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Bisogno di giustizia e verità Il vuoto e la disperazione che caratterizzano l’esistenza delle vittime di trent’anni di violenze e di misteri italiani
Recensione a cura di Marino Occhipinti
Quando è venuta nella nostra redazione Olga D’Antona – il cui marito Massimo, esperto di diritto del lavoro, è stato ucciso il 20 maggio del 1999 dalle nuove Brigate Rosse – ci ha raccontato, tra le altre cose, dell’insopportabilità della cappa di silenzio che, trascorso il clamore iniziale, pian piano scende su chi i reati li ha subiti direttamente o sui loro familiari. Ci ha allora consigliato, Olga D’Antona, di leggere il libro recentemente scritto da Giovanni Fasanella e da Antonella Grippo, I silenzi degli innocenti, un libro in cui viene data voce ad alcune delle vittime di trent’anni di violenza e di misteri italiani, da piazza Fontana ad oggi. Il giorno in cui Ornella Favero, la responsabile di Ristretti Orizzonti, quella raccolta di testimonianze l’ha portata in redazione, come si usa fare ogni volta che capita di tenere un libro in mano, ho aperto una pagina a caso. Il primo titoletto mi ha fatto letteralmente trasalire: “Dovrebbero guardarci con gli occhi bassi, e sperare che Dio non esista”. A pronunciare quella frase è Lia Serravalli, che nella strage della stazione di Bologna del 1980 ha perso Patrizia e Sonia, le due figlie adolescenti, la sorella ed il bimbo che quest’ultima portava in grembo. Ma mentre la tragica storia di Lia Serravalli l’ho letta soltanto nei giorni successivi, il suo concetto mi ha molto colpito lì per lì, nell’immediato. Mi ha fatto tornare in mente l’espressione che era solita ripetermi insistentemente, e lo ha fatto per parecchio tempo, la “mia” educatrice – la prima persona con la quale nel 2000 sono riuscito a “confidarmi per intero” – nei primi anni in cui sono arrivato in questo carcere. “La devi smettere di abbassare sempre lo sguardo ogni volta che incontri qualcuno, chiunque esso sia”, mi disse un giorno quell’educatrice, che di questa mia reazione si era evidentemente resa conto. Dopo essermi “messo a nudo”, infatti, e dopo averle spiegato che sì, ero realmente responsabile dei gravissimi reati per i quali ero stato condannato (ma che per tutta una serie di circostanze avevo per sei lunghi anni e fino ad allora negato), non riuscivo più a reggere lo sguardo di chicchessia, si trattasse dei miei familiari o di qualsiasi altra persona. I silenzi degli innocenti racconta – attraverso le persone che in piazza Fontana, in piazza della Loggia, sul treno Italicus o alla stazione di Bologna c’erano e che solo per miracolo o per una fortuita coincidenza si sono salvate – il vuoto e la disperazione che improvvisamente irrompono nell’esistenza di persone che fino ad allora avevano avuto una vita normale. L’intenzione degli autori è stata anche quella di dare voce a chi invece, generalmente, viene dimenticato. E per chi ha perso una persona cara, o per chi, come narrano le testimonianze di questo libro, è stato ferito nelle stragi e ne porta i segni indelebili nel corpo e nell’anima, il timore che si perda la memoria di un pezzo della storia italiana è intollerabile. Allo stesso modo è inaccettabile, per chi è stato duramente colpito in quei decenni dalle stragi o dal terrorismo in generale, che nonostante il tanto tempo trascorso, il segreto di Stato impedisca di fare piena luce e di conoscere quindi la verità dei fatti (dopo 26 anni di indagini e di processi, è di questi giorni l’assoluzione definitiva per la strage di Ustica che nel 1980 causò 81 morti). E, come lamentano i protagonisti del libro, il fatto di non avere giustizia e verità, impedisce loro di uscire da quel passato, li tiene costantemente ancorati ad esso; ed inevitabilmente li priva anche di un’altra possibilità, quella del perdono, che probabilmente alleggerirebbe il loro animo, perché “non è possibile perdonare dei fantasmi, ho bisogno almeno di vedere i volti di chi mi ha fatto del male, magari di incontrarli”, raccontano alcuni dei protagonisti del libro. Non a caso, difatti, sono proprio le persone che hanno avuto prima il desiderio e poi la possibilità, e soprattutto il coraggio e la forza di conoscere ed incontrare i responsabili delle loro sofferenze, ad uscirne sollevate e a spiegare che è stato un “arricchimento reciproco”. Sarà forse perché anch’io sono artefice della sofferenza e del dolore di altre persone, ma i due giorni di immersione nella lettura di I silenzi degli innocenti mi hanno provocato un forte disagio e risvegliato, se mai ce ne fosse stato bisogno, una buona dose di angoscia. Un libro che dovrebbe essere letto dai cittadini liberi, ma soprattutto da coloro che si trovano in carcere.
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