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Il cono d’ombra dell’istruzione in carcere di Luciana Scarcia
Tratto dalla rivista "Insegnare"
Di carcere si parla poco e, quando se ne parla, gli aspetti che conquistano l’attenzione dell’opinione pubblica sono quelli che fanno notizia, come i suicidi o le fughe. Poco si sa di chi e perché finisce in carcere, o di come si svolge la vita carceraria. Nei confronti del carcere si opera una rimozione collettiva per non dover affrontare i fallimenti e l’impotenza delle nostre società democratiche, in cui è in atto un arretramento dei processi di inclusione sociale, con l’espulsione degli strati più deboli. Che ci sia un luogo che funziona come "discarica sociale"1 è difficile da tollerare, soprattutto in un periodo di crisi sociale come il nostro, in cui la domanda di punizione e segregazione risponde a un’esigenza, avvertita come primaria, di difesa della collettività. Conoscere, dunque, la realtà del carcere, la sua funzione dichiarata e quella effettiva ha il significato di romperne l’isolamento, per interrogarsi sui limiti e sulle risorse della nostra società, sulle sue priorità e tendenze evolutive. In Europa la popolazione carceraria è in continuo aumento; in particolare aumentano in ogni Paese i detenuti stranieri, intesi anche come immigrati di seconda generazione, quindi già inseriti nei diversi contesti sociali.
Numero dei detenuti in alcuni Paesi europei (1983-1995)
Stranieri nella popolazione carceraria dell’UE – 1997 (valori percentuali sul totale dei detenuti)
Fonte: Statistiche penali del Consiglio d’Europa. Strasburgo 1997
Questi dati, sommati a quelli italiani del 2002 (su circa 56.000 detenuti 17.000 sono stranieri e 16.000 tossicodipendenti2), denunciano l’urgenza di politiche di prevenzione, volte all’inclusione sociale e all’integrazione multiculturale e dimostrano al contempo che è illusorio perseguire l’obiettivo della sicurezza solo con la carcerizzazione.
L’istruzione in carcere: norme e realtà
Il legislatore ha introdotto e regolamentato all’interno del carcere una serie di diritti il cui esercizio rientra nello scopo rieducativo che la detenzione deve avere, in ottemperanza dell’art. 27 della Costituzione; tra essi la normativa penitenziaria prevede, oltre ovviamente al diritto al lavoro, anche quello all’istruzione e alla formazione. Se si entra dentro un istituto penitenziario – fatte salve le differenze tra i diversi istituti -, ci si trova di fronte a un’espressione emblematica di una caratteristica della storia recente del sistema educativo italiano: la contraddizione tra una normativa avanzata, che punta all’inclusione sociale e all’elevamento del singolo, e una realtà che si fatica a considerare coerente con quella normativa. (Ovviamente si tratta di una generalizzazione che non tiene conto di realtà locali anche eccellenti, ma serve a evidenziare una peculiarità negativa del nostro Paese. L’Ordinamento Penitenziario e il relativo Regolamento di esecuzione3 prevedono l’organizzazione di corsi di scuola dell’obbligo e di addestramento professionale, mentre per quelli d’istruzione superiore usano un linguaggio meno prescrittivo: "possono essere istituite scuole di istruzione secondaria". Indicano nei protocolli d’intesa tra Ministero della Giustizia e Ministero della PI e nella concertazione tra Ufficio scolastico regionale e Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria le modalità per attivare tali corsi. Impegnano ciascun istituto penitenziario a costituire una commissione didattica (composta da direttore, responsabile dell’area trattamentale e insegnanti) con il compito di formulare il progetto di istruzione. La realtà, però, è ben diversa: non si conoscono protocolli d’intesa recenti sulla materia e le commissioni educative sono una rarità. L’irreperibilità di dati ufficiali su numero di frequentanti i corsi scolastici, rapporto tra questi e le richieste, esito dei percorsi lascia, inoltre, pensare che i due ministeri competenti non abbiano un grande interesse a garantire effettivamente tale diritto. Da una ricerca svolta da L’altro diritto – Dipartimento di teoria e storia del diritto dell’Università di Bologna emerge che nella quasi totalità delle carceri italiane viene teoricamente garantito il diritto all’istruzione mediante l’attivazione di corsi istituzionalizzati o gestiti da volontari, ma nella realtà è impossibile consentire l’accesso alle lezioni di tutti coloro che ne fanno richiesta. In pochi istituti sono attivati più di 2 corsi per ogni livello d’istruzione, con una media di iscritti per ogni classe di 10-15 alunni. A causa poi del problema del sovraffollamento, non solo non esistono spazi che consentano lo studio e la concentrazione, ma mancano addirittura locali idonei (e anche quelli non idonei) e attrezzature. Sul versante dell’istituzione scolastica, scarsa è l’attenzione a questo settore del sistema d’istruzione. (Una piccola spia è data dalla mancanza nel sito del Ministero di uno spazio dedicato a esso). Lo svolgimento delle attività è quasi esclusivamente affidato al senso di responsabilità dei singoli docenti, ai quali si viene a richiedere un sovrappiù di dedizione personale per sopperire alle condizioni di lavoro, rese talvolta umilianti dai mille ostacoli di carattere pratico, come addirittura la mancanza di quaderni e penne! Quando il funzionamento