fronte ad una situazione anomala. Ne escono negando tutto il possibile: no alla traduzione senza scorta, no alla traduzione con scorta, no al permesso per motivi di necessità con o senza scorta. Sofri, nonostante si sia liberamente costituito per ben 2 volte, nonostante non abbia mai chiesto misure alternative o permessi premio, viene ritenuto pericoloso, tanto da non consentirgli di assistere al processo che lo riguarda. Quel processo non gli cambierò lo condizione processuale, al massimo sarà fonte di risarcimento morale e economico. Una condanna dell’Italia, però, potrebbe essere altro argomento utile per riaprire il fascicolo della grazia. Un gruppo di parlamentari dei Ds e del Prc, primo firmataria Gloria Buffo, presenta un Disegno di legge che prevede lo riforma dell’istituto della liberazione condizionale e lo sua concessione a 20 anni dal fatto. Sofri è stato condannato 20 anni dopo l’omicidio del commissorio Luigi Calabresi. Nel frattempo, ha fatto il giornalista, lo scrittore, si è occupato di guerre, è stato sotto assedio a Sarajevo, ha vissuto in prima persona la tragedia cecena, la pena nei suoi confronti ha perso ogni connotazione risocializzante e assomiglia sempre di più a una vendetta.
Un programma di edilizia carceraria
A più riprese, prima il Guardasigilli, poi l’intera CdL in alcune mozioni parlamentari e infine il premier, hanno riproposto la vecchia ricetta della costruzione di nuove carceri per contenere una popolazione detenuta in crescita esponenziale. Il governo dell’Ulivo, con Piero Fassino ministro della Giustizia, aveva emanato un Decreto che prevedeva la chiusura di 21 carceri fatiscenti e lo stanziamento di 830 miliardi di lire per costruirne 22 nuove. "Lo stanziamento è stato distribuito nel lasso di tempo che va dal 2002 al 2004, con una particolare concentrazione nel 2004, anche perché i progettisti impiegano almeno un anno di lavoro prima di iniziare a costruire. Le prime ad essere pronte, secondo l’ordine di priorità stabilito dalla Commissione tecnica dei Lavori pubblici saranno Rieti e Marsala... Dobbiamo fare ricorso a iniziative private con contratti di leasing e permute. Abbiamo già intrapreso contatti in tal senso con le imprese. Nella legge Finanziaria del 2002 vi sono solo 20 miliardi di lire. D’altronde, al momento è inutile prevedere altri finanziamenti, visto che ci vorranno almeno altri 2 o 3 anni prima di poter attivare il leasing". Così Giovanni Tinebra, capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. In Italia gli istituti di pena sono 204, nei quali sono stipate 57.000 persone mentre la capienza regolamentare è di 42.000 unità. Ciò significa che gli istituti di pena italiani possono contenere in media circa 280 detenuti a prigione. Pertanto se oggi si volessero costruire carceri con queste caratteristiche utili a ospitare i detenuti in esubero, sarebbero necessarie nuove 57 galere. E siccome l’esperienza italiana insegna che ci vogliono fra gli 8 e i 10 anni per costruire e mettere in funzione un carcere, se anche si costruissero ben 57 prigioni nuove, fra 10 anni, con i tassi di crescita della popolazione reclusa, anche queste sarebbero insufficienti. A questo punto sembra quasi inevitabile che l’unica ricetta possibile sia quella americana: un sistema articolato di carceri federali, statali, private. Il leasing immobiliare e il project financing sono le soluzioni prospettate. Esse ridurrebbero probabilmente i tempi di realizzazione di un nuovo carcere, ma sono anche la via per consentire un primo ingresso dei privati nella progettazione e nella gestione di un carcere. "Privatizzare le carceri sarebbe una follia. Demandarne la gestione a soggetti diversi dallo Stato, in forza di una presunta migliore organizzazione e in nome di una supposta economicità dei servizi, non solo non è realizzabile nell’attuale sistema carcerario italiano, ma sarebbe una vera follia che determinerebbe un inevitabile calo della sicurezza e la delegittimazione del corpo di polizia penitenziaria". Chi parla è il segretario del Sappe, il Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria con chiare e esplicitate inclinazioni di destra. I tentativi di privatizzazione vivono di stop and go. Il presidente del Consiglio, al rientro da un viaggio in Cile, il 27 febbraio 2002, elogia il sistema delle carceri private cilene e annuncia di volere inviare alcuni economisti ed esperti per studiarne il sistema di privatizzazioni in corso. Il Paese sudamericano viene sorprendentemente prescelto per il modello carcerario da seguire. I sindacati frenano nel nome della conservazione, legittima, del posto di lavoro dei propri associati. E giusto un anno dopo, il 28 febbraio 2003, sempre il premier riparla di un nuovo grande piano di edilizia penitenziaria. Immediate e negative le reazioni dei sindacati che lamentano carenze di organico nei ruoli di polizia che renderebbero impossibile la gestione di nuove carceri. I 42.000 poliziotti penitenziari vengono ritenuti insufficienti. Nel frattempo prosegue la discussione parlamentare sulla devolution. E la sicurezza è uno dei terreni di scontro fra le forze politiche. La Lega vorrebbe devolvere alle Regioni le funzioni di polizia. Una norma costituzionale di questo tenore non escluderebbe a priori una frammentazione dei sistemi penitenziari. Tutto il 2002 e la parte iniziale del 2003 trascorrono fra dichiarazioni di intenti, proclami di nuovi imponenti lavori pubblici, previsioni di spesa edilizia carceraria nelle finanziarie: nulla però di significativo accade, se non la riproposizione mediatica della solita ricetta in stridente contraddizione con la logica e con quanto va predicando da anni il Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura (CPT) che, viceversa, spiega come il sovraffollamento non si contiene con la costruzione di nuove carceri ma con coraggiose politiche di decarcerizzazione e di depenalizzazione.
