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Una sfida da vincere di Bruno Condello (premio speciale per lo sport)
Come da una pagina uscita dalla penna di Corrado Alvaro, il suo paese - piccolo "presepe" incastonato alle pendici dell’Aspromonte - conta un gruppo di case dove, sedute sull’uscio, minute vecchine filano la lana mentre dagli spiazzi polverosi si alzano le grida di ragazzini intenti a sfidarsi in una partita di calcio. Intorno, gli stessi gesti che si ripetono immutati nel tempo. Diffusi nell’aria, gli stessi odori - non ancora cancellati dallo smog cittadino - che rendevano fragrante la brezza respirata da chi abitava quei luoghi in tempi immemorabili. Le persone, ad ogni incrociarsi, sorridono e si salutano con la reverenza e quel senso di rispetto che rivelano le origini e le usanze dei pastori e dell’umile gente di campagna. È qui che è cresciuto Speedy, dove tutti si conoscono e si sentono parte di un’unica grande famiglia. Ogni sera per sua madre era un gran daffare riuscire a separarlo dal pallone e farlo rientrare in casa: Speedy aveva sempre un dribbling ancora da provare o un ultimo goal da segnare. Con la velocità e lo zigzagare di una saetta, correva verso la porta avversaria, superando chiunque si frapponesse tra lui, il portiere e la sua voglia di goal. Ad ogni rete correva ancora più veloce. I suoi occhi, due scintille accese di felicità. Il suo sorriso, l’immagine della più contagiosa allegria. La sua corsa, l’inseguimento del sogno di una vita. Ben presto, però, quello spiazzo divenne troppo piccolo per il suo sogno, e il suo sogno divenne troppo grande per lui… Compiuti 18 anni si comprò la moto, così la mattina poteva finalmente andare a scuola evitando di fare la fila alla fermata dell’autobus. Correva, adesso, incontro alla vita e verso altre mete, ma sulla strada di casa non poteva fare a meno di fermarsi ad un angolo dello spiazzo che aveva visto consumare il suo sogno. Parcheggiata la moto, guardava, con nostalgia nel cuore, i ragazzini che giocavano al calcio fin quando, richiamati dalle madri, interrompevano la partita per avviarsi a casa. Solo Peppe, proprio così come faceva lui qualche anno prima, continuava a correre dietro al pallone e verso il sogno di diventare un grande campione di serie A. Così, il sogno che era stato di Speedy ora apparteneva a Peppe ed entrambi percepivano di essere accomunati da quella stessa ineffabile emozione. Con il tempo, il loro era diventato come un tacito appuntamento al quale non si può assolutamente mancare. Soli in quello spiazzo, si fissavano per un istante negli occhi: per Speedy ogni volta era come rivedere il suo passato; per Peppe - dieci anni appena - era come scorgere un possibile destino che voleva assolutamente evitare. Con un sorriso d’intesa, Peppe lanciava il pallone verso Speedy, poi gli correva incontro per fronteggiarlo in una sfida che si consumava tutta tra loro due e il destino in cui sembrava dovessero ineludibilmente incorrere i sogni nati su quello spiazzo. Correvano e ridevano felici; poi, ormai stanchi, si salutavano e Speedy, scompigliandogli i capelli con la mano, gli ripeteva sempre: "Cresci, Campione; la maglia azzurra della Nazionale ti aspetta". Cresceva Peppe, e con lui crescevano il suo sogno e il suo talento.
Era una calda giornata di giugno. In una tasca dei jeans, Speedy teneva il diploma che tanto aveva reso felice sua madre. Nell’altra, la sua mano stringeva con rabbia il risultato delle analisi a cui si era sottoposto per scoprire l’origine del malessere che accusava da un po’ di tempo. Quando Peppe lo incrociò con lo sguardo capì subito che quello non sarebbe stato un giorno come gli altri. Gli lanciò ugualmente il pallone, quasi a voler spazzare via il più presto possibile il turbamento per quella strana ed inspiegabile sensazione che lo stava assalendo. Il sorriso accennato da Speedy si annullava nell’espressione seria del suo volto. Rimase appoggiato alla sua moto, non raccolse il pallone, come faceva sempre, e quando Peppe gli si avvicinò con occhi pieni di domande, gli disse: "Promettimi, Peppe, che non permetterai al destino di mettersi fra te e il tuo sogno. Non gli permettere che un domani ti releghi in un angolo di questo spiazzo a consumarti lentamente nella nostalgia e nei rimpianti. Promettimelo, e quando il tuo sogno si realizzerà, ricorda che dovremo rincontrarci in questo stesso posto per festeggiare vittoriosi la nostra sfida al destino". Salì sulla moto, e dal quel giorno Peppe non lo vide più.