di un servizio viene lasciato alle virtù dei singoli, è inevitabile che non funzioni come dovrebbe: la loro tenuta viene messa a dura prova dai meccanismi che regolano il sistema-carcere e dall’abbandono in cui vengono lasciati. Inoltre, l’istruzione in carcere, oltre che un diritto costituzionale, è anche un elemento del "trattamento rieducativo"4 del condannato, cioè di un programma di interventi che, attuati "secondo un criterio di individualizzazione", tendano "a promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale". L’andamento e gli esiti del trattamento rieducativo influiscono sull’eventuale adozione di misure come permessi premio o riduzioni di pena. Inoltre, chi frequenta la scuola superiore o corsi di formazione professionale percepisce un sussidio giornaliero. A tale proposito è stata sollevata una questione5: la normativa penitenziaria non riconosce con nettezza all’istruzione quella priorità che meriterebbe in quanto diritto costituzionale, come il lavoro. In alcuni passi essa sembra essere concepita alla stessa stregua di altre attività "trattamentali", quali quelle sportive e culturali. Ora, è vero che non si può obbligare degli adulti a recuperare la scolarità non completata, ma non è neanche accettabile che la frequenza scolastica sia presentata al detenuto come una tra le tante opportunità di trattamento rieducativo, a cui per di più deve spesso rinunciare in caso di coincidenza con l’orario delle attività lavorative.
Devianza e istruzione
La conoscenza di quel "mondo del rimosso" che è il carcere consente anche di mettere meglio a fuoco quello che non funziona delle nostre istituzioni. E’ un dato di fatto che tra devianza e precedenti esperienze scolastiche fallimentari esiste un nesso stretto (evidenziato anche da documenti europei5) e che il livello d’istruzione dei detenuti è mediamente basso.
Popolazione detenuta per grado di istruzione (al 15.01.2002)
Fonte: DAP/Ministero della Giustizia
Sommando i dati relativi ai detenuti analfabeti, privi di titolo di studio e con licenza elementare abbiamo una percentuale di detenuti che non hanno assolto l’obbligo scolastico (considerando questo ancora di 8 anni, secondo la vecchia normativa) pari al 38,9 %. Se confrontiamo questo dato con quelli relativi al grado d’istruzione della popolazione attiva, che per il 47% ha un titolo di licenza elementare e licenza media e per il 40% un diploma di istruzione secondaria (dati che sono inferiori a quelli dei Paesi europei più sviluppati; fonte: Oecd 1999), risulta con evidenza drammatica l’entità del nesso tra devianza e bassa scolarizzazione. Consideriamo ora l’età media dei detenuti:
La maggioranza dei detenuti ha frequentato dunque la scuola negli anni Settanta e Ottanta, in una fase, cioè, in cui la scuola di massa ha conosciuto la sua massima espansione ed è stata attraversata da innovazioni e spinte democratiche. Eppure questa stessa scuola ne ha lasciati, evidentemente, tanti per strada, e tra questi molti sono finiti in carcere. Si può ragionevolmente formulare l’ipotesi che, se la scuola negli ultimi 30 anni fosse stata tempestivamente oggetto di una maggiore attenzione da parte della società e di chi la governa, con finanziamenti finalizzati a piani di formazione seria e controllata del personale docente e alla sua valorizzazione, al miglioramento delle strutture, all’impiego di risorse aggiuntive, forse le carceri sarebbero oggi meno affollate, con evidente risparmio per le casse dello Stato. Ci sono naturalmente stati tentativi di attuare piani di prevenzione, ma questi avrebbero avuto bisogno di tempi più lunghi e risorse adeguate; in questa fase sembra difficile poter sperare in una ripresa seria di interventi efficaci finalizzati all’inclusione sociale. Eppure la prevenzione dell’emarginazione e della devianza è una priorità che un governo democratico dovrebbe porsi. I comportamenti devianti, in particolare i fenomeni della delinquenza minorile, non sono più relazionabili unicamente a fattori socio-economici e a condizioni di disagio materiale della famiglia, ma anche alle condizioni comunicazionali, ai modelli culturali e alle modalità relazionali con cui il soggetto nelle società post-moderne entra in contatto fuori e dentro la famiglia6. Oggi si sta riducendo la distanza tra i diversi modi e contenuti della comunicazione tra differenti contesti sociali, e meno netti appaiono i confini tra norma e devianza (la pornografia nelle trasmissioni televisive è un cedimento alla deviazione dalla norma oppure è una forma di potenziale normalizzazione della devianza?) La comunicazione diventa sempre più complessa, sfugge alle regole e ne crea di nuove; diffonde e massifica comportamenti e bisogni un tempo circoscritti a determinate categorie sociali, facendo perdere di vista il nesso tra il bisogno e il lecito, tra il fine e il mezzo, tra il desiderio e il possibile. In questo contesto l’istituzione scolastica – cui il mondo moderno ha storicamente affidato il ruolo di riproduzione della società e di emancipazione del singolo - meriterebbe attenzione e risorse per vincere autoreferenzialità e senso di impotenza, e superare lo stato di confusione circa la sua funzione e i percorsi con essa coerenti. Quanto scritto delinea un sommario quadro generale dell’istruzione in carcere, che però meriterebbe un’analisi più puntuale delle diverse realtà locali.