Il Comitato europeo contro la tortura racconta l’Italia
Il 28 febbraio del 2003, a tre anni dalla visita ispettiva in Italia, è stata pubblicato il Rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti crudeli, inumani o degradanti. La visita era avvenuta in altro contesto politico. Infatti, nel 2000 al governo vi era l’Ulivo. Ministro della Giustizia era Oliviero Diliberto. L’Italia, con forte ritardo, ha dato il consenso alla pubblicazione degli atti, che comprendono il Rapporto e la successiva risposta. Fra le questioni generali più rilevanti segnalare alle autorità italiane vi è proprio il sovraffollamento che produce, in talune circostanze e in alcuni istituti penitenziari, condizioni di vita al limite del trattamento inumano o degradante, ma anche l’assenza di un codice di condotta per gli interrogatori, il mancato riconoscimento del diritto delle persone arrestate ad essere visitate da un medico di fiducia. Tra le questioni specifiche rilevate, invece, vi è l’assenza di standard minimi di igiene nelle camere di sicurezza di alcune stazioni di polizia, l’uso della "schiaffo pedagogico" in alcuni istituti penali per minori, gli eccessi vessatori del regime del 41 bis, la mancanza di garanzie per i detenuti laddove operano i Gruppi Operativi Mobili (GOM), corpi speciali della polizia penitenziaria, il pessimo trattamento riservato agli immigrati nei Centri di permanenza e assistenza temporanea per stranieri. È dimostrato che laddove è stata scelta la via edilizia, il numero dei detenuti è andato progressivamente a crescere. Un esempio italiano è chiarificatore. A Milano vi era il solo carcere di San Vittore. Ed era costantemente sovraffollato. Così è stato costruito Opera. Si è poi sovraffollato anche Opera, ed è stato costruito Bollate. Tutto ciò mentre anche San Vittore e Opera continuano a essere al limite della propria capienza. E allora i detenuti arrestati a Milano vengono inviati a Monza, che diviene il quarto istituto penale milanese. Ma anche Monza è pieno, pertanto si progetta la costruzione di un nuovo carcere, questa volta in leasing. Così si potrebbe procedere all’infinito.
Vecchie e nuove, vere o presunte emergenze: terroristi, migranti e minori
Presunti affiliati ad Al Qaeda arrestati su e giù per l’Italia, le Brigate rosse (BR) che si riaffacciano tragicamente, vecchie e nuove mafie che si fronteggiano e si contendono Il primato, immigrati trattati come pericolo per la sicurezza interna. IL 19 marzo 2002 viene ucciso a Bologna Marco Biagi, giuslavorista, consulente del ministro del welfare, Roberto Maroni. Il delitto viene rivendicato dalle Brigate rosse. L’omicidio segue di poche settimane un attentato nei pressi del Viminale che non produce vittime e precede di quattro giorni l’oceanica manifestazione della CGIL a difesa dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Fra i due eventi esiste un nesso. Immediate le strumentalizzazioni e altrettanto immediati i tentativi di delegittimare lo sciopero e la manifestazione. Che viene reintitolata "per i diritti e contro il terrorismo". A oltre un anno dall’assassinio di Marco Biagi l’inchiesta non produce risultati significativi, alla stregua di quanto già accaduto per l’omicidio di Massimo D’Antona, rimasto ancora irrisolto. Le indagini procedono con difficoltà. Il 12 marzo 2003 un agente della polizia ferroviaria, Emanuele Petri, viene ucciso nel tratto Roma - Firenze dopo essersi imbattuto in una coppia di brigatisti, indagati per l’omicidio D’Antona, Mario Galesi e Nadia Desdemona Lioce (l’uomo muore nella sparatoria, la donna viene arrestata e si dichiara prigioniera politica), negli stessi giorni in cui il movimento per la pace, proprio in Toscana, organizza azioni di disobbedienza e di protesta contro la guerra in Iraq. Vittima indiretta delle Brigate rosse è il ministro dell’Interno Claudio Scajola che, in un colloquio giornalistico informale, si lascia andare ad improvvide e ingiuriose espressioni nei confronti del professor Biagi. Quella frase offensiva, e le reazioni che determina, costringe Scajola, il 3 luglio 2002, a inviare a Berlusconi una lettera di dimissioni. Al giuslavorista ucciso, peraltro, nonostante le minacce ricevute e i fondati timori di un attentato nei suoi confronti, era stata negata la scorta. Fatto che aveva poi determinato l’apertura di un’inchiesta e numerose polemiche. Se da un lato ricompaiono le BR, dall’altro a Bologna, Roma, Reggio Calabria e Napoli nascono inchieste contro presunte cellule di terrorismo internazionale filo Al Qaeda. Un gruppo di marocchini viene fermato e arrestato a Roma con quattro chili di ferro-cianuro. Un altro giovane marocchino viene arrestato a Reggio Calabria perché avrebbe pianificato una serie di attentati a Roma. A Bologna parte un’inchiesta contro presunte cellule di Al Qaeda. A Napoli vengono arrestati, e successivamente scarcerati, 28 pachistani accusati di organizzazione terroristica filo-islamica. E così via. Esiste un filo rosso che lega filoni incerti di inchiesta su cellule di AI Qaeda in Italia e la legge Bossi-Fini che criminalizza lo status di migrante, prevedendo un "quasi reato" di clandestinità e un sistema semi-automatico di espulsioni. Una nuova straniero-fobia invade gli uffici delle Procure e le Aule parlamentari: è questa l’emergenza del terzo millennio. I cittadini stranieri, a maggior ragione se islamici, in quanto aprioristicamente sospetti, vanno indagati e possibilmente espulsi. Nel 2002 s’inizia a discutere di 41 bis sin da aprile, quando Pietro Aglieri, in carcere per reati di mafia, scrive al Procuratore nazionale antimafia Piero Luigi Vigna proponendo un percorso di dissociazione. Ma non c’ è alternativa alla collaborazione con la giustizia. La dissociazione, prevista con legge per i soli terroristi alla metà degli anni Ottanta, non lo è per i mafiosi. Un ristretto gruppo di parlamentari di Forza Italia, Carlo Taormina in primis, chiede di tenerne conto e di rivedere la disciplina del 41 bis. A luglio