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Rieducazione e i casi Brusca e Novi Ligure di Ottavio Amodio (presidente del Tribunale di Sorveglianza di Potenza)
L’argomento è di grossa attualità oggi che agli onori della cronaca sono balzati due episodi che hanno turbato l’opinione pubblica: i permessi concessi al mafioso Brusca e la richiesta di permesso premio avanzata dal giovane Omar l’omicida di Novi Ligure. Preliminarmente vanno fatte due premesse. La prima è che l’ordinamento penitenziario è legge dello Stato, approvata dal Parlamento, preceduta da un serrato dibattito culturale e seguita da un coro unanime di consensi in quanto poneva (si disse) l’Italia all’avanguardia in Europa sul tema del "trattamento penitenziario"; la seconda è che il Giudice ha l’obbligo di applicare la legge, quando ne ricorrono le condizioni e, quando la legge stessa si presta ad interpretazioni ambigue, deve seguire quella più favorevole all’interessato. L’art 27 cost., che sancisce il principio del "finalismo rieducativi" della pena, impone all’operatore di valutare, nel corso dell’espiazione della pena, l’esito della stessa al fine di pronunziare un giudizio. A tal fine è stato introdotto nell’ordinamento il cosiddetto "trattamento" che deve essere finalizzato non tanto all’obiettivo di modificare gli atteggiamenti personali secondo un modello che, per non essere accompagnato da più concrete indicazioni circa il percorso da seguire, può generare inerzia, quanto a quello di incidere sulla trama delle relazioni personali e sociali degli interessati e, così, favorirne il reinserimento sociale. Sul concetto di rieducazione si contendono il campo due teorie: da una parte vi è chi intende la rieducazione come "risultato", dall’altra chi la intende come "percorso". Tra le due quella costituzionalmente legittima appare la seconda . E, invero, l’art. 27 usa il termine "tendere" e non il termine "ottenere" e più volte la Corte Costituzionale ha ribadito il concetto che i benefici penitenziari possono essere concessi ai condannati che abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto e per i quali non sia accertata la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata. Per troppo tempo nel passato l’idea di rieducazione la si faceva coincidere con quella di correzione morale del delinquente dimenticando che mentre l’illecito è creazione legislativa, non vi è traccia nell’ordinamento giuridico penale di principi morali consolidati. E allora, che significa rieducazione? L’interrogativo si allarga agli altri: la pena ha raggiunto lo scopo per il quale è stata inflitta? Quali sono i parametri di riferimento che consentono al Giudice di affermare che una persona è stata rieducata? Sgombriamo subito il campo da un equivoco: rieducato non significa pentito, la rieducazione non comporta necessariamente un ravvedimento critico interiore. L’esigenza di una revisione critica del passato deviante non risponde alla logica della pena; la mancanza di senso critico potrà essere presa in considerazione solo quando è espressione di un atteggiamento mentale del condannato che tende a giustificare il proprio comportamento antidoveroso. Non vi è alcun sistema umano per dimostrare con cifre la purezza dell’anima e l’innocenza delle intenzioni: la società così come è incapace di rigenerare radicalmente un individuo è altrettanto incapace di constatare la predetta rigenerazione, laddove esista. Far cambiare direzione ad un treno mentre corre sui binari è cosa assai difficile; richiede grandi energie e può avere effetti disastrosi. Si può allora procedere con la immissione di piccole dosi di energia, intervenire progressivamente per far procedere il treno in una direzione piuttosto che in un’altra. Le abitudini cui è sottoposto il detenuto influiranno sulla sua condotta, l’obbedienza in ogni momento a regole inflessibili produrranno sull’animo del detenuto una profonda impressione: quando uscirà dal carcere non sarà forse un uomo rigenerato e onesto, ma certamente avrà contratto abitudini oneste. Il carcere deve, quindi, tendere a trasmettere abitudini affinchè una volta usciti dal carcere i detenuti tengano comportamenti onesti. Gli unici elementi oggettivi che possono assurgere a punti di riferimento sono pertanto i comportamenti del condannato durante l’esecuzione della pena. La stretta osservanza delle regole e delle leggi vigenti dovrebbe bastare a ritenere rieducato un soggetto, non potendosi pretendere da lui altro che il rispetto delle regole e non certo che egli le condivida. Il sistema penitenziario ha il compito di assicurare la difesa della società . Esso deve impartire regole che il condannato una volta uscito dal carcere dovrà continuare a rispettare. Il sistema non può e non deve tendere a cambiare gli uomini ma solo i loro atti. Ognuno deve rispettare le regole della comunità in cui vive, ma non deve necessariamente pensare che esse siano giuste per essere ritenuta persona degna di vivere in società: se questo si pretendesse il condannato sarebbe gravato di un obbligo diverso e più gravoso rispetto agli altri cittadini. E allora e concludendo, quando il Giudice ha evidenziato, attraverso gli strumenti a sua disposizione (relazione di sintesi redatta dalla equipe della casa circondariale che evidenzia i comportamenti tenuti dal detenuto durante la detenzione, informazioni che devono dare indicazioni sull’attualità o meno della pericolosità sociale del soggetto) che il soggetto ha immagazzinato le abitudini d’ordine che il carcere gli ha trasmesso, non può esimersi dall’ammettere il detenuto al beneficio richiesto. Se non lo facesse commetterebbe addirittura un illecito allorché, invece di prendere in considerazione i comportamenti del condannato durante l’esecuzione della pena pretendesse di scandagliare il suo animo alla impossibile ricerca di una trasformazione dell’animo stesso o effettuasse una valutazione sull’atteggiamento mentale o, infine, si lasciasse emotivamente coinvolgere dai sentimenti dell’opinione pubblica che, a buon ragione, ragiona con il cuore e non con il cervello.
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