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Terza edizione del premio "Parole oltre il muro 2004 e Stefania Manfroni" Riservato ai detenute e alle detenute della Casa Circondariale di Piacenza
Le premiazioni sono avvenute a Piacenza lunedì 26 aprile 2004 alle ore 17.30
La mia grande occasione Primo classificato
Parma, mi dicevano, Parma è la tua grande occasione. A diciotto anni avevo accolto con entusiasmo ma anche con sommo dispiacere la fine degli studi superiori, ero stranamente rammaricata e al contempo contenta di essere finalmente libera. Ma ora la felicità mi ha abbandonata. Percorro con la mente i primi anni trascorsi in una città, Parma, a me estranea. Mi aveva colpito quel tetro lungo fiume che rifiutavo di guardare, come del resto tutte le bellezze architettoniche di quella città a me tanto ostile. Immersa negli studi universitari non mi interessava vivere lontano dalla mia scrivania, perennemente soleggiata da una lampada spartana. Spartana era stata la mia educazione fino ad allora a tal punto che studiavo, studiavo e basta. All’improvviso la voglia di evadere e di eludere gli insegnamenti a dir poco "gesuitici" impressi nella mia mente. Mi ha spinto successivamente a vivere come se mi fossi concessa una vacanza per circa due anni e così lentamente mi sono ritrovata in una dimensione sfumata. Ho ricordi vaghi e tristi di quel periodo di transizione appena anticipato dalla perdita di mia mamma. Improvvisamente mi sembra di avvertire le sue morbide carezze. Le mani di lei mi hanno trasmesso forza e coraggio anche in situazioni banali, ma al tempo tragiche come l’estrazione di un molare dal dentista. L’immagine distaccata e fredda del dentista si contrapponeva a quella materna e apprensiva della mamma "assistente infermiera". Eppure penso con rimorso ai rari, ma ben definiti episodi e situazioni in cui ho "odiato" lei, ricca di bravura e cultura ma assurdamente devota a quella figura opprimente di mio padre. Lei, così candida e sensibile, lui oltremodo insensibile e scuro sia nella carnagione sia nell’animo; lei era libera solo in cucina e lui, contento di questo, si accaniva sulle prelibatezze da lei preparate, quasi volesse anticipare noi figli in una gara inconcepibile. Così mi chiudevo nella mia cameretta dietro la mia scrivania spartana come quella di Parma, ma diversa perché non ero costretta, lontano da casa, ad occultare tutto, persino un fiorellino disegnato su qualche foglio sparso. Ecco perché Parma sarebbe stata la mia grande occasione, la mia libertà. Ed è proprio quella libertà che non ho saputo amministrare tanto da ritrovarmi qui in una cella spoglia. La cella mi rievoca la mia cameretta. Anche qui come allora mi ritrovo sola con i miei pensieri. Anche qui ricevo la colazione a letto, anche se non me la porta mia mamma. Però il silenzio e l’oscurità mattutina qui mi ricordano la discrezione: mia mamma s’accingeva a darmi il buongiorno consapevole che gli attimi felici sarebbero stati pochi, solo quando l’orco (mio padre) sarebbe stato fuori di casa. Non ho potuto vivere liberamente neanche la malattia di mia madre, lenta come lenti erano stati i suoi movimenti per non disturbare o meglio per non attirare l’attenzione dell’orco pronto con la sua severità e la sua austerità ad invadere i nostri spazi. Un nostro spazio l’abbiamo poi recuperato da sole io e lei a Parma. L’orco fisicamente era lontano, ma onnipresente tanto che io e mia mamma immaginavamo i suoi passi, pesanti e lugubri appena sveglie al mattino, e per sdrammatizzare, o meglio per esorcizzare la paura di mio padre, ci ridevamo su e finalmente libere di trattenerci a letto oltre l’orario da lui imposto. Così Parma inizialmente odiata era diventata a maggior ragione la mia - anzi la nostra - occasione di liberazione. Di lì a poco le sue mani candide e morbide lentamente si sono strette a mo’ di pugno chiuso, quasi a non volersi rassegnare a dovermi lasciare sola. Nonostante la forza e la rabbia con cui stringeva le dita, le sue mani erano morbide e soffici. Finalmente avevo visto mia mamma lottatrice arrabbiata non verso la vita da cui si