del 2002, 300 detenuti per reati di mafia iniziano uno sciopero della fame per protestare contro l’applicazione nei loro confronti del regime di cui all’articola 41 bis, secondo comma, dell’Ordinamento penitenziario. I radicali sostengono le buone ragioni della protesta e parlano di "tortura democratica". I penalisti si lamentano di un regime al limite della tollerabilità costituzionale. Il regime del 41 bis viene previsto per la prima volta nel lontano 1992, all’indomani delle stragi palermitane, quale regime penitenziario duro, ma provvisorio, nei confronti di esponenti di rilievo della criminalità organizzata. Oggi vi sono sottoposte circa 600 persone. Il fine dichiarato della norma è quello di interrompere i collegamenti criminali fra l’interno delle carceri e l’esterno. Dopo una lunga discussione parlamentare, il 19 dicembre 2002 viene approvala uno legge che lo rende permanente e lo estende a terroristi e trafficanti di esseri umani. Nei giorni immediatamente successivi, compare uno striscione, nello stadio di Palermo, contro il 41 bis. Tutti si indignano, compreso il presidente dello Repubblica. Il 41 bis è un regime duro, con regole di vita quotidiana severe, le regole normali del trattamento penitenziario vengono escluse, i diritti vengono affievoliti, i benefici di legge vengono negati. Al colloquio con i parenti gli incontri avvengono con un vetro divisorio, non si ricevono pacchi, non si lavora, non si telefona ai parenti, lo posta è censurata. La Corte costituzionale ha correlato la legittimità del 41 bis solo alla durata limitala nel tempo di tale regime, in considerazione della sua eccessiva durezza. Permane quindi un dubbio su come la Consulta interpreterà le nuove norme e se esse supereranno il vaglio di costituzionalità. La discussione parlamentare sul 41 bis ha prodotto sorprendenti convergenze. La norma, da molti, è vissuta quale vera e propria "norma-manifesto" contro la mafia. La preoccupazione è che tutti, nuove generazioni mafiose comprese, possano avvantaggiarsi di norme simboliche slegate da tentativi aggiornati di colpire le cosche emergenti. La nuova mafia non è detto che non tragga vantaggi dalla cesura con lo vecchia mafia stragista, isolala e rinchiusa nelle carceri del continente, e dal fatto che l’attenzione pubblica e politica sia rivolta solo verso chi è già in galera. Le alleanze, a questo punto, divengono ancora meno intelligibili e meno facili da decodificare. Un altro pericolo incombente è ritenuto quello dei bambini e delle bambine devianti. Su iniziativa di governo e maggioranza si discute in Commissione giustizia della Camera la riforma della giustizia minorile civile e penale. A partire dai fatti tragici di Novi Ligure, del febbraio 2001, la questione dei minori devianti è divenuta la nuova emergenza da affrontare. Si intende modificare una legislazione penale e processuale definita troppo permissiva. I Disegni di Legge governativi vengono presentati agli inizi del 2002. Dopo qualche mese di pausa, a febbraio 2003 riprende la discussione parlamentare sui testi di riforma governativa e il 7 marzo 2003 il Consiglio dei ministri approva un emendamento al Disegno di Legge sull’Ordinamento giudiziario che, di fatto, cancella i tribunali dei minori. Le linee di riforma sono: sanzioni penali effettive per i minori, nuove ipotesi di custodia cautelare, trasferimento di minori che compiono 18 anni nelle carceri per adulti, revisione e, alla fine, vero e proprio smantellamento dei tribunali per i minorenni, netta separazione fra competenze penali e competenze civili, rinuncia ai giudici onorari esperti, istituzione di nuove sezioni "famiglia" presso i tribunali ordinari. La magistratura, non solo quella minorile, ha lamentato la totale mancanza di interlocuzione da parte del governo con gli operatori della giustizia che da anni si occupano di ragazzi devianti. I giudici minorili, e la stessa Associazione nazionale magistrati, si dichiarano indignati contro una decisione che, a 15 anni dal nuovo Codice di Procedura Penate minorile, senza tenere conto di dati statistici rassicuranti, di una criminalità in calo, di un modello innovativo e aperto molto apprezzato all’estero, impone passi indietro nel segno delta repressione. Il tutto senza tenere conto, come lamentano le associazioni che si occupano di infanzia, del superiore interesse del minore. Al centro delle critiche, soprattutto la decisione di eliminare gli psicologi, i criminologi, i neuropsichiatri infantili, i pediatri dai tribunali per i minorenni. Una involuzione contro corrente, che non tiene conto delle difficoltà relazionali di un ragazzo che delinque. "Non sono Torquemada: abbiamo voluto dare una stretta contro l’aumento della criminalità minorile" dice il ministro della Giustizia Roberto Castelli, in chiara posizione di difesa contro chi gli rimprovera eccessi repressivi. Ma i dati evidenziano il contrario e testimoniano un allarme che non c’è. Tra il 1991 e il 2000, arco di tempo significativo perché successivo all’entrata in vigore del nuoVo codice minorile, i minori denunciati sono diminuiti del 17,4%, gli omicidi commessi da minorenni sono diminuiti del 60,01% e i furti del 26,5%. In Italia, i minori denunciati rispetto al totale dei minorenni sono 10 volte di meno rispetto al Regno Unito e 7 volte di meno rispetto alla Germania. Infine, una contraddizione interna alla maggioranza. Nel Disegno di Legge governativo sui minori viene escluso il sistema della "messa alla prova", ritenuto troppo permissivo, per i reati di omicidio, associazione mafiosa, violenza sessuale, resistenza aggravata a pubblico ufficiale in occasioni di manifestazioni pubbliche. In altro Disegno di Legge, a cura, fra gli altri, degli onorevoli Sandro Bondi e Gaetano Pecorella di Forza Italia, si prevede l’estensione dell’istituto della "messa alla prova" anche per gli adulti, visto che, si legge nella relazione introduttiva, funziona molto bene nel sistema minorile. Se solo fra loro si parlassero.