Breve storia della scuola in carcere
L’istruzione in carcere non è un fatto recente, ma ha una storia che comincia nell’Italia post-unitaria della fine dell’Ottocento. Benché nello Statuto Albertino non fosse contemplato il diritto all’istruzione, negli istituti penitenziari, tuttavia, essa venne considerata un’attività obbligatoria, perché poteva contribuire alla rieducazione di quei detenuti la cui condotta era ritenuta, secondo la cultura positivistica dell’epoca, un effetto delle condizioni di degrado in cui erano cresciuti. Anche durante il fascismo, il Regolamento del 1931 prevedeva l’obbligatorietà di corsi d’istruzione elementare per i detenuti, tenuti da insegnanti, ma anche da personale sanitario, dal cappellano o da altri funzionari. L’istruzione, insieme alla religione e al lavoro, era considerata un mezzo per recuperare i reclusi ai valori e alla cultura dello Stato. La Costituzione, che nell’art. 27 sancisce che le pene devono "tendere alla rieducazione del condannato" e nell’art. 34 dichiara "l’istruzione inferiore … obbligatoria e gratuita", impose al legislatore di creare le condizioni effettive che configurassero l’istruzione in carcere non più come una coercizione ma come un’opportunità per i singoli detenuti. La Legge n. 503 del 1958 ha istituito le Scuole carcerarie elementari con l’obiettivo di combattere l’analfabetismo e di contribuire alla "educazione e redenzione sociale e civile". Furono così istituiti "speciali ruoli transitori", ai quali si accedeva con pubblico concorso, per la nomina degli insegnanti di scuola elementare; questi ruoli transitori furono soppressi con la Legge n. 72 del 1972. Negli anni Settanta si rafforza la tendenza a riformare l’esecuzione della pena che, considerata una fase "transitoria", deve promuovere la risocializzazione positiva del detenuto. L’Ordinamento Penitenziario del 1975 prevede che l’istruzione, depurata dal carattere di obbligatorietà, insieme al lavoro, alla religione, ad attività culturali, ricreative e sportive, sia un "elemento irrinunciabile" del trattamento rieducativo da offrire come opportunità al singolo individuo temporaneamente detenuto, nella prospettiva del suo reinserimento nella società. I corsi scolastici istituiti negli istituti penitenziari non devono più avere un carattere speciale rispetto a quelli delle scuole pubbliche, ai cui programmi d’istruzione devono adeguarsi. Due Circolari ministeriali assimilano i corsi d’istruzione elementare e media e quelli di alfabetizzazione attivati in carcere ai corsi per adulti che si tengono nella scuola pubblica e prevedono le condizioni per sostenere gli esami. Con il Nuovo Regolamento di esecuzione dell’Ordinamento Penitenziario del 2000 viene confermata la considerazione dell’istruzione come di un diritto riconosciuto, al pari di quello al lavoro e ad altre attività, al detenuto in quanto cittadino che temporaneamente si trova in stato di detenzione. L’esercizio di tale diritto viene inserito nel "trattamento" rieducativo al fine del reinserimento nella società. Il Nuovo Regolamento prevede l’istituzione non solo di corsi di istruzione obbligatoria, ma anche secondaria, oltre che quelli di formazione professionale; agevola inoltre chi intraprende o deve completare studi universitari. Nell’Ordinanza del Ministero della Pubblica Istruzione, n. 455 del 29 luglio 1997, si affida ai Centri Territoriali Permanenti, d’intesa con gli istituti penitenziari, lo svolgimento di attività di educazione degli adulti nelle carceri e, in particolare, negli istituti penali minorili. Infine, la Direttiva del Ministero della Pubblica Istruzione, n. 22 del 6 febbraio 2001, ribadisce la necessità di realizzare percorsi individuali di alfabetizzazione in quanto strumenti di promozione sociale destinati ai soggetti deboli, tra i quali i detenuti.
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