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Hotel inferno di Patrizio Gonnella e Stefano Anastasia (Associazione Antigone)
Il Manifesto, 11 luglio 2003
Fra magliette dedicate al povero Abele, spinte e parolacce, paure e passi indietro, proteste e suicidi in carcere ieri la camera ha approvato una versione ridotta di indultino, che ora dovrà ritornare nelle forche caudine di palazzo Madama. L’indultino non è un provvedimento di clemenza ma una sorta di misura alternativa automatica concedibile una tantum dalla magistratura di sorveglianza. Perché produca un ritorno a condizioni umane di vita e consenta di reimpostare le politiche penitenziarie dovrebbe far uscire dalle carceri italiane almeno 15 mila persone. Tre anni fa partì la prima campagna, sostenuta dal Papa, per un provvedimento di clemenza. La politica non ebbe la forza di dare una risposta, anche minima, capace di affrontare la questione del sovraffollamento. Prevalse la paura di perdere consenso. Le elezioni politiche erano prossime e la sicurezza dei cittadini veniva prima di tutto. In questi tre anni quelle persone che avrebbero potuto usufruire di un amnistia o di un indulto sono comunque uscite, perché la loro pena è nel frattempo terminata. E la sicurezza del paese e dei cittadini italiani non è stata messa a rischio. La criminalità negli ultimi anni è finanche diminuita. Le ultime elezioni amministrative, inoltre, ci hanno dimostrato che i voti a sinistra non si ottengono sventolando le bandiere della sicurezza e della repressione. In questi tre anni i problemi del carcere invece si sono drammaticamente aggravati. Non si sa più a chi spetti occuparsi di sanità, il lavoro manca, le condizioni di vita nelle celle affollate divengono insopportabili, la gente si ammazza. Negli ultimi tre giorni si sono suicidati in sequenza tre giovani detenuti a Secondigliano, a Piacenza e a Regina Coeli loro l’indultino non lo vedranno mai. E non saranno tutti i 15 mila con pena residua inferiore ai due anni ad usufruirne. Le limitazioni oggettive e soggettive presenti nel testo licenziato dalla camera ne riducono fortemente la portata. Se si considerano coloro che non hanno ancora scontato metà della pena, coloro che hanno commesso una lunga lista di reati che già li escludeva dai benefici premiali, i detenuti sottoposti a sorveglianza particolare, i delinquenti abituali, professionali e per tendenza, ossia tossici e ladri di mestiere, risulta chiaro che non ci sarà la coda all’uscita dalle carceri. Non ci saranno pericolosi criminali a spasso ad attentare a vecchiette indifese. Non ci sarà un aumento di omicidi o di violenze nelle città. Non ci sarà niente di tutto questo. Ci saranno poche migliaia di persone che, sempre che non preferiscano accedere a una più sicura misura alternativa (lì la pena scorre e non va in sospensione), usciranno anticipatamente dal carcere. Se anche fossero poche centinaia varrebbe la pena, per loro, di continuare questa battaglia, affinché il Senato metta la parola fine a questa lunga, estenuante vicenda parlamentare. E la metta prima che finisca l’estate, quando il caldo e le sbarre divengono un binomio difficile da reggere, e i pensieri cattivi si affacciano prepotentemente nelle teste dei detenuti. E la metta ad un anno dalle dichiarazioni del ministro Castelli, che nell’agosto del 2002, definì le carceri italiane lussuosi grand-hotel. Ieri il suo partito ha perso indecorosamente la battaglia sulla giustizia in Parlamento. La settimana scorsa il guardasigilli aveva presentato alla stampa con orgoglio la Dike Aedifica SPA, società per la realizzazione dei programmi di edilizia carceraria affidata all’ex presidente dell’associazione nazionale costruttori edili. Ieri fortunatamente l’aula di Montecitorio non ha affidato la questione del sovraffollamento al solo ambizioso programma di lavori pubblici del ministro ingegnere.
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