Il 18 dicembre 2002 il governo lancia, Con una propaganda televisiva e stampa senza precedenti, la prima fase di una campagna sul poliziotto di quartiere. In 28 città, 500 fra poliziotti e carabinieri si vestono da bobbies, seguendo una antica ricetta anglosassone, per diventare "agenti di prossimità". Si tratta di una operazione, promossa nel nome della sicurezza, che vuole affrontare il crimine di strada e la cosiddetta criminalità diffusa tentando di dar vita a un nuovo rapporto fiduciario fra cittadini e tutori dell’ordine pubblico. Il 20 gennaio 2003 i poliziotti di quartiere divengono 900, le città interessate 52. L’obiettivo, dice il nuovo ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu, è di arrivare entro la fine del 2003 a 1500 unità che lavorano nel territorio stabilmente. Ogni arresto, ogni intervento del poliziotto di quartiere è segnalato con un pronto comunicato stampa. Dopo mesi e mesi di martellanti polemiche sulla giustizia, sembra che ci si voglia rifare una verginità con il tema della sicurezza urbana. Periodicamente, a partire da agosto, viene lanciata un’operazione notturna contro migliaia di immigrati in giro per l’Italia. Il 24 gennaio 2003 la settima fase dell’operazione "vie libere", dal titolo in equivoco, pensata contro prostitute e clandestini, porta alla espulsione di 1042 migranti e all’arresto di 1.040 persone. Berlusconi mette in stretta correlazione l’operazione "vie libere" con il poliziotto di quartiere. Inutile propaganda, dicono alcuni. Spreco di risorse verso obiettivi minimali, dicono altri. Il filo rosso che lega ambedue le iniziative è la ricerca del consenso sul tema della sicurezza. In effetti, proprio la sicurezza è uno dei pochi argomenti su cui la CdL continua a rivendicare una coerenza programmatica rispetto agli obiettivi iniziali del 2001. Si tratta ora solo di aspettare al varco chi ha costruito il programma chiedendo risultati e riscontri. Si tratta di verificare cosa elaborerà l’immaginario collettivo, rispetto a speranze inconsce di una vita più sicura nelle città grazie a poliziotti/conoscenti e conosciuti. Di certo, l’elaborazione di politiche di prevenzione, attraverso sperimentazioni di percorsi di partecipazione, di mediazione sociale e comunitaria, è estranea all’attuale cultura di governo. Ciò non impedisce che a livello territoriale si costruiscano meccanismi preventivi che rovescino l’ottica tradizionale. Per ogni poliziotto di quartiere, un Comune sensibile ad un welfare sostenibile dovrebbe assumere un educatore di strada e aprire un Centro di mediazione dei conflitti. In questo modo sarà ancora più facile smascherare gli effetti mediatici dell’operazione, trasformandola in un boomerang, per chi l’ha pensata. "Più sicurezza per tutti", assicurava in un imponente cartellone pubblicitario Berlusconi in campagna elettorale. Più diritti per tutti è stato il messaggio di un anno di lotte e di rivendicazioni dei movimenti. Al diritto alla sicurezza va contrapposta la più rassicurante e equa sicurezza dei diritti.
Il titolo sembrerebbe evocare un fumetto di Sturmtruppen o una conferenza delle Nazioni Unite sulla criminalità organizzata. Invece no! È stata una Fiera della sicurezza tenutosi a Firenze nella primavera 2002, con esposizione di tecnologie, armi e strumenti vari utili a difendere ma soprattutto a offendere. Non solo business ma anche tanta formazione. E allora ecco un seminario sulle tecniche di impiego dell’arma corta. E siccome dopo Genova è prevalsa la retorica dei diritti umani, ecco un corso riservato alle forze dell’ordine sulle tecniche di immobilizzazione e di accompagnamento. Uno spazio è stato dedicato alla "ronda" e al comportamento relativo dell’operatore della sicurezza privato nel confronto armato. Gli affari sono affari. E allora ecco che fra gli sponsor della Fiera vi sono Assosicurezza, Bancasicura, La Ronda - mensile di sicurezza e prevenzione, e lo Fijlkam, federazione italiana judo, lotta, karate, arti marziali. Mentre fra i partner scientifici spicca lo presenza dell’ANCI, l’Associazione Nazionale Comuni italiani, che forse intende fare asse comune con i privati per rompere il monopolio statale e centralista della gestione della sicurezza e dell’ordine pubblico. Il vecchio motto che affidava alla civiltà delle pene il metro della civiltà di un Paese sembra ampliarsi, nel dibattito pubblico di questa provincia dell’impero in cui ci capita di abitare, fino ad includervi l’intero sistema di giustizia. Dello scandalo delle nostre prigioni si soffre con alterna compassione, del destino del sistema di giustizia penale, delle sue previsioni penali e processuali, dei suoi presupposti ordinamentali e costituzionali, si discute quotidianamente, come fossero argomenti da "Bar sport". A essa, alla giustizia penale e al suo destino sembra affidato quello dell’intero Paese, delle sue rappresentanze istituzionali e di governo; deformazione ottica indotta dal curioso smarrimento, in questo Paese, di quel principio di legalità (del primato della legge generale e astratta) che dovrebbe sovrintendere, primo tra tutti, alle funzioni di governo della cosa pubblica. Ma tant’è. Questa deformazione e il suo speculare smarrimento fanno parte del nostro presente e non se ne può prescindere. Anzi, occorre prenderli, come il toro, per le corna, perché da essi - in gran parte - dipende l’agenda politica in materia di giustizia.
