|
La
mia migliore amica. Quella che ho ucciso di Graziano Scialpi
Charlène, la protagonista del libro, è in carcere. Ma il libro non parla di carcere. E questo è un bene, perché la prigione che traspare dalle prime pagine, pur molto suggestive e ben scritte, non esiste, è un luogo ideale. La galera come luogo del silenzio e della solitudine vive infatti solo nell’immaginario di chi non la conosce. Anche i reparti di isolamento sono luoghi di continui richiami, urla e cancelli che sbattono con violenza. Ma la giovane autrice non commette l’errore di addentrarsi in territori che non padroneggia. Ciò che invece dimostra di conoscere bene è l’animo umano e i suoi a volte tortuosi sentieri. Il romanzo è una sorta di diario-riepilogo nel quale Charlène ripercorre passo passo tutta la sua vita, dalla prima infanzia fino al gesto che l’ha condotta in prigione. Una vita come tante, una ragazza come tante, con i suoi problemi, le sue paure, le sue timidezze e con il timore, comune a tanti, tantissimi adolescenti di essere brutti, di non piacere, di non essere adeguati e, soprattutto, di non essere accettati e amati. Cos’è allora che la porta a diventare un’omicida a diciassette anni? Solo la sfortuna, verrebbe da dire. La sfortuna di essere un po’ più introversa della media. La sfortuna di essere separata dalla prima, grandissima amica del cuore. La sfortuna di vivere in una famiglia incapace di esprimere i propri affetti. La sfortuna di trovare l’amore, la persona giusta quando è ormai troppo tardi. E, soprattutto, la sfortuna di incontrare Sarah nel momento più critico dell’adolescenza. Sarah è tutto ciò che Charlène vorrebbe essere. È disinvolta, spigliata e spregiudicata, è sempre al centro dell’attenzione, è piena di ragazzi. Ma Sarah è anche un’abile manipolatrice che conosce le debolezze di Charlène meglio di quanto le conosca Charlène stessa. Tra le due coetanee nasce un rapporto intenso e morboso. Un rapporto di sado-masochismo psicologico nel quale la sottomessa Charlène più viene umiliata e maltrattata dalla sua “migliore”, unica amica più ne diventa dipendente in quello che pare un vortice sempre più degradante. Quando diventa consapevole della distruttività di questo rapporto, l’unica soluzione che riesce a trovare è quella di uccidere l’amica. In realtà l’omicidio è duplice, uccidendo Sarah, Charlène uccide anche se stessa, la se stessa che detesta, la se stessa sbagliata, la se stessa priva di identità propria che esiste solo come riflesso dell’amica. L’assassinio diventa, come nelle tragedie greche, un atto di purificazione e liberatorio. Charlène è rinchiusa in prigione, ma per la prima volta in via sua si sente finalmente libera. Il padre che la implora di dirgli che si è pentita di quello che ha fatto non avrà una risposta: “Come spiegargli che non avevo nessun rimorso e che, nonostante il dolore, l’odio e la vergogna, ero uscita per sempre vittoriosa da una vita detestata?”. Cos’è in questo caso il male? Leggendo il libro di Anne-Sophie Brasme viene da dire che il male è una questione di quantità, non di qualità. Una “spintarella” apparentemente innocua, ma che nel momento sbagliato provoca un’impercettibile deviazione che alla fine può condurre in vicoli ciechi di disperazione. Così, in modo molto banale.
|