stava allontanando contro la sua volontà, ma verso l’orco. Allora, per stimolare in lei una reazione e per osservarla, e quasi a voler capire e sviscerare quell’amore assurdo per l’orco, la provocavo nominando il nome di lui. Eccola nello stato di coma in cui la morfina l’aveva resa inerme, ecco finalmente la tanto da me attesa reazione di sdegno per lui. E la repulsione era così forte che riusciva ad aprire gli occhi e a sussurrarmi con voce chiara anche se fievole: "Bella mia, se potessi ti rimetterei al mondo" per poi richiudere gli occhi. Usavo il nome dell’orco quasi mai pronunciato prima per svegliarla e sentirmi ripetere quelle parole dolci di una mamma improvvisamente guerriera. Smarrimento e incertezza mi hanno annebbiato la mente. Così ho dirottato il mio percorso verso una meta incerta e infine deludente, il carcere. L’immobilità dei pochi oggetti ora mi rattrista soprattutto perché lontana da Parma, allora tanto odiata ed ora tanto amata e rimpianta. Ho sprecato la mia grande occasione. Domenica Secondo classificato
Mi sveglio: è domenica… Ancora prima di aprire gli occhi, in una frazione di secondo, realizzo due cose: la prima è di essere viva, la seconda è che sono in carcere!!! Immediatamente sono assalita dalla noia, cerco di reagire. Organizzo mentalmente la giornata, partendo dalla colazione fino alla camomilla serale. Pianificando le 15 ore della lunghissima giornata, mi accorgo che è quello che faccio ogni domenica. Mi deprimo all’istante, mi sento ripetitiva e priva di fantasia, allora penso, penso, penso… È passata mezz’ora e non ho partorito idee geniali ! Tutto quello che potrei fare, l’ho già fatto! Ci rinuncio! La noia e la monotonia hanno vinto. Decido come ogni domenica di farmi trasportare passivamente in balia degli eventi. Sconsolata, con un balzo, scendo dalla branda a castello, infilo le ciabatte e, con passo trascinato, sfrego le suole sul pavimento. Attraverso la cella, oltrepasso la zona giorno e mi dirigo nel bagno. Subito dopo aver espletato l’impellente bisogno fisiologico, mi "tuffo" nel lavandino per la veloce toilette pre-colazione. Mi asciugo. Cerco la moka. Mi ci vuole un caffè dolce, molto dolce per compensare le amarezze della vita!!! Il rituale del caffè è curato in tutti i suoi aspetti: la moka è pronta, la adagio delicatamente sul fornello a fuoco lentissimo e aspetto. Nell’attesa, sempre con lo stesso passo trascinato, decido di andare alla finestra, la spalanco, mi avvicino, appoggio le tempie in uno degli scacchi formati dalle sbarre. Ora la visuale è libera, l’aria ogni giorno è più frizzante, il volto ancora umido accentua il piacere della brezza. Chiudendo gli occhi per un istante, amplificando l’olfatto, annuso la libertà. è un attimo. Riapro gli occhi e, diversamente dal solito, non guardo ma… osservo, osservo lo stupendo spettacolo al di là delle mura. Lo stacco è netto al di là delle mura. Un ambiente sterile e privo di colori mi opprime. Al di là delle mura, la libertà, la vita decorata dai pastelli della propria fertilità. Gli alberi di fronte sono trafitti dal volo frenetico dei passerotti, mi sembrano felici e si tengono a debita distanza dal muro, come se percepissero il malessere e la disperazione presenti in questo luogo, negli abitanti di ogni singola "gabbia". Trovo in me una somiglianza… cerco consiglio, cerco forza, voglio vivere, devo reagire. D’un tratto vengo distratta, nell’aria sento l’aroma diffuso del caffè. Sollevo la testa dalle sbarre, un ultimo sguardo alla libertà, con decisione mi giro, il passo è spedito, non trascino più le ciabatte, spengo il fuoco e m’accingo a bere il caffè. Mentre sorseggio, mi accorgo di essere stranamente di buon umore… mi sento ricaricata, rigenerata. Mi sveglio. È domenica ed è una bellissima giornata. Donna Terzo Classificato
"Ho sceso dandoti il braccio almeno un milione di scale e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio"
Eugenio Montale