Domande di giustizia ed equilibrio tra i poteri
Non diversamente da altri Paesi, anche il nostro ha visto nel corso degli ultimi decenni crescere il peso del giudiziario nella risposta alle domande di giustizia dei cittadini, singoli o associati. La frontiera del riconoscimento dei diritti passa non solo per le statuizioni legislative, e da quanto verrà fatto in via amministrativa per dar loro effettività, ma anche dalla responsabilità dei singoli giudici chiamati a deciderne i confini e la forza nella decisione di casi concreti. Cresce l’affidamento nell’azione del sistema giudiziario e cresce il ricorso al giudice per la soluzione delle controversie private. Crescono, forse, le controversie tout court. Ne soffre la giustizia penale; ne soffre particolarmente il sistema della giustizia civile, costretto a carichi di lavoro che ne determinano la congestione e la frequente impossibilità di rendere giustizia in tempi ragionevoli. La Corte europea dei diritti umani condanna ripetutamente l’Italia per l’irragionevole durata dei procedimenti e soprattutto la giustizia civile si divide in due, tra il binario morto della giurisdizione ordinaria e le alternative privatistiche di composizione dei conflitti, chiamate in causa quando vi siano in ballo interessi rilevanti e soggetti forti. Dietro la litigation explosion c’è l’uno e l’altro, il nuovo ruolo del giudiziario accanto e oltre le tradizionali istanze di promozione e di tutela dei diritti, ma anche il ricorso al giudice come ancora di salvezza di una società che non ha più luoghi di mediazione degli interessi e di individui abbandonati alloro destino dal programmatico abbandono di ogni significativo legame sociale. In questo contesto, già da tempo e a prescindere dalla discesa nell’agone politico di Silvio Berlusconi, dalla formazione dei suoi due governi e dai programmi politici da essi perseguiti, la magistratura e la giurisdizione vivevano inediti problemi di equilibrio, di coerenza e di legittimazione della propria azione e del proprio ruolo. A essi si aggiunge oggi il più radicale dei conflitti di interessi di cui è portatore il presidente del Consiglio pro tempore, quello che vede frammiste e confuse le figure di massimo responsabile dell’indirizzo politico e di imputato, quello che porta ripetutamente a confliggere le responsabilità di capo del governo con gli interessi di imputato in procedimenti penali, e quindi il presidente del Consiglio con i suoi giudici, ergo la funzione di governo con quella giudiziaria. Come un macigno pesa sul futuro del sistema di amministrazione della giustizia questo macroscopico conflitto di interessi. Ne segna l’agenda politica delle riforme, in termini di priorità e in termini di contenuti. I tempi e il merito dei principali provvedimenti legislativi in materia di giustizia sono determinati dal conflitto d’interessi istituzionale del premier. Così è stato per la ratifica della Convenzione sulle rogatorie internazionali e per la riforma del diritto societario che ha consentito un’ampia depenalizzazione del falso in bilancio; così è stato per la riforma del sistema elettorale e della composizione dell’organo di autogoverno della magistratura e per la riforma processuale in tema di legittimo sospetto; così sarà per l’annunciata riforma dell’immunità parlamentare, per la riforma dell’Ordinamento giudiziario e per la revisione del Codice di Procedura Penale e la limitazione dei poteri del PM nella fase delle indagini preliminari. Negli atti e nei propositi, si sommano e si incrociano due filoni di iniziativa legislativa della maggioranza: uno, apertamente motivato dalla necessità di chiudere le pendenze giudiziarie del presidente del Consiglio; l’altro, volto a ridimensionare ruolo e poteri della magistratura e della sua parte più attiva. Nella retorica della Casa delle Libertà, il "caso Berlusconi" non è altro che t’emblema della malagiustizia (è lo stesso presidente del Consiglio che si assume pubblicamente t’onere della riforma del sistema della giustizia, perché altri cittadini non debbano subire quello che ha subito lui) e dunque le riforme ad hoc escogitate nella prima parte della Legislatura (rogatorie internazionali, falso in bilancio, legittimo sospetto, immunità parlamentare) nasceranno pure da occasioni contingenti, ma dal sintomo vorrebbero curare il male e senz’altro - si dice - daranno benefici erga omnes. È questa retorica della rivoluzione della giustizia a partire da un processo solo che apre la strada all’altro filone, quello che dalla riforma del CSM si dipana attraverso la proposta di revisione dell’Ordinamento giudiziario, per arrivare alla limitazione dei poteri del PM nelle indagini. La nuova giustizia ha bisogno che ne siano ridimensionati i protagonisti, a cui va ricordato sin dentro le aule di tribunale che la giustizia è amministrata in nome del popolo, sottintendendo che esso non può rappresentarsi altrimenti che attraverso la maggioranza espressa dalle elezioni politiche nazionali e la sua leadership. Non è facile prevedere in dettaglio quali potranno essere gli sviluppi futuri di un indirizzo politico di questo genere, e forse non è neanche necessario. L’indirizzo è chiaro, è grave emette a rischio dei capisaldi non solo del nostro sistema democratico, ma dell’idea di democrazia che lo sorregge. D’altro canto, il processo di coinvolgimento del giudiziario all’interno del più ampio sistema politico-istituzionale non potrà essere bloccato autoritativamente da un’ideologia paleo-liberale, e dunque reazionaria (non conservatrice, ma propriamente regressiva), che vorrebbe riportare la magistratura a essere bouche de lois, come aspirava Montesquieu, ancora alla ricerca del positivismo giuridico e dell’affermazione del principio di legalità, come se non fossero passati tre secoli da allora, come se di mezzo non ci fosse stato il costituzionalismo novecentesco e la critica dello stesso assolutismo della legge come espressione della volontà generale interpretata dalla contingente maggioranza politica. Un gruppo professionale, una corporazione, suoi singoli componenti possono essere minacciati e forse anche, in parte, irregimentati, ma la domanda sociale che al giudiziario si è andata via via rivolgendo (ripetiamo: non solo in Italia e da ben prima che scoppiasse Tangentopoli e fosse inquisito e poi eletto Berlusconi), quella domanda di giustizia non potrà essere repressa e l’opzione autoritaria dovrà contentarsi, se ci sarà riuscita, di aver salvato il proprio dominus dalle sue pendenze penali.
