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231 giorni di Paolo Severi Frontiere Editore € 12
I 231 giorni da detenuto di Paolo raccontati con l’ansia di ricadere nella droga, di essere aggredito da altri detenuti, di dover rimanere a lungo in carcere
I "231 giorni" sono quelli che l’autore trascorre nel carcere di Rimini: sette mesi e mezzo in attesa di avere l’affidamento, dopo essere finito dentro per reati commessi molti anni prima, quando era tossicodipendente. Durante questo periodo di reclusione, Paolo Severi tiene un diario che, con il passare dei giorni, diventa la sua ancora di salvezza, consentendogli di restare consapevole degli obiettivi che si era prefisso prima di entrare. Arriva da San Patrignano, dove è rimasto tre anni, riuscendo a disintossicarsi "nonostante la comunità", più che "grazie ad essa", ma teme di ricominciare ad usare l’eroina, in un ambiente degradato come quello del carcere. Ce la farà a resistere, impegnandosi a fondo negli studi universitari, che riesce a proseguire nonostante tutto, e sostenuto dall’amicizia e dai consigli di un vecchio "galeotto", che dopo vent’anni di carcere conosce a fondo le persone, le loro debolezze, ma anche la loro capacità di reagire al disagio. In sette mesi, Paolo Severi ha potuto vedere e capire "abbastanza" del mondo carcerario, ma ovviamente molti altri aspetti gli sono sfuggiti, anche perché, dal momento che la protagonista "femminile" del libro diventa la droga, sembra quasi che tutti i suoi pensieri e tutta l’attività del carcere ruotino intorno ad essa! Soprattutto, il suo racconto risulta condizionato dalla paura, che amplifica e distorce tutti gli eventi: Paolo teme di ricadere nella droga, teme di essere aggredito dagli altri detenuti, di essere pestato dagli agenti, di non riuscire ad ottenere l’affidamento e quindi di dover rimanere a lungo in carcere. Per non correre troppi rischi, sceglie di recitare una parte ben definita, e lo fa molto bene: gli unici momenti nei quali torna ad essere se stesso sono quelli in cui scrive il diario, che in effetti risulta essere di una sincerità disarmante, anche se molto soggettiva. Per comprendere questo suo comportamento dobbiamo fare riferimento ad un altro libro sul carcere, Maggio Selvaggio, scritto da Edoardo Albinati, insegnante a Rebibbia. Scrive Albinati: "Nel carcere, ognuno finge di essere diverso, molto più buono o molto più cattivo di come è realmente". Si tratta di una collaudata tecnica per riuscire a sopravvivere: evitare, a tutti i costi, di mostrare la propria debolezza, altrimenti c’è subito chi è pronto ad approfittarsene, e Paolo ne ha molta, di debolezza da nascondere. Il suo libro – diario non mi convince appieno, anche se lui rivela una buona capacità di comprensione della psicologia altrui. Ad esempio, riesce a rappresentare con lucidità il rifiuto di molti detenuti a prendere atto della propria condizione: persone che vivono con i pensieri costantemente proiettati all’esterno e, quando la realtà li richiama ad essere presenti, si scoprono incapaci di affrontarla. Certo, la vita in carcere è dura ed a volte anche drammatica, tuttavia mi sembra che Paolo voglia rappresentarla talvolta con troppa enfasi, che intenda colpire il lettore descrivendo una sequela interminabile di violenze. Tutto ciò può essere vero, i dubbi semmai derivano dalla frequenza e dalla dimensione del fenomeno. Personalmente, non ho visto mai nulla di simile, nemmeno in carceri degradate com’è San Vittore, dove pure di persone tossicodipendenti e disperate ce ne sono moltissime. La droga circola davvero, ma con più discrezione di quanto Paolo racconta ed anche i "regolamenti di conto" avvengono, ma non sono tanto numerosi, nemmeno tra gli stranieri. Può anche darsi che io abbia perso un po’ di sensibilità, negli anni trascorsi in carcere, e non riesca più a vedere ciò che vede uno appena entrato, ma mi accorga soltanto dei fatti più eclatanti. Per quella che è la mia esperienza, la violenza, di solito, è esercitata con metodi molto "sottili", sia da parte dei detenuti che da parte dell’istituzione: più che minaccia esplicita, viene usata la pressione psicologica. In definitiva, suggerisco di accostarsi alla lettura di questo libro armati di attenzione, ma anche di scetticismo. Possibilmente bisognerebbe che il lettore avesse già una discreta preparazione in materia, che gli consenta di distinguere ciò che risponde al vero da ciò che è dettato soprattutto dall’emotività dell’autore.
Francesco Morelli
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