Quante difficoltà e quante paure, vivo, nell’atto di aprirti il mio cuore. In questo preciso istante, rimpiango di non poterti avere qui al mio fianco. Probabilmente questa è una "fortuna" sia per me che per te. Quello di scriverti è oggi l’unico modo di raccontarmi. No, non sono timido e neanche reticente, non voglio nascondermi o apparire quello che non sono, soltanto non ho più l’abitudine di relazionarmi con te. Questo può sembrarti il lamento di un eremita. Non lo è. È un grido! Il mio grido! Un grido disperato, volutamente "rinchiuso" in me, nel mio cuore, perché in questo luogo, esprimere la propria sofferenza equivale a dimostrarsi deboli. È stupido lo so. Ma è cosi. Dei miei 33 anni, gli ultimi 10 li ho trascorsi in reclusione. Puoi immaginare a quante e quali cose ho dovuto rinunciare. Mi è stata tolta la libertà, e non solo quella fisica, mi viene razionata l’aria, somministrata in piccole dosi, cosicché il desiderio di questa possa "guarirmi"!! Molte altre cose mi sono state sottratte, ma vi è solo un motivo per il quale provo disperazione, sei tu donna. Mi sei stata amputata senza possibilità di rimedio. Annullata nel mio corpo e denigrata nella mia mente. Ricerco la libertà nei libri, nella mia fantasia, nei ricordi, ma senza il contatto con l’esterno è tutto irreale, Di aria faccio il "pieno" in quei pochi momenti consentiti, ma anche lei ha il sapore delle sbarre. Mi manchi donna, in tutto ciò che faccio, in tutto ciò che sono. In questo luogo la tua immagine è spesso ridotta a "simbolo", quasi idolatrato, innanzi al quale si vedono uomini assorti in adorazione di calendari, nei quali tu metti in mostra le tue grazie. Altre volte le tue foto patinate, diventano gelosi feticci, utilizzate nel momento più squallido che un carcere si è "costretti" a vivere, il "surrogato" della passione, dell’atto d’amore. Non posso negartelo, anche per questo mi manchi. È immenso il desiderio di poterti abbracciare, di stringerti al mio petto, sfiorare la tua pelle e contemplare il tuo corpo. Essere il rifugio l’uno dell’altra. Ma tu donna non sei piacere carnale. Sei altro. Molto di più. Sei ciò che mi rende uomo, non potrei definirmi tale senza te, non posso! Mi manca il coraggio con cui affronti la vita, le difficoltà e le delusioni senza lamenti. Mi manca la femminilità dei tuoi movimenti, forse "insignificanti" nella quotidianità, ma fondamentali in questo vuoto. Mi mancano quelle lunghe attese di te, che riflessa in uno specchio, crei come un artista fascino ed illusioni. Mi manca il tuo viso, i tuoi occhi, i tuoi pensieri. Mi mancano le tue espressioni, a volte enigmatiche altre sognanti. I sogni… quante volte mi sono ripromesso di realizzare ogni tuo desiderio. Renderti felice sarebbe al tempo stesso, per me, felicità. Sarebbe libertà! Sarebbe aria! Mi manca l’amore, la possibilità di corteggiarti. e di penare le "dolci" sofferenze che solo l’amore sa dare, A chi mai potrei donare dei fiori? A chi mai schioccare baci? A chi potrei affidare il mio cuore in questo luogo di pena? Questo mio grande dolore troverebbe sollievo con la tua "semplice" presenza. Sei la mia panacea. Sei l’antidoto al mio "cronico male". Ogni giorno penso a te. Ogni notte sogno te. Non ho un’immagine precisa, non posso descriverti. Potresti essere alta o bassa, bionda o bruna, portare gli occhiali o un filo di perle, non è quello che vedo di te. Quando sogno io ti sento. Ti sento tenera ed affettuosa, dolce e delicata, ti sento donna, amante, madre e compagna, vicina, tanto vicina come da tempo non ti sento. Tante cose in questo tempo ho dimenticato, l’amore, l’affetto, il gesto di una carezza. Come ci si sente ad essere romantici? Quale è l’emozione nel donare un pensiero a S. Valentino? Camminare abbracciati o mano nella mano, dà felicità? Io non ho le risposte. Le ho dimenticate. Ho avuto familiarità con le armi, ho avuto il coraggio o forse l’incoscienza di rapinare banche, ho la capacità di sopravivere 10 anni in carcere… ma mai imparerò a vivere senza di te. Se voglio ricominciare a vivere e smettere di sopravvivere, se voglio riconquistare la normalità e la stima di me stesso, ho il necessario bisogno di te. Ma finché continuerai ad essere soltanto un poster appeso al muro…
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