La dimensione sovrannazionale delle politiche della giustizia
D’altro canto, sotto molti profili, le prospettive del sistema giustizia si giocano fuori dal contesto nazionale. Non solo ci sono processi complessi, come quelli a cui abbiamo fatto riferimento poc’anzi, che non si possono non leggere in chiave comparativa per capirne la portata (e quindi per evitare soluzioni provinciali destinate a lasciare il tempo che trovano), ma anche sotto il profilo strettamente normativo, l’amministrazione della giustizia, una delle prime attribuzioni dello Stato moderno e una delle residue in tempi di Stato minimo (parte del suo care business, veniva definita dopo l’11 settembre sulle colonne de "Il sole 24 ore") non si gioca più solo dentro i confini statuali. C’è, in effetti, una linea di continuità tra le resistenze manifestate dal governo italiano in alcuni processi di integrazione normativa in tema di politiche della giustizia (le riserve sul mandato di cattura europeo e quelle sulla Convenzione in materia di discriminazione razziale) e il generale, sospettoso, atteggiamento dello stesso governo nei confronti del processo di integrazione e, da ultimo, nella elaborazione di una Costituzione europea. Il processo di integrazione europeo e l’adozione di una Carta costituzionale accentuerà, infatti, un percorso di reciproco adeguamento delle legislazioni nazionali che da tempo, da prima dei recenti casi citati, si è andato affermando, via via che il processo di integrazione continentale andava avanti. Anche qui vale quanto si è detto prima: il dettaglio del processo e dei suoi esiti è difficile da prefigurare, ma la tendenza è chiara. Per molti versi siamo già in un Ordinamento giudiziario integrato, seppure, accanto a punti di formalizzazione in stato avanzato, ve ne sono altri ancora molto fluidi. Certo è che un simile processo non si può ignorare, né troppo risolutamente contrastare, essendo effetto di processi reali di regolazione di ambiti di vita non contenibili entro i confini dei singoli Stati nazionali. Per dirla con una battuta, una ricodificazione del diritto penale passerà molto più probabilmente attraverso l’armonizzazione delle singole legislazioni nazionali dei Paesi dell’Unione europea che non attraverso il lavoro di revisione di una competente Commissione ministeriale.
Libertà e diritti fondamentali dopo l’11 settembre
Il contesto sovrannazionale non ha solo i suoi lati positivi, nella contestazione reale di ogni provincialismo. Attraverso la prospettiva globale maturano anche pericoli rispetto ai diritti fondamentali e al quadro di garanzie giuridiche poste a loro tutela. In uno dei Paesi che è stato la culla della riscoperta della emergenza nel diritto penale, dopo l’11 settembre è dal contesto sovrannazionale che giungono le più forti sollecitazioni a politiche sostanzialistiche nel diritto penale e di polizia. Dopo l’attentato alle Torri gemelle di New York, dall’altra parte dell’Atlantico è spirata una forte aria emergenzialistica, testimoniata da un dibattito pubblico in cui si è tornati a parlare della legittimità della tortura per l’acquisizione di notizie utili all’accertamento delle responsabilità in atti di terrorismo internazionale e culminata nel military order di George W. Bush, istitutivo dei tribunali militari speciali e del regime di detenzione di Guantanamo. L’Unione Europea e l’Italia ne hanno sentito l’aura (oltre che le espresse richieste di condivisione, giunte dagli Stati Uniti d’America) e si sono adeguate attraverso l’accelerazione del progetto di realizzazione del mandato di cattura europeo, l’adozione di una decisione-quadro sul contrasto normativo e operativo del terrorismo internazionale e quindi, nell’Ordinamento italiano, la previsione del nuovo reato associativo di terrorismo internazionale. Preoccupante è, salvo lo scandalo internazionale per le gabbie di Guantanamo, la diffusa e tranquilla accettazione della subordinazione dei mezzi ai fini in materia penale. In Italia, da tempo di discute della necessità di un provvedimento d’emergenza, un’amnistia e/o un indulto capace di ridurre celermente e drasticamente la popolazione detenuta; un provvedimento che possa aprire la strada ad alternative strutturali, normative e non, nelle previsioni penali e nelle politiche sociali. Già una volta, nel 2000, la prossimità delle elezioni politiche nazionali bloccò ogni seria intenzione, essendo tutti preoccupati di perder voti a far uscir di galera alcune migliaia di persone comunque agli sgoccioli della pena. È probabile che anche questa volta non se ne faccia nulla. L’amnistia e l’indulto già sembrano derubricati; l’indultino, ovvero, più propriamente, la sospensione condizionata della pena per i residui inferiori a tre anni, nonostante le pur vessatorie limitazioni, non sembra avere il vento in poppa. Il presidente del Consiglio, con un distacco da commentatore televisivo di avvenimenti sportivi, osserva che se va avanti così non se ne fa nulla e toccherà costruire nuove carceri. Ne parla come se il fatto non lo riguardasse. La politica della giustizia che lo interessa si ferma sulla soglia delle prigioni. In realtà, quella della soddisfazione della domanda di posti-letto penitenziari, attraverso la costruzione di nuove carceri è