Certe volte, alle persone capita di avere paura di finire prigionieri delle cose che più amano. Altre volte è la paura di perderle a tormentare la loro vita. Allora, fanno di tutto per distruggere quanto è fonte del loro amore pensando, così, di distruggere con esso quella paura. Ma quando ciò che si rischia di perdere è tutto quello che si ha, non basta "uccidere" il proprio amore, bisogna "uccidere" se stessi, immergersi in un processo catartico di annichilimento del proprio passato e di ciò che si è stati, perché la vita è un continuo risorgere dell’anima. Che il domani ci veda uomini migliori di ieri dipende da noi stessi, dalle persone che incontriamo sul cammino della nostra vita e dalle circostanze. Speedy ce l’aveva messa tutta per realizzare il suo sogno; ma per le vie di un piccolo paesino dell’Aspromonte non si incontrano molte persone, e se la vita decide pure di darti uno "schiaffo" non potrai che sentirti schiacciato da qualcosa più grande di te: un destino che non riesci a capire e non riesci ad accettare.
Correva, adesso, Speedy, ma non più verso la vita, sospinto dai suoi sogni, bensì verso l’ignoto in cui lo aveva gettato la sua rabbia. E continuava a correre Peppe, in quello spiazzo polveroso che da quando Speedy era partito gli appariva sempre più vuoto. Aveva ormai 13 anni. Non aveva smesso mai di aspettarlo, sperando di vederlo spuntare, prima o poi, dal solito "angolino". Quando da lontano vide un uomo che lo stava osservando il suo cuore sobbalzò. "Speedy" urlò con voce soffocata in gola dall’emozione, e gli andò velocemente incontro. Bastarono alcuni secondi, giusto il tempo di mettere meglio a fuoco quell’immagine, e si rese conto che non si trattava di Speedy. Stava per tornare indietro, quando l’uomo lo chiamò: "Ehi, ragazzino! Aspetta, non scappare via! Lo sai che giochi proprio bene? Ti piacerebbe far parte dei pulcini di un grande club di serie A?" I suoi occhi si illuminarono, pensò subito a Speedy, al loro sogno e a quel destino che forse questa volta poteva essere sconfitto. Non fu facile convincere i suoi genitori a lasciarlo partire per una città del nord Italia, lontano da casa e dalla famiglia, ma Peppe promise ai suoi genitori che avrebbe studiato, avrebbe onorato qualsiasi condizione gli avessero posto, e finalmente poté sentire più vicino il suo sogno.
Speedy adesso è un uomo. Ogni venerdì pomeriggio calza le sue scarpe da calcetto per la solita partita con i compagni. Nessuna strada, nessuna casa a costeggiare lo spiazzo di oggi, ma solo alte mura, inferriate e cancelli. A richiamarlo, non più la voce di sua madre, ma il metallico tintinnare di una chiave nelle mani di un uomo in divisa. Rientrando in cella, lo sguardo di Speedy si incrocia con quello di Peppe, immortalato in un grande poster appeso alla parete. In TV trasmettono la partita della Nazionale under 21. Peppe ora sembra guardarlo dallo schermo. Ne ha fatta di strada quel ragazzo, e con la maglia azzurra è proprio come Speedy lo aveva sempre immaginato. Sul tavolo, il pacco che gli era arrivato solo pochi giorni prima. Un completino da calcio, alcuni poster, delle foto e un pallone, tutti con autografo. Ad accompagnare il pacco, una lettera: "Ciao, Speedy! Sono Peppe. Ti ricordi di me? Io non ho mai dimenticato il nostro patto e la mia promessa. Lo spiazzo al paese ci attende per festeggiare la nostra vittoria sul destino, perché il mio sogno, per realizzarsi completamente, ha bisogno di te".
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