Le
carceri, un’emergenza di civiltà
di
Nicolò Amato (ex Direttore del D.A.P.)
Il
Tempo, 16 novembre 2002
La
parola di Giovanni Paolo II è arrivata nel momento, nel luogo e nel modo
giusti. Perché ormai da tempo, e sempre di più, le carceri italiane sono
indegne di un Paese civile. E il sovraffollamento — 57 mila detenuti per 41
mila posti — è una delle cause principali di questo inaccettabile degrado.
E tuttavia, giovedì scorso, a «Porta a Porta» il ministro Castelli ha detto
di non essere preoccupato di questo e si è quasi rammaricato del fatto che in
carcere dovrebbero stare più di 150 mila persone, cioè il triplo di quelle che
effettivamente ci stanno.
Dopo avere diretto per quasi 11 anni il Dipartimento dell’Amministrazione
Penitenziaria; dopo avere visitato tutte le prigioni italiane; dopo avere
parlato giornalmente con il personale e con i detenuti mi piacerebbe parlare al
Ministro e spiegargli perché, rispettosamente ma fermamente, non sono
d’accordo con lui.
Il problema non è, infatti, quello della mera capienza fisica, ma quello di
assegnare a ciascun uomo recluso uno spazio accettabile di vivibilità, qualcosa
di simile a quel che si legge in un decreto del Ministro della Sanità di
qualche anno fa, secondo cui ad ogni persona andrebbe garantito uno spazio
minimo di 9 metri quadri.
Il punto è che la pena della detenzione consiste nella privazione della libertà.
Niente di meno, come la sicurezza dei cittadini richiede. Ma anche niente di più.
Lo Stato può confiscare la libertà dei cittadini che hanno violato la legge,
non la loro dignità, né il rispetto umano a cui tutti hanno diritto. Qualunque
di più di punizione, qualunque eccesso di sofferenza rappresenta un insulto
alla civiltà e viola i principi fondamentali di tutti i moderni ordinamenti
giuridici.
Non è solo una questione ideale o di filosofia della pena. È anche una
questione di intelligenza politica e di utilità sociale. Perché se ai detenuti
si toglie tutto, finanche la speranza, li si consegna alla spirale perversa e
distruttiva dell’angoscia e della violenza di chi non ha più nulla da
perdere, come è già accaduto nel periodo fino al 1982, quando nelle prigioni
si succedevano rivolte, evasioni e suicidi ed ogni anno si verificavano da 15 a
27 omicidi.
Ed è anche una questione di rispetto della professionalità e della dignità di
coloro che lavorano dentro le prigioni, al servizio dello Stato, incarnandone la
legalità e la civiltà e spesso rischiando la vita. Perché quanto più vi si
accrescono i disagi, le tensioni, il degrado, tanto più difficile, rischioso e
poco gratificante è il loro meritorio e complesso lavoro.
Perciò io credo sia necessario ed urgente che il Governo ed il Parlamento della
Repubblica accolgano l’appello autorevole e nobile del Santo Padre.
Vi sono già varie proposte parlamentari meritevoli di attenzione: proposte di
indulto che hanno solo l’inconveniente, peraltro superabile, di richiedere la
maggioranza qualificata dei due terzi, ed una proposta assai interessante —
per la quale basterebbe la maggioranza semplice — di sospensione degli ultimi
tre anni di pena, con la previsione peraltro che il beneficio venga perduto in
caso di reiterazione del reato.
L’essenziale è che il problema venga affrontato e venga affrontato subito,
giacché si tratta di una emergenza di civiltà rispetto alla quale non c’è
posto per le polemiche, le faziosità e gli interessi di parte.