una prospettiva fittizia. Troppo spostata nel tempo (occorrono anni - dalla programmazione, alla progettazione, all’esecuzione - per costruire nuove carceri, ben più di quanti l’attuale governo è destinato a durare); troppo contingente per durare. Da tempo il Comitato europeo per la prevenzione della tortura raccomanda le alternative al carcere, piuttosto che la costruzione di nuovi istituti, per affrontare quel problema del sovraffollamento che costituisce una precondizione ideale per trattamenti inumani e degradanti. Se non s’interviene diversamente, nella riduzione delle previsioni penali arbitrarie e in politiche sociali efficaci contro la devianza e la recidiva, qualsiasi programmazione immobiliare sarà surclassata dai fatti che la seguiranno. Siccome una diversa politica criminale non sembra essere nelle corde di questo governo, sensibile solo ai diritti nel processo di chi ha i mezzi per difendersi, è facile prevedere che le prospettive, a breve, saranno altre. Tanto più che gravano in Parlamento e sul Parlamento nuove ipotesi di penalizzazione della marginalità sociale (si torna a parlare insistentemente di riforma - in senso maggiormente punitivo per i consumatori - della legislazione sulle droghe, incombe una riforma repressiva della giustizia minorile, il controllo coattivo si riaffaccia nella sofferenza psichica), c’è da aspettarsi piuttosto un’ulteriore espansione orizzontale del sistema di controllo sociale istituzionale. Accanto alle carceri e agli istituti penali per minori, all’esecuzione penale sul territorio, ai Centri di detenzione per stranieri, agli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, si faranno strada luoghi di ricovero e cura coatta per minori, pazzi, tossici e chi più ne ha più ne metta. Con la flessibilità congenita ad un sistema misto, pubblico e privato (sociale e non) potranno concorrere nell’ampliare le condizioni e le strutture per il controllo coattivo, autentico cemento sociale delle nostre insicurezze. Non sono prospettive allettanti, ma è quanto matura sotto la coltre dello scontro istituzionale: mentre si discute di un processo, e a causa di un processo, di norme processuali e ordinamentali, la macchina della giustizia continua a sfornare il suo prodotto in termini di sofferenza e controllo penale, con consenso e plauso diffuso. In assenza di alternative politiche, la pena e il carcere non mancano di sfruttare il loro enorme potenziale simbolico e di rassicurare chi non ha più la forza di lottare per la sicurezza dei diritti. Tutte le cifre del disagio penitenziario
Sovraffollamento
Al 31 gennaio 2003, nelle 205 carceri italiane erano presenti 56.250 detenuti, di cui 2.509 donne. Vi sono in totale 205 istituti, con una capienza di 38.878 uomini e 2.446 donne (totale: 41.324). Sui 56.271 detenuti al 30 giugno 2002, 32.893 erano definitivi, 11.949 in attesa del primo giudizio, 6.887 dell’Appello, 3.399 della Cassazione, 1.143 erano internati. La crescita è stata costante a partire dal 1990 (l’ultimo provvedimento di amnistia e indulto è stato nel 1990). Negli anni passati, alla data del 31 dicembre, i reclusi erano: 55.275 nel 2001; 53.165 nel 2000; 51.814 nel 1999; 47.811 nel 1998; 35.485 nel 1991; 29.113 nel 1990. Solo nel dopoguerra, il numero dei detenuti aveva raggiunto le cifre attuali: 58.402 nel 1949, 73.818 nel 1945. Ancora più alto rispetto ai detenuti presenti è il numero degli ingressi, ovvero delle persone che entrano in carcere nel corso dell’anno: 40.917 nel corso del solo primo semestre 2002; 78.569 (di cui 6.129 donne) nel corso del 2001. Nel 2000 erano stati 81.399 (di cui 6.519 donne), 25.323 in più del 1990, 6.469 in meno rispetto al 1999. Ben più sensibile è il numero di quanti vengono annualmente condannati ad una pena reclusiva: 160.702 nel 2001; 187.515 nei 2000; 188.423 nel 1999; 170.529 nel 1998; 157.272 nel 1997. La gran parte delle condanne è a pene inferiori all’anno di reclusione: 120.101 nel 2001, di cui quasi 10.000 a un mese o meno, quasi 30.000 a pene tra 1 e tre mesi, quasi 50.000 a pene tra 3 e 6 mesi. Gran parte di queste condanne vengono sospese, in ragione della lieve entità e dell’incensuratezza dei condannati o per altri benefici.
Raffronto con gli altri paesi
La densità globale degli istituti di pena italiani è pari a 129 persone ogni 100 posti disponibili. Nell’area europea il sovraffollamento risulta più grave solo in Grecia (158 detenuti per 100 posti), in Ungheria (156), a Cipro (154), in Romania (143). Decisamente migliore la situazione in Francia (97 detenuti per 100 posti disponibili), in Spagna (106) e in Danimarca e Norvegia (90 e 92), e persino in Russia (103). (Dati Consiglio d’Europa, Space 2001)
Misure alternative alla detenzione
Al 30 giugno 2002 in esecuzione penale esterna vi erano: 15.465 in affidamento in prova al servizio sociale; 5.298 in affidamento in prova per tossicodipendenti e alcoldipendenti; 8.720 in detenzione domiciliare; 2.919 in semilibertà. Nel 2001 le misure alternative concesse sono state: 14.454 casi di affidamento in prova; 1.835 di semilibertà; 7.476 di detenzione domiciliare; 873 libertà vigilate; 749 sanzioni sostitutive, per un totale di 25.387. Il totale delle misure concesse nel 2000 era stato di 22.470, nel 1991 di 5.665.
Condizione socio - culturale e lavorativa
Il 75,1% dei detenuti ha un grado d’istruzione dalla media inferiore in giù. Sui 56.271 detenuti in carcere al 30 giugno 2002, 14.044 avevano un’occupazione prima dell’ingresso in carcere, mentre 15.135 risultavano disoccupati e 1.583 in cerca d’occupazione (il dato non è stato rilevato per 23.874 detenuti). I detenuti lavoranti in carcere, al 30 giugno 2002, erano 14.355. Un dato ritenuto poco significativo, poiché molti lavorano a tempo parziale e a rotazione.
Suicidi
51 morti nel 1999, 56 nel 2000, 70 nel 2001.
Autolesionismo e tentati suicidi
Nel 2001: 6.352 gesti di autolesionismo e 878 tentati suicidi. Come a dire che 1 detenuto ogni 7, nel corso del 2001, si è procurato lesioni.
Detenuti stranieri, tossicodipendenti e malati
Stando alla "Informativa urgente del Governo su un documento riguardante la situazione nelle carceri", illustrata dal ministro della Giustizia alla Camera dei deputati il 3 ottobre 2002, i reclusi affetti da HIV sono almeno 1.401, di cui 192 con AIDS conclamata; circa 15.000 sono affetti da virus epatici; sono sempre più numerosi i soggetti con forti disagi psichici; un terzo della popolazione carceraria è costituito da persone tossicodipendenti. Al 30 giugno 2002, risultavano 15.698 detenuti tossicodipendenti, 856 alcoldipendenti, 1.552 in trattamento metadonico. Alla stessa data, i detenuti affetti da HIV erano 1.401 (di cui 145 donne): 885 asintomatici, 324 sintomatici, 192 affetti da malattie indicative di AIDS. Questi dati vengono ritenuti sottostimati, in quanto lo screening è volontario. Al 31 dicembre 2002 i detenuti stranieri erano 16.778, di cui 1.007 donne.
Edilizia penitenziaria
Numero e capienza delle carceri (al 24 luglio 2001): 202 istituti penitenziari; 24 case mandamentali; 6 Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Capienza regolamentare: 42.775 posti; Capienza tollerabile: 48.222 posti; presenze effettive: 57.843 detenuti. Nuovi istituti da realizzare (ai sensi della legge 388/2000): Pinerolo, Varese, Trento, Bolzano, S. Vito Tagliamento, Savona, Rovigo, Forlì, Camerino, Avezzano, Rieti, Paliano, Nola, Sala Consilina, Modica, Sciacca, Marsala, Lanusei, Oristano, Sassari, Tempio Pausania, Cagliari. Tali nuovi istituti andranno a sostituirne altrettanti considerati vetusti e inabitabili. Dunque, non aumenteranno la capienza complessiva. Risorse stanziate per il programma d’edilizia penitenziaria: 830 miliardi di lire nella Finanziaria 2001 - 2003. Ulteriori 93 milioni di euro sono stati stanziati, nel 2002, per la costruzione di penitenziari in leasing.
Costi economici della detenzione
Una ricerca della Commissione tecnica per la spesa pubblica del ministero del Tesoro (ricerca n. 5, maggio 1998), ha verificato che i costi medi annui per detenuto ammontano a 65 milioni, che diventano 73 con i costi indiretti (su cui pesano per l’11% i costi del comparto amministrativo) e che la composizione percentuale delle spese negli istituti vede un misero 1,4% sotto la voce "rieducazione" e un 12,4% per il mantenimento detenuti. Secondo più recenti calcoli del D.A.P., il costo giornaliero lordo per detenuto ammonta a 241.000 lire, vale a dire 87.965.000 all’anno e 7.330.000 al mese. Il bilancio preventivo dell’Amministrazione penitenziaria è di 4.862 miliardi di lire (dati Bollettino penitenziario del Ministero della giustizia al 31.12.2001).
Braccialetto elettronico
Introdotto nel gennaio 2001. Un anno dopo (cfr. Espresso, 28 marzo 2002) risultava applicato in soli 25 casi. Il suo utilizzo è costato 140 milioni di euro.
Carenze di personale
Gli assistenti sociali in organico dovrebbero essere 1.630, mentre i presenti sono 1.235 (- 395). Gli educatori previsti in organico sono 1.376, i presenti sono 557 (- 819). Psicologi: dei 95 previsti, risultano essere presenti solamente in 4. (Dati a luglio 2002). Carenze anche per il corpo di polizia penitenziaria rispetto agli organici. In servizio 42.781 agenti di polizia penitenziaria, oltre a 7.046 unità di personale amministrativo e tecnico (dovrebbero essere 10.025).
Giustizia
Dati dalla Relazione d’apertura dell’anno giudiziario 2003, Procuratore Generale Francesco Favara, Roma 13 gennaio 2003 (riferiti al periodo 01.07.2001 – 30.06.2002): Cause penali pendenti: 5.512.700 (erano 5.721.650) Cause civili pendenti: 3.135.000 (erano 3.278.000) Andamento reati: Omicidi tentati e consumati (- 9%); rapine (- 8%); furti (- 12%); estorsioni (- 5%); stupefacenti (+ 54). Delitti registrati: 2.821.624 (- 4%), l’81% ad opera di ignoti. Durata processo penale: 1.509 giorni. Magistrati in servizio. 9.157
Fonte: se non indicata diversamente, la fonte delle cifre è il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - ministero della